da Area di aprile 2014
Il più
grande scrittore degli ultimi duemila anni? Louis Ferdinand Céline. Quello più
autentico? Knut Hamsun, «che ha dovuto vivere le cose che ha scritto». Il nostro
Dio? John Fante. Così parlò Bukowski. Charles per i critici, Henry per
l’anagrafe americana (in realtà nacque come Heinrich ad Andernach, in Germania )
e Hank per gli amici e per chi, come il giornalista e saggista Roberto Alfatti
Appetiti, lo conosce da molto tempo – ne scrisse proprio su Area già
negli anni Novanta – e bene. Tanto bene da scrivere una biografia, Tutti
dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti edizioni, pp.
336, € 19) che sta facendo saltare sulla sedia tutti coloro che, a distanza di
venti anni dalla morte del grande scrittore americano, avvenuta il 9 marzo del
1994, continuano a rappresentarlo come l’icona pacifista e un po’ naif buona per
tutte le stagioni. L’autore pubblicato in quanto personaggio. Il furbastro che
riempiva di sesso i suoi racconti per vendere.
Un
castello di luoghi comuni che Alfatti Appetiti spazza via con uno studio inedito
e politicamente scorretto che mette in luce la complessa personalità dello
scrittore e i suoi sorprendenti riferimenti culturali, solidi quanto
insospettabili. Nel pantheon personale del vecchio Hank, infatti, non ci sono
Jack Kerouac ed Henry Miller, ai quali è stato spesso accostato, ma quelle che
lui definisce «le vecchie pellacce che si sono battute così bene». Hemingway,
che però gli venne presto a noia – «I vincenti non mi piacciono perché
ingrassano e cominciano a sbattersene di tutti e scrivono cose come Il
vecchio e il mare» – e soprattutto i suoi numi tutelari: Céline e Hamsun.
Non si stanca mai di leggere il primo e il secondo è il suo inarrivabile punto
di riferimento, la sua stella cometa. Cos’hanno in comune il “vecchio
sporcaccione” e l’autore del Voyage? «Céline era un uomo molto
coraggioso. Mi piace il coraggio. Mi fa stare bene. È una questione di stile,
che è l’unica cosa che ci resta», sottolinea Bukowski. E quali affinità possono
avere mai l’ubriacone che si trascina di locale in locale, immortalato da Mickey
Rourke in Barfly, con i viandanti di Hamsun e con il tenente
Thomas Glahn, il protagonista di Pan, che a metà Ottocento vive di
caccia nella natura selvaggia del Nordland? Bukowski, che volle, fortissimamente
volle, fare di una metropoli alienante come Los Angeles la sua casa, cosa può
ritrovare di “familiare” in un cantore della tradizione contadina qual è lo
scrittore norvegese? La risposta è più semplice di quanto si pensi e la offre
Alfatti Appetiti nel suo approfondito saggio. La diffidenza nei confronti delle
lusinghe della civiltà moderna. La difesa della propria integrità di uomini,
sempre, anche nelle situazioni più degradate e degradanti. «Se fossi stato come
Rourke nel film – spiegò lo stesso Bukowski – non mi avrebbero mai affittato una
stanza». E l’attenzione ai “matti”, a chi vive sull’orlo del baratro, a chi non
si adegua al pensiero unico e non accetta regole e principi di un mondo
mercantile e industrializzato rispetto al quale si sente estraneo.
Sensibilità, quest’ultima, che lo avvicina a un altro
grande irregolare del Novecento, il rumeno Emil Cioran. Non si sono mai
incontrati, i due. Cioran aveva fissato la sua dimora a Parigi mentre a Bukowski
era stato sufficiente visitare un’unica volta la capitale francese per rimanerne
deluso: Cèline era morto e la gente, nei bar, lo guardava con sospettosa
alterigia. Ma, azzarda Alfatti Appetiti, si sarebbero piaciuti, Charles ed Emil,
animati com’erano vocazione ad andare controcorrente, dalla stessa passione per
le battaglie perse. Ai tempi del college, indignato dallo spirito antitedesco
dei suoi professori, Bukowski si era divertito ad assumere provocatorie pose
naziste e Cioran, nello stesso periodo, si era lasciato affascinare da Corneliu
Zelea Codreanu e dalla sua Legione dell'Arcangelo Michele. Non era un’adesione
politica vera e propria, la loro. A muoverli era l’esigenza insopprimibile di
reagire al conformismo imperante. Nessuno dei due, a ben vedere, crede nella
politica – e più in generale nella democrazia – ed entrambi auspicano un mondo
liberato dal lavoro.
Attenzione, però, a fare di Bukowski uno scrittore
sociale. Non ne ha il tono lamentoso. Non ha l’ambizione di cambiare il mondo.
Non è il portavoce di nessuno e l’unica causa per cui combatte è
la propria. Bukowski è uno scrittore di sentimenti, non di idee. Si lascia
trascinare malvolentieri nel cosiddetto dibattito culturale e quando proprio non
può farne a meno – tra gli oneri della fama c’è quello di prendere posizione
sull’attualità – diventa una furia. Si scaglia contro tutto e tutti. Contro i
beat, anche se molti tra loro lo apprezzano e Ferlinghetti giocherà un ruolo non
indifferente nell’affermazione di Bukowski. Contro l’establishment letterario.
Contro i poeti omosessuali, rei di aver condannato la poesia
all’autoreferenzialità. Contro le donne. Da qui la leggenda del Bukowski
misogino, una delle tante da lui stesso alimentate con una pervicacia degna di
migliore causa. Se tutti dicevano che era un bastardo, a ben vedere, lui non
faceva molto per smentirli. In realtà, quand’era ragazzo, l’acne, oltre a
scavargli il viso, aveva aperto un solco tra lui e l’universo femminile. Le
donne si accorsero di lui dopo i primi “successi” letterari e da allora, per
recuperare il tempo perso, divenne un avventuriero seriale. Le raccoglieva come
«prugne mature» direttamente sugli sgabelli dei bar. Le femministe l’avevano
messo all’indice perché i riferimenti al sesso debole, nelle sue opere, erano
tutt’altro che lusinghieri. «Provate voi a vivere con le donnacce con cui vivevo
io», ribatteva Bukowski, che rivendicava il diritto di raccontare le sue
relazioni senza infingimenti. Eppure sosteneva che, da quelle “donnacce”, aveva
imparato più che da eserciti di intellettuali. Più di un valent’uomo, avvertiva,
è stato rovinato da una donna, ma a “salvarlo” è una donna, la sua seconda e
ultima moglie, Linda Lee. È lei a rimetterlo in carreggiata e ad allungargli la
vita di una decina d’anni almeno, mettendolo a dieta e moderandone gli eccessi.
Niente più sbronze e puttane. E poco importava che i lettori gridassero al
tradimento. Avrebbe potuto mentire loro, continuare senza fatica a servirgli il
solito menù, come fanno quasi tutti gli scrittori di successo: smettono di
scrivere e si armano di fotocopiatrice. Ma vita e scrittura per Bukowski non
sono separabili e la verità, la sua verità, rimane l’unico obiettivo per cui
valga la pena vivere e scrivere.
Giuseppe Alessandri
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