Dal Secolo d'Italia del 22 aprile 2012
L’appello, ormai, è quotidiano. Proprio come accade nelle nostre scuole. Ogni mattina si ripete, poco dopo lo squillo della campanella. Ad essere (ri)chiamati sull’attenti, però, non sono soltanto gli studenti, insonnoliti, malinconici e fondamentalmente distratti, ma gli italiani tutti. Inutile dire chi sono i professori, ne è pieno il governo e si alternano disinvoltamente alla cattedra. Di preside, tuttavia, ce n’è uno solo: Giorgio Napolitano. Lui ha compiuto l’impresa che un altro Giorgio, Almirante, non riuscì a realizzare: affermare erga omnes il valore del senso dello Stato, farne un messaggio politicamente corretto, universale, ecumenico, orecchiabile e inoffensivo come una canzone di Jovanotti. Sdoganarlo, come si usa dire in quest’epoca mercantilista. Perché, neanche troppi decenni fa, il senso dello Stato evocava, se non tout court il fascismo, la minaccia autoritaria, la svolta conservatrice o, per dirla con due parole micidiali e complementari al tempo stesso, la deriva reazionaria. L’anticamera di quel golpe puntualmente annunciato e mai realizzato, vagheggiato da golpisti immaginari ed eserciti di zelanti pubblici ministeri.
Rivolgersi ai partiti, alle forze sociali e sindacali e al Paese chiedendo (pretendendo) unità, spirito di responsabilità, predisposizione al sacrificio in nome dell’interesse collettivo – quel poco che c’è da salvare, almeno – ancora trent’anni fa avrebbe alimentato ben altri spauracchi: non l’uomo in loden, rassicurante ma temibile, ma quello nero, per intenderci. Anni in cui a sinistra il dogma era quello internazionalista, il tricolore bandito e persino tifare per la nazionale di calcio veniva considerato atteggiamento sospetto, inequivocabile cedimento revanscista. Non che a destra il senso dello Stato venisse sempre assunto nelle dosi consigliate. Porzioni troppo robuste provocavano effetti collaterali tutt’altro che positivi. Il rischio? Farsi guardie bianche di un sistema spesso indifendibile o, peggio, offrire comoda manovalanza a millantatori e spioni, figure che “nell’ambiente” di certo non mancavano. Cattivi maestri che, a giudicare dai tanti ripetenti che si ostinano a popolare le cronache più recenti, han ben seminato.
Ora però, ci hanno spiegato con la pazienza necessaria con studenti duri di comprendonio, i tempi sono maturi. Termine, quest’ultimo, che suona come un’ironica metafora di questa stagione in grisaglia. Archiviato, speriamo solo momentaneamente, il bipolarismo, l’appello o è bipartisan o non è. La ricetta del lacrime, ministeriali, e sangue, popolare, sembra appassionare tutti, in particolar modo coloro che non verseranno sangue. La Grecia sembra ogni giorno più vicina ma se ci stringiamo l’uno all’altro – «vogliamoci bene», urlava in mondovisione Fabio Caressa nel salutare l’Italia campione del mondo del 2006 – magari non potremo coltivare una suggestione di vittoria ma cercare, al più, di tenerci fuori dalla zona retrocessione. Se nell’Italia del secondo dopoguerra la commedia italiana ci raccontava poveri ma belli, in quell’attuale siamo precari ma felicemente patriottici. Non rimane, quale unica consolazione, pensare al figliol prodigo, il senso dello Stato, figlio nostro che altri hanno adottato e introdotto in società, facendolo debuttare al gran ballo della crisi. «Niente provoca più danno in uno Stato del fatto che i furbi passino per saggi», ammoniva Francis Bacon. E forse non aveva tutti i torti.
Roberto Alfatti Appetiti
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