Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 27 novembre 2011
Tra i "vinti della Liberazione" nella Francia del 1945 sono molti gli intellettuali militanti. Per parafrasare l'inquieto e inquietante Drieu La Rochelle, questi uomini «hanno creduto nell'orgoglio della Collaborazione» ed «hanno perso». La morte è il loro estremo, fatale appuntamento? Drieu la "esigeva" e si tolse la vita, al pari di Georges Claude. Furono giustiziati Robert Brasillach, Paul Chack, Jean Hérold-Paquis, Georges Suarez, Jean Luchaire, Fernand de Brinon. Lucien Rebatet, Louis-Ferdinand Céline e Abel Bonnard furono condannati in contumacia. Successivamente graziati, ritornarono in patria, tranne Bonnard che morì anni dopo in Spagna. Quanto ai tre "D" del collaborazionismo, Marcel Déat scomparve (sembra che si sia rifugiato in un convento, in Italia); Jacques Doriot cadde, in divisa da ufficiale delle Waffen SS, durante un mitragliamento aereo alleato; Joseph Darnand fu processato e giustiziato. Jacques Benoist-Méchin trascorse qualche tempo in carcere. Alphonse de Chateaubriant riparò in Austria, dove morì, sotto falso nome, nel 1951.
Furono colpite anche le idee: per un certo periodo, furono vietate o limitate nella circolazione le opere di Henri Béraud, Georges Blond, Jean Giono, Henri Massis, Charles Maurras, Henri de Montherlant, Paul Morand ed altri. Abbiamo attinto queste informazioni da un noto saggio di Maurizio Serra che, pubblicato nel 1980, viene ora riproposto con l'aggiunta di una introduzione che lo aggiorna alla luce di un trentennio di dibattito storiografico (La Francia di Vichy. Una cultura dell'autorità, prefazione di Francesco Perfetti, pp. 292, euro 28). E abbiamo scelto come incipit il riferimento agli intellettuali "collabo" perché Serra, trattandone da storico, dunque all'insegna del celebre «sine ira et studio» tacitiano, ha sempre mostrato un'attitudine particolarmente raffinata allo scavo nell'intelligenza e nel cuore del "romanticismo fascista". Un'espressione particolarmente felice, questa, perché riesce a "comprendere", cioè, etimologicamente, a "tenere insieme", identità variegate, e in certi casi conflittuali, come quelle che nei modi più diversi nella Francia tra le due guerre, si pronunciarono per la scelta fascista e si trovarono affiancate nell'esperienza del collaborazionismo.
I vinti della Liberazione vincolati dall'appassionato e poi disperato "romanticismo fascista": una generazione intellettuale raccontata in due saggi (pubblicati dalle Edizioni del Borghese) da Paul Sérant che, anche attraverso questi titoli di forte suggestività, mise a fuoco biografie cruciali. Nel "nostro ambiente", come è ovvio, due libri di culto. Ma lo sono anche le opere di un attento e obbiettivo cercatore come Maurizio Serra. Il nostro storico (nonché diplomatico, saggista e attualmente ambasciatore d'Italia all'Unesco), pur evitando di tessere complici reti politiche, esistenziali e, diremmo, emozionali con la materia trattata, fa proprio il consiglio di Raymond Aron (autore, nel 1954, di una celebre Histoire de Vichy 1940-1944, su cui si sofferma Francesco Perfetti nella sua puntuale e argomentata prefazione): «Ogni realtà umana è complessa: volerlo ignorare è fare il gioco dello spirito totalitario, anche in nome della libertà». Il che già ci indica una direzione di percorso estranea ai pregiudizi. In altra parte, Serra aggiunge: «Lo scopo che un autore deve proporsi è che i limiti stessi della sua ricerca servano, più degli eventuali risultati, a favorire interrogazioni intellettuali e morali in chi al suo lavoro abbia voluto accostarsi».
«Interrogazioni intellettuali e morali», si badi bene. Questa deve essere la cifra dello storico e di ogni uomo di buona volontà. Tanto più di fronte al passato che non passa: quello della grandi passioni e delle grandi tragedie del Novecento, che hanno coinvolto masse umane ed élites nelle stesse parole d'ordine. Diversamente percepite e diversamente attestate, è chiaro, perché lo scrittore Drieu, avventuriero ed esteta, dandy e moralista, che si interroga sulla decadenza della Francia e risponde alla mobilitazione fascista, quanto meno per arginarne la piena autodistruttiva, è altro rispetto all'uomo della strada affascinato da uomini e miti della "rivoluzione nazionale". E tuttavia, di fronte alla disfatta, il destino può essere analogo. Dunque, si tratta di cogliere il senso di esperienze "d'eccezione" in un contesto epocale che gioca su grandi numeri: popoli e nazioni.
Serra ha da sempre questa sensibilità di visione e di ascolto: ne abbiamo colto la finezza, quattro anni fa, in Fratelli separati. Il Fascista. Il Comunista. L'Avventuriero (Settecolori), dove vengono posti a confronto, in sequenze ravvicinate, giorni e opere di Drieu, Aragon e Malraux; la ritroviamo in questa nuova edizione della Francia di Vichy. A partire, per l'appunto, dall'analisi che l'autore sviluppa sulla "nuova destra" incarnata dai "collabo" intellettuali nella Parigi occupata dai tedeschi. Fascisti, nazisti, anarchici antisemiti che fossero, Brasillach e Rebatet, Bonnard e Benoit-Méchin, Celine e Drieu (si veda, in appendice al Vichy, lo stimolante saggio Una rappresentazione anti-ideologica: "Gilles" di Pierre Drieu La Rochelle), appaiono comunque, nella galassia di libri, riviste, rivistine, associazioni, gruppi parafascisti, già proliferanti nella Francia degli anni Trenta, come alfieri di una "terza forza" che sconvolge le categorie della destra e della sinistra; mentre sicuramente di destra, «pro aris et focis», legge e ordine, Dio, patria, famiglia, «Francia eterna» e tradizione, sono gli uomini, le istituzioni, le suggestioni della "libera" e "autonoma" Repubblica di Vichy. Cultura dell'autorità e rivoluzione nazionale possono essere la stessa cosa per chi è tentato dall'avanguardia surrealista e magari avverte della affinità con Emanuel Mounier e il gruppo di Esprit e chi continua a essere affascinato dal Maurras nazionalista, monarchico e antitedesco, e magari riscopre la «riforme intellectuelle et morale» di Renan? Ancora: è a Vichy o a Parigi che trovano migliore alloggio Peguy, Sorel, Barrès? Ma nel libro di Serra la trama di riflessioni e interrogativi è davvero fitta. Alla base, una Francia che nel giugno del '40 subisce «la più brutale e totale disfatta della sua storia». Un uomo, il Maresciallo Pétain, eroe della Grande Guerra, «padre della Patria», capo carismatico, che deve restituirle dignità, orgoglio e prospettive future. Un popolo (a proposito, più anti o filotedesco?) che gli si affida. Ma a chi si affidano, in chi e in che cosa confidano gli intellettuali fascisti?
Mario Bernardi Guardi
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