Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 22 novembre 2011
Chi non vuole uscire dalla logica degli anni di piombo, purtroppo, trova ancora adepti in qualche curva di stadi italiani e non solo. Così è possibile trovare nel 2011 un libro che racconta le curve d’Italia come fossero centri sociali di matrice autonoma o anarchica insurrezionalista. Controcultura ultras. Comunicazione, partecipazione, antagonismo (Coessenza, pp.247, euro 15), scritto da Marco De Rose, è il fiore all’occhiello degli ultras allineati a sinistra. L’autore è un ultrà del Cosenza, curva rossa, e frequentatore della Libreria internazionale di Via dei Volsci a Roma, quella fondata dal «sociologo di strada» Valerio Marchi, scomparso nel 2006.
Il fenomeno ultrà viene visto in questo libro come una controcultura, con i suoi linguaggi, i suoi stili, intrisi di comunicazione controinformativa e lotte sociali. Questo è un dato vero, confutabile leggendo le storie di diverse tifoserie italiane. Le conclusioni a cui giunge, tuttavia, sono nefaste. I toni sono fortemente politicizzati. L’analisi che parte da un presupposto valido – quella ultras è una controcultura – si perde nei moniti da ciclostile della curva livornese: «Non siamo e non saremo mai solidali a nessun ultras neofascista, in quanto il suo annientamento è il nostro obiettivo». Appare come un paradosso la realtà di un fronte comune per ultrà omologati, con esponenti delle tifoserie di Ternana, Livorno, Ancona, Cosenza, ribattezzato «fronte di resistenza ultras».
Ha forse un senso ricordare che le Brigate Rossonere, fondate nel 1975, annoverano tra i loro creatori quel Toni Negri leader dell’Autonomia operaia. Caso non unico di commistione tra ultras e militanti politici a sinistra come a destra. Va annoverato in tal senso anche il caso di Beppe Franzo, tra i fondatori degli Indians della Juventus negli anni Ottanta, e successivamente animatore de L’Araldo, centro culturale tradizionalista torinese. Proprio Franzo, qualche tempo fa, presentando ai microfoni di Radio Bandiera Nera il suo libro Via Filadeflia 88 (Novantico), ha ricordato peraltro una rivalità nella rivalità che animava la contrapposizione cittadina torinese tra gli «Indians della Juve, composti in maggioranza da militanti della destra extraparlamentare e i Granata Korps, che radunavano quasi tutto il Fronte della Gioventù missino della città della Mole».
Ma erano quelli i tempi: in certi casi si era ultras e comunisti, o ultras e neofascisti. E storie come quella raccontate da Franzo non sono dissimili a quanto accadeva nelle curve di sinistra. È un pezzo di storia, non lo si può negare e ha un senso ridiscuterne oggi. Quello che appare meno sensato è imitare esperienze di quel tipo ai nostri tempi. Che senso ha, oggi, a giocare a curve rosse contro curve nere? A immaginare trame oscure che legano le curve «di destra» alle forze dell’ordine? È forse di matrice rossa la curva di appartenenza del povero Gabriele Sandri? Oppure quel caso evidenzia un’assurdità che non ha nulla a che vedere con i colori politici e di fede calcistica?
Ai paladini della contrapposizione politica applicata al calcio sfugge poi un altro dato. Sono veramente pochi i casi di curve completamente allineate in un unico fronte politico. I casi più noti quelli dell’Hellas Verona a destra o del Livorno a sinistra: in mezzo tante tifoserie a predominanza trasversale. Ma negli anni d’oro del movimento ultrà italiano, gli Ottanta, le rivalità non erano quasi mai dettate dal colore politico. È il campanilismo, lo spirito di supremazia territoriale che domina nel calcio, e nella sua filosofia, fin dagli albori tardo ottocenteschi derivanti dalla Gran Bretagna. Non si spiegherebbero altrimenti le rivalità stracittadine tra Roma e Lazio, l’antipatia tutta campana tra Salernitana e Cavese, l’odio tra due fazioni un tempo di sinistra come atalantini e fiorentini. Non è figlio della politica il cosiddetto derby d’Italia tra Inter e Juventus, come non lo è quello di Sicilia tra Palermo e Catania.
Diverso è il senso delle battaglie condivise «contro il calcio dei padroni», altro che la certificazione di conformità ideologica che certi “compagni” vorrebbero.
Negli ultimi anni il mondo ultras ha avuto di che lamentarsi. Da provvedimenti discutibili come la tessera del tifoso fino a casi di eclatante ingiustizia come quello riguardante la morti di Gabriele Sandri e Matteo Bagnaresi. È quasi naturale che gli ultras fungano da comune cassa di risonanza di battaglie civili: è logico che chiedano di essere ascoltati, che pretendano garanzie, che non vogliano essere l’anello debole della catena chiamata calcio. Ma non è il clima da «noi contro di loro» che può risolvere il problema. L’antifascismo da stadio è solo uno scimmiottamento di contrapposizioni desuete, dannose, che hanno generato un clima di odio e una stagione di sangue. Di un periodo che, per fortuna, non interessa il mondo del calcio, che avrà pure mille difetti ma che non è toccato, nemmeno per sbaglio, dagli antagonismi da guerra civile fuori tempo massimo che piacciono tanto a qualche nostalgico.
Giovanni Tarantino
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