Dal Secolo d'Italia del 19 novembre 2011
Sotto a un treno. Una metafora che non regge, ché i treni sono ormai appannaggio dei diseredati – studenti, immigrati e pendolari – e non dei banchieri. I mercati finanziari non corrono su rotaia e non conoscono stazioni. Siamo finiti sotto allo spread: più cresce e più (noi) scendiamo. Raggomitolati sotto al tavolo dove altri prendono le decisioni. Lui sì, lui no, come quando da bambini giocavamo a pallone e i due capitani, a turno, uno dopo l’altro, sceglievano chi far giocare. La paura era rimanere fuori. Dal campo, allora, e dall’Europa, in questi giorni. Una situazione che, per usare un eufemismo, rimane difficile.
«Un momento in cui ti sembra che il tuo paese stia naufragando, che la repubblica democratica in cui sei cresciuto stia diventando qualcosa di pericolosamente diverso, che tutta una serie di diritti che pensavi fossero stati acquisiti vengono messi in discussione o cancellati». Quando Gianfranco Franchi, giovane letterato romano di sangue giuliano, austriaco e istriano, poche settimane fa, ha messo nero su bianco L’arte del Piano B (Piano B edizioni, pp. 160 € 13,50), la situazione politica non era ancora precipitata ma, come ci spiega in questo divertissement, l’uomo del Piano B è abilissimo a fare previsioni. «Non te l’aspettavi ma lui, tutto a un tratto, ha preso e cambiato. Che mentre tu ti sei consegnato mani e piedi a un disastro fatto di routine, tasse, debiti e sacrifici lui è riuscito a indovinare una strategia per costruirsi una vita fatta di soddisfazioni sensate a costi ragionevoli».
Tasse, debiti e sacrifici. Parole che mai come in questi giorni suonano minacciose. Non che pensassimo davvero di essere usciti dalla crisi, più semplicemente non credevamo di aver bisogno di un Piano B. «Tu eri uno a cui le cose non potevano non andare che in un certo modo. Tu eri quello a cui avevano detto che era nato fortunato, non come i nonni. La tua generazione non aveva avuto la guerra in casa. La tua generazione non doveva ricostruire l’Italia dalle rovine. La tua generazione doveva semplicemente arrivare a un certo livello per mantenere lo stato sociale che i tuoi genitori e i tuoi nonni avevano conquistato».
L’uomo del Piano B, invece, aveva fiutato il pericolo e s’era messo a studiare una via d’uscita, facendo tesoro delle esperienze, sue e di altri, e simulando scenari e variabili prima di sposare la soluzione migliore per lui. «È uno che ha capito che non ha senso innamorarsi delle proprie idee: ha senso dare vita a sempre nuove idee». Per questo il sottotitolo scelto appare quanto mai indicativo: «un libro strategico». Un libro arguto, aggiungiamo noi, che si alimenta di autoironia e coltiva intelligenza, sprona all’iniziativa, si schiera dalla parte delle idee che hanno l’ambizione e la necessità di diventare azioni. Fedele a se stesso, l’uomo del Piano B ha impressa a fuoco nel proprio Dna un’antica massima di Appio Claudio Cieco, riferita da Sallustio: Faber est suae quisque fortunae. Vale a dire: «ciascuno è artefice del suo destino».
A volte, tuttavia, può esserlo anche per il destino altrui. Richard, il protagonista di Second Hand – il romanzo dello statunitense Michael Zadoorian, tradotto in italiano nel 2008 grazie alla Marcos Y Marcos – potrebbe tranquillamente essere un uomo del Piano B. Il suo mestiere, a ben guardare, somiglia molto al Piano B delle tante persone stufe di vivere gran parte delle loro giornate in un ufficio anonimo per raccogliere uno stipendio mediocre, o in un negozio a vendere cose incredibilmente costose a persone pronte a indebitarsi pur di assicurarsele.
Richard, almeno all’apparenza, è un semplice robivecchi, eppure la via che indica è talmente rivoluzionaria da rappresentare, potenzialmente, una sfida contro le perverse dinamiche del turbo consumismo, il cui inesauribile motore è rappresentato dal culto dello spreco. In che modo? L’invito che Richard ci rivolge è a riflettere su cosa è importante e cosa non lo è. Proprio a iniziare dagli oggetti di casa. Uno per uno: ci serviva davvero o il nostro era un bisogno indotto? Non una mera valutazione di utilità/funzionalità. Al di là della materialità, gli oggetti possiedono una loro spiritualità, portano con sé una storia e un carico di significati. Hanno avuto o potrebbero dare un senso nuovo alle nostre vite. Non si tratta solo di liberarci degli oggetti più insignificanti e di ricalibrare le nostre spese alla luce di un lucido esame delle nostre reali necessità. Tutto il mondo è a caccia di novità ipertrendy e ipertecno? Richard con i suoi vecchi oggetti “vissuti” ci propone una nuova iniziazione alla vita, alternativa a quella consumistica. «È un’iniziazione alla pietà e alla comprensione autentica – scrive Franchi – ovvero un’iniziazione alla memoria delle persone e delle culture perdute, superate o dimenticate, nel tempo».
Una lezione che il californiano Dave Bruno ha dimostrato di aver appreso, rielaborandola con la pubblicazione di un libro che negli Usa ha spopolato e che ci auguriamo di poter leggere quanto prima anche in italiano: 100 Thing Challenge, “La sfida delle 100 cose”. L’imperativo è analogo: nelle nostre case devono esserci meno cose di quelle che, generalmente, accumuliamo. «Per un popolo come quello nordamericano, che ha accompagnato l’Occidente nel baratro educandolo all’arte dell’indebitamento gratuito, supremo e assoluto, un libro del genere diventa una missione», argomenta Franchi.
Un altro mondo è possibile, in cui non si smania per rincorrere status symbol e si è succubi di una pubblicità sempre più invasiva. Il numero che Bruno ha scelto, cento, è simbolico: un’indicazione di massima, una direzione che serve a non perdere di vista l’obiettivo finale. Che è soprattutto quello di addestrare le future generazioni a vivere in un mondo radicalmente diverso da quello che hanno conosciuto i nostri genitori e abbiamo conosciuto noi durante la nostra infanzia. Si tratta, è chiaro, dell’attuazione di un Piano B estremamente accattivante. Coincide con una rivoluzione culturale che potrebbe cambiare tanti equilibri e tante abitudini nell’Occidente, il cui aspetto più affascinante è che presuppone freni, limiti e soglie alla produzione sregolata e smodata, proponendosi di rieducare a un consumo consapevole.
«In un certo senso – spiega Franchi – dobbiamo incoraggiare la recessione economica perché possa sprofondare questo sistema assurdo nell’abisso che gli spetta». Il mondo che nascerà dalle sue rovine dovrà tornare a essere a misura d’uomo, restituendo valore, senso e significato a tutte le cose. A partire da quelle più piccole, simboliche, vecchie, vissute e rovinate. Se a Diogene bastava il sole, non è detto che a noi non possano bastare addirittura cento cose. Sono sempre novantanove in più del maestro. Cento cose, magari la metà di seconda o di terza mano. Tutto un altro mondo, che ha bisogno di uomini (e donne) del Piano B. «L’uomo del Piano B è quello che ti piace pensare che esista soprattutto in un momento come questo».
Mario Monti lo è? Lo abbiamo chiesto direttamente a Gianfranco Franchi.
«Quel che mi sembra Monti rappresenti – ci ha risposto – è ciò che ben sappiamo, vale a dire che viviamo in un paese militarmente occupato da sessant’anni, considerati un paese vassallo da amministrare con la dovuta accortezza, considerati un buon mercato per gli interessi nordamericani. Il primo problema dell’Italia è che non è affatto una nazione indipendente, e ha ridotti margini di autonomia. Il secondo problema è che non credo che Usa ed Europa siano destinati a restare alleati. A dirla tutta, non mi sembra che lo siano. Non sempre».
Avete capito ora? Non rimane che mettersi a tavolino e inventarsi un bel Piano B.
Roberto Alfatti Appetiti
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