Dal Secolo d'Italia del 17 settmbre 2011
Non hai un blog? Nascondi qualcosa. Ignori l’esistenza di MySpace? Sei vecchio, dentro. Non sai fare “clippini” su Youtube? Sei tecnoleso. Non cinguetti su Twitter? La tua è mancanza di argomenti. Non hai un “profilo” su Facebook? La questione è più seria e si risolve in due parole: non esisti. Essere (online) o non essere. Nell’era dell’autopromozione globale, la parola magica è connesso. Non c’è mezzo di comunicazione che possa tenere il passo con la rete. Per quanto possa avere lo schermo piatto, il televisore sembra sempre più un elettrodomestico del passato. Lasciarlo a casa, alla fine, non è un dramma. Impensabile, invece, separarci da internet. Cellulare, iPhone, iPad, l’astinenza da web può assalirci in ogni momento. Decenni di innovazioni tecnologiche avrebbero dovuto renderci la vita più facile e non trasformarci in tecnodipendenti, in tossici della tastiera. Sta di fatto che internet ha stravolto non soltanto il nostro modo di comunicare ma le dinamiche stesse delle nostre relazioni sociali. Tutto sembra essere più immediato e accessibile.
L'evoluzione dell'Homo sapiens
Ciò che luccica, tuttavia, non è sempre oro. A tirarsi fuori dal coro dei «tecnoentusiasti» – come li definisce – è Lee Siegel, critico culturale del The New York Times, di cui PianoB ha da poco pubblicato Homo interneticus (pp. 190, € 13,50). «Restare umani nell’era dell’ossessione digitale», recita il sottotitolo del saggio. «Ci stiamo davvero evolvendo da Homo sapiens a Homo interneticus? E siamo sicuri che sia un’evoluzione?», si interroga l’autore che, sin dalle prime pagine, si confronta con «il trionfalismo irrazionale» e la retorica acritica che accompagna le «rivendicazioni democratiche ed antielitarie» di internet. Non si limita a denunciare, come già hanno fanno altri, i pericoli per la privacy e i relativi furti di identità. Le domande che (si) pone sono decisamente più ambiziose. «Che tipo di interessi nasconde internet? Quanto sta influenzando la cultura e la vita sociale?». E soprattutto: «Qual è il costo psicologico, emotivo e sociale della nostra solitudine high-tech?». Perché è vero che internet è la risposta, forse inevitabile, al nostro stile di vita, dominato com’è da attività frenetiche, “disconnesse” e frammentate. Ed è altrettanto vero che, grazie al web e ai social network, chiunque può crearsi un “palinsesto”, farsi un’opinione in barba al giornalismo ingessato della carta stampata, dire la propria – anche chi non ha nulla da dire – e dare libero sfogo alla propria creatività. Da qui a parlare di realizzazione della democrazia e di “libera produzione” di cultura, tuttavia, ce ne passa. «Il talento e l’originalità sono stati sostituiti dalla popolarità a ogni costo e la conoscenza è stata sepolta sotto un eccesso di informazioni indistinguibili – osserva Siegel – perchè la folla di internet denigra l’eccellenza ed eleva il banale e il mediocre».
Ciò che luccica, tuttavia, non è sempre oro. A tirarsi fuori dal coro dei «tecnoentusiasti» – come li definisce – è Lee Siegel, critico culturale del The New York Times, di cui PianoB ha da poco pubblicato Homo interneticus (pp. 190, € 13,50). «Restare umani nell’era dell’ossessione digitale», recita il sottotitolo del saggio. «Ci stiamo davvero evolvendo da Homo sapiens a Homo interneticus? E siamo sicuri che sia un’evoluzione?», si interroga l’autore che, sin dalle prime pagine, si confronta con «il trionfalismo irrazionale» e la retorica acritica che accompagna le «rivendicazioni democratiche ed antielitarie» di internet. Non si limita a denunciare, come già hanno fanno altri, i pericoli per la privacy e i relativi furti di identità. Le domande che (si) pone sono decisamente più ambiziose. «Che tipo di interessi nasconde internet? Quanto sta influenzando la cultura e la vita sociale?». E soprattutto: «Qual è il costo psicologico, emotivo e sociale della nostra solitudine high-tech?». Perché è vero che internet è la risposta, forse inevitabile, al nostro stile di vita, dominato com’è da attività frenetiche, “disconnesse” e frammentate. Ed è altrettanto vero che, grazie al web e ai social network, chiunque può crearsi un “palinsesto”, farsi un’opinione in barba al giornalismo ingessato della carta stampata, dire la propria – anche chi non ha nulla da dire – e dare libero sfogo alla propria creatività. Da qui a parlare di realizzazione della democrazia e di “libera produzione” di cultura, tuttavia, ce ne passa. «Il talento e l’originalità sono stati sostituiti dalla popolarità a ogni costo e la conoscenza è stata sepolta sotto un eccesso di informazioni indistinguibili – osserva Siegel – perchè la folla di internet denigra l’eccellenza ed eleva il banale e il mediocre».
Persino la politica si è virtualizzata e alla vita di sezione si è sostituito il gruppo di amici su Facebook, la pagina fan (sic) e la chat. Sono sempre di più, infatti, i politici che affidano i loro messaggi alla sintesi di Twitter: testi con una lunghezza massima di 140 caratteri. Le idee viaggeranno sì alla velocità della luce ma rimangono sulla superfice. I simpatizzanti, del resto, non chiedono di meglio, per loro è già appagante poterne esibire “l’amiciza” nel proprio “portafoglio” di contatti, tanto numerosi quanto effimeri.
I commenti conditi di smile
Un rapporto la cui virtualità appare evidente scorrendo le bacheche di Facebook: ai frequenti aggiornamenti dello stato del politico, di prassi, non fa seguito alcun “dibattito” ma brevi commenti conditi di smile. I politici, peraltro, raramente replicano agli interventi da loro stessi scatenati e non si fanno alcuno scrupolo nel mostrare indifferenza alle questioni poste, a volte strumentalmente ed altre legittimamente, dagli “amici”. Quel che conta è il numero delle persone che seguono la propria bacheca – raggiunto il tetto dei 5mila contatti, ci si affretta ad aprire altri profili personali per continuare la raccolta di elettori/clienti – e non chi siano, cosa propongono e cosa lamentano. Si cerca di vendere un prodotto, il proprio, se stessi – l’utente, diceva Marshall McLuhan, è il contentuo – e non di interagire con altri, tantomeno di renderli davvero partecipi. La conferma? Se dissentono, vengono cancellati. Già trent’anni fa, del resto, Christopher Lasch scriveva nel suo La cultura del narcisismo che il narcisista, categoria che impazza nella blogsfera, è «colui la cui percezione di sé dipende dall’approvazione di altre persone, di cui tuttavia non gli importa nulla». Un cinismo che è pronto a sacrificare qualsiasi cosa nel nome della popolarità. Verbo cui s’è rassegnata anche l’informazione se si considera che persino i giornali online propongono le classifiche non degli articoli più importanti ma di quelli “più letti”.
Tutto finisce in un mercato
«L’importanza della popolarità come unico criterio di successo su internet – scrive Siegel – dimostra la falsità delle sue rivendicazioni a proposito di “scelta” e “accessibilità”, oltre a smentire le presunte e aumentate opportunità in termini di espressione individuale». Tutto, nell’era di internet, diventa commercializzabile, anche quello che fino a ieri atteneva alla sfera dell’intimità. Il tempo libero, quello che fino a qualche anno fa era riservato allo svago, è caduto nella rete: che si tratti di acquistare online – sia pure sotto forma di gioco, come abilmente propone ebay – o di “divagarsi” con i social network, mai come oggi il tempo libero si fonde con il processo di produzione e il consumo. «Centinaia di milioni di performer online – scrive il critico statunitense – lo stanno mettendo in vendita: i blogger che vogliono essere seguiti; i videoblogger che sperano disperatamente di essere visti; gli utenti di facebook o myspace che pubblicizzano le loro qualità; gli aspiranti romantici di Match.it; i venditori di ebay. Ogni tipo di esperienza è disponibile come forma di cultura: non esistono criteri per giudicare tranne quello della popolarità».
Il senso di gratificazione
Così come la cultura popolare si è dissolta nella cultura commerciale, l’incanto dell’immaginazione ha ceduto alla gratificazione dell’ego promossa dal web. Processo che mina irrimediabilmente il nostro immaginario, relegandolo a un orizzonte sempre più ristretto, che spesso e volentieri coincide con il nostro quotidiano. L’orientamento dell’arte popolare degli ultimi quindici anni, non a caso, è stato quello di cercare di raccontare storie che riducessero il divario tra spettacolo e spettatore, creando l’illusione che non esistano differenze tra noi e i personaggi. Tutti impegnati ad affrontare gli stessi dilemmi e gli stessi problemi. Se una volta il nostro immaginario era popolato di uomini e donne affascinanti quanto distanti, icone misteriose, inavvicinabili, intente a vivere avventure “esotiche”, adesso i personaggi del cinema, della Tv e della letteratura sono chiamati a condividere la nostra noiosa e banale esistenza di tutti i giorni. «I personaggi escono dalla fiction – sottolinea Siegel – per entrare nell’esperienza quotidiana». Una volta lo spettacolo rappresentava una evasione dalla realtà, «oggi sembra che tutti coloro che vogliono fuggire siano inseguiti, radunati e riportati davanti ai propri ego». I personaggi che vediamo in Tv non sono più attori che interpretano un ruolo immaginario quanto seducente; sono “oggetti”, come accade nei reality show, sottoposti al nostro (tele)voto. Lo schermo non mostra più un ideale irraggiungibile, ma una faccia il più comune possibile, con la quale diventi facile immedesimarsi.
«Il culto della popolarità – ne conclude l’autore – sta inculcando a tutti un’intolleranza impulsiva verso tutto e tutti, tranne se stessi, ovviamente». Ovviamente.
Roberto Alfatti Appetiti
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