Da Area di gennaio 2012
«Non esiste una città al mondo come Parigi. Al mattino è bellissima. Di pomeriggio è meravigliosa. Di sera è incantevole. Ma dopo mezzanotte è magica». A molti critici è stato sufficiente guardare il trailer per stroncare con sufficienza Midnight in Paris di Woody Allen. Dopo la Manhattan degli inizi, ha trasferito il set a Londra, Barcellona e ora a Parigi, lasciando – hanno detto – che il fascino dei luoghi colmasse la superficialità della sceneggiatura.
Giudizio, questo sì, superficiale. Perché l’ultima pellicola del regista americano non è solo una, sia pur raffinata, commedia romantica dalla fotografia suggestiva. Le fobie cui Allen ci aveva abituato cedono il passo alla speranza, la nostalgia è proiettata nel futuro, la malinconia diventa una freccia nella faretra del protagonista.
Gil Pender (Owen Wilson) è uno sceneggiatore di successo con un romanzo, incompleto, a prendere polvere nel cassetto. È in vacanza con la fidanzata ma soprattutto è in cerca d’ispirazione. Si muove sulle tracce di quegli scrittori americani che negli anni Venti scelsero di vivere a Parigi, vera e propria calamita per tutto quanto di nuovo emergeva nella letteratura, nella musica e nella pittura. Difficile ritrovare quella frenesia culturale nei circuiti turistici di massa. Sei solo un sognatore, gli ripete la ragazza, che quasi lo compatisce, preferendo immergersi nello shopping e frequentare gli amici. Non bastava, infatti, che in città ci fossero anche i genitori di lei, Allen rincara la dose facendo entrare in scena un amico della ragazza: un intellettuale costruito a tavolino, privo di curiosità e con nozioni utili in ogni occasione.
Gil, tuttavia, ha qualcosa che l’altro non possiede: un immaginario, delle passioni letterarie coltivate con cura, dei sogni con cui confrontarsi per rinascere al mondo. Il sogno, del resto, è parte integrante e fondamentale della vita stessa. Cosa saremmo senza sogni? Chi l’ha detto che i miti possano solo essere incapacitanti? Accadrà così che una notte, per una specie di benevolo sortilegio, si troverà catapultato nella Parigi del passato, a casa di Cole Porter, insieme a Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda. Una bolla spazio-temporale che gli permetterà ogni notte di frequentare Ernest Hemingway, Salvador Dalì, Gertrude Stein, Pablo Picasso e conoscere Adriana, una donna che gli farà capire che l’età dell’oro non esiste e che la bellezza è presente in ogni tempo, se solo si riesce a trovarne l’intima bellezza. Vivere nell’attualità non significa conformarsi ma difendere quel che si ama del passato e declinarlo nella quotidianità. C'è un solo modo per liberarsi della nostalgia – sembra dirci Allen – ed è finirci dentro fino al collo.
«Non scrivi bene se hai paura della morte», gli dice Hemingway. Mentre Scott e Zelda lo invitano a godersi con più intensità i suoi giorni parigini perché domani non abbia nessun rimpianto.
«Ricordo una notte in cui Scott Fitzgerald e sua moglie tornarono a casa dalla festa – dice il regista – e non avevano consumato altro che champagne nei tre mesi trascorsi, e una settimana prima, in abito da sera, avevano guidato per scommessa la loro limousine, giù da un’altura di trenta metri sopra l’oceano. C’era qualcosa di autentico nei Fitzgerald. I loro valori erano elementari».
I due erano perfetti per diventare l’icona stessa della “generazione perduta”, come Ernest Hemingway, nel suo romanzo Fiesta, definisce quel gruppo di scrittori esuli a Parigi, alcuni dei quali dopo aver prestato servizio nella prima guerra mondiale. Un “appuntamento” cui Scott non avrebbe potuto mancare: giovane del Sud, cresciuto in un ambiente familiare in cui valori come l’onore e il coraggio erano di casa, era partito volontario per la guerra. Analoga sete di avventura animava il suo amico Hemingway. Altro che college, polverosi libri e carriera universitaria. Neanche il tempo di diplomarsi e già è in Francia: autista di ambulanze per la Croce rossa americana. Di lì in Italia, a trasportare morti civili, con una tale fretta di diventare eroe da beccarsi due pallottole di mitra e centinaia di frammenti di metallo nelle gambe per l’esplosione di un mortaio da trincea nei pressi della linee italiane sul Piave. È l’8 luglio del 1918, non ha ancora compiuto diciannove anni. Poco più che ventenne e già sposato, era già a Parigi dove poté conoscere uno dei suoi miti. Primo tra tutti Ezra Pound, che considerò da subito suo maestro e grazie al quale cominciò a pubblicare poesie e racconti su riviste letterarie. Hemingway amava affermare di essere ‘fraid a nothing, di non avere paura di niente. Non potevano che diventare amici, lui e Scott. «La ricchezza è diversa da voi e da me: ha subito posseduto, subito goduto, e questo produce un effetto speciale», ripeteva Fitzgerald a Hemingway, non mancando di sottolineare nelle sue opere l’amoralità e le ingiustizie generate dalla ricchezza che avevano conosciuto e frequentato ma cui sentivano di non appartenere.
«Un ritrattista perfetto di quel mondo ricco e indolente ma soprattutto un autore universale capace di trasmettere ancora oggi il dolore, la fatica, il peso di vivere e l’eterna infelicità dell’esistenza». Così definisce Fitzgerald lo scrittore Giuseppe Culicchia, cui Minimum Fax ha affidato la traduzione in lingua italiana dell’ultima edizione dei Racconti dell’età del jazz. Sono trascorsi settanta anni dalla morte dello scrittore americano e quando, all’inizio del 2011, le sue opere sono tornate di pubblico dominio, Minimum Fax non si è lasciare sfuggire tale opportunità e dopo aver pubblicato autori ormai classici come Raymond Carver, Bernard Malamud e Richard Yates, ha proseguito nella riscoperta dei maestri del Novecento americano con i suoi capolavori. Il grande Gatsby, Tenera è la notte e le altre opere di Fitzgerald rivivono ora in traduzioni del tutto nuove, affidate ad alcuni dei narratori italiani più talentuosi sulla scena di oggi in un inedito incontro tra il passato e il presente della letteratura: Francesco Pacifico, Tommaso Pincio, Veronica Raimo e, per l’appunto, Giuseppe Culicchia.
«All’indomani della sua morte – ha detto l’autore di bellissimi romanzi come Il paese delle meraviglie – il New York Times scrisse di Francis Scott Fitzgerald che era “migliore di quanto egli stesso si ritenesse, perché in realtà e nel vero senso della parola inventò una generazione”. E quando da parte mia per la prima volta m’imbattei più o meno per caso in questi suoi Racconti dell'età del jazz, m’innamorai di lui, della sua scrittura e delle sue ragazze del profondo Sud leste a tagliarsi i capelli alla maschietta e a salire sui tavoli per ballare il charleston, oppure giocare a dadi come i loro fratelli maggiori».
Qualcosa del genere deve essere successa anche al Gil di Allen.Tanto da fargli capire – a lui come a molti altri che non hanno alcuna intenzione di seppellire i propri sogni – che il passato non debba essere solo un santino da glorificare ma un prezioso alleato nella costruzione del nostro futuro.
Roberto Alfatti Appetiti
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