Dal mensile Area, luglio – agosto 2000
La condanna di “indegnità sociale” che nel secondo dopoguerra colpì Giuseppe Berto e con lui tutti coloro che avevano aderito al fascismo senza poi volerlo rinnegare, pesa ancora oggi come un terribile macigno su questo autore anticonformista, impedendone un definitivo quanto legittimo riconoscimento come uno dei più importanti scrittori italiani del Novecento.
Una vera sindrome da outsider, dalla quale Berto non si liberò mai, come amaramente riconobbe: «La mia generazione ha commesso un’infinità di errori, ma l’errore più grosso è quello d’essersi coltivata dentro un senso collettivo di colpa, una convinzione d’indegnità che ci ha portato sbrigativamente al disinteresse, alla rinuncia a esercitare una funzione attiva nella società e perfino nella famiglia».
Quando pochi mesi fa l’editore Bollati Boringhieri ha pubblicato la bella biografia di Dario Biagi La vita scandalosa di Giuseppe Berto, ne fummo felici, sperando che attorno alla figura e all’opera del grande scrittore trevigiano si riaprisse il dibattito e che altri editori ne traessero spunto per riproporne al pubblico le opere. Ma dopo qualche fugace ed imbarazzata recensione giornalistica è sceso nuovamente il sipario. Del resto al timone di buona parte delle case editrici (salvo lodevoli eccezioni) non ci sono forse gli allievi e i discepoli di quell’establishement culturale che Berto combatté intrepidamente, spesso da solo, pagando l’altissimo prezzo di un sistematico ostracismo che continua anche oggi, a più di vent’anni dalla sua morte?
Il pregio del contributo di Biagi è invece quello di aver riacceso le luci dei riflettori sulla vita di un personaggio ribelle e guastafeste, raccontandone la storia di non allineato, i trionfi e i tonfi, delineandone un ritratto fedele e affettuoso: «Berto aveva tutto per essere un vincente: talento, fascino, simpatia; ma volle – fortissimamente volle – iscriversi al partito dei perdenti».
Giuseppe Berto da Mogliano, Bepi per gli amici, aveva partecipato alla guerra d’Abissinia come volontario sottotenente di fanteria e nei quattro anni della campagna di guerra aveva superato un attacco di malaria, sfiorato la morte e preso una pallottola nel calcagno destro. L’insofferenza del suo carattere fece sì che non si accontentasse delle due medaglie d’argento e di bronzo ricevute quale riconoscimento al suo valore di soldato, così come non lo gratificò ricoprire a soli ventisette anni la carica di segretario locale del fascio. Cercava la guerra e dopo pochi anni, tacendo dell’ulcera che lo affliggeva, riuscì ad arruolarsi nuovamente per l’Africa dove, nella estate del ‘42, l’aspettava il IV Battaglione Camicie nere.
Auspicava, con l’ala radicale degli idealisti alla Berto Ricci, una seconda e rigeneratrice rivoluzione fascista: «l’aver partecipato con onore a questa guerra», disse, «costituirà un buon diritto per fare la rivoluzione».
La guerra, però, finì male e nel maggio 1943 dall’Africa finì in Texas, prigioniero nel fascist criminal camp “George E. Meade” di Hereford, dove, appena arrivato, apprese della caduta di Mussolini.
Pur nella veste di recluso trovò «condizioni straordinariamente favorevoli» per scrivere e pensare. Aveva appreso che trecento aerei Alleati avevano bombardato Treviso il 7 aprile 1944, lasciando più di mille morti e trentamila senzatetto e volle scrivere di getto, immaginandola con incredibile realismo, la storia di quella «perduta gente». In soli otto mesi il libro fu pronto. Fece giusto in tempo a completarlo, perché gli americani cambiarono atteggiamento verso i non collaboratori, costringendoli a digiunare e a rimanere anche cinque o sei ore sotto il solleone pomeridiano per piegarne la resistenza. Berto non collaborò e dopo lunghi mesi di tormenti fu rispedito in patria.
Longanesi accettò di pubblicare il libro di questo principiante arrivato dalla campagna del triveneto e dopo aver modificato il titolo Perduta gente, ritenuto lugubre, in Il sole è rosso, lo dette alle stampe pochi giorni prima del Natale 1946.
Fiducioso nelle sue capacità, ma conscio delle difficoltà pratiche che comporta l’incerto mestiere dello scrittore, cominciò a scrivere anche sceneggiature per il cinema, un mestiere «vile» per campare in attesa di realizzarsi con quello «nobile» della letteratura. Lo fece spinto da ragioni di sussistenza, ma anche abbagliato dal miraggio del set e dall’aspirazione di diventare regista.
Il Sole è rosso registrò un clamoroso successo di vendite in Italia e all’estero, sbancò in Spagna, Svizzera, Scandinavia, Stati Uniti (ventimila copie in pochi mesi) e in Inghilterra si impose come un vero best-sellers (cinquemila copie in un giorno), tanto da essere definito dagli inglesi «il più bel romanzo uscito dalla seconda guerra mondiale».
La consacrazione letteraria arrivò nel 1948 con l’assegnazione del prestigioso Premio Firenze. La prima battuta d’arresto ci fu, invece, nel 1951, con la pubblicazione del romanzo Il Brigante (ripubblicato da Marsilio nel 1997). Il libro ebbe un considerevole successo negli Stati Uniti, sino ad essere giudicato un capolavoro dal Time, ma in Italia fu sminuito dalla critica, che continuava a guardare con sospetto quel dilettante, fortunatamente asceso alla ribalta, le cui opere traboccavano di «facile romanticismo» e «trame da giornali a fumetti».
I cenacoli culturali non chiedevano di meglio che mettere alla porta quel parvenu, ricordando la sua non collaborazione con gli Alleati anche a guerra persa e appiccicandogli addosso l’etichetta di fascista nostalgico. E Berto, ricorda Biagi, «uomo orgoglioso e leale pur di non rinnegare gli ideali […] contribuiva ad alimentare la diceria». Fama che si consolidava ogni volta che Berto puntava l’indice accusatore sulla repentina conversione all’antifascismo di tanti «padreterni letterari» o lanciava goliardiche provocazioni: «Come si può far si che il numero dei comunisti diminuisca senza ricorrere alla prigione o al taglio della testa?». Battute decisamente azzardate in un epoca nella quale, come scrive Biagi «il patentino di antifascista era obbligatorio per essere ammessi nella buona società letteraria».
La pubblicazione nel 1955 di Guerra in camicia nera, ricostruzione dei suoi diari di guerra, determinò, sempre per rimanere alle parole di Biagi, il suo tracollo e «la sua definitiva messa all’indice da parte del mondo letterario». Berto dichiarò guerra al “Palazzo” e diventò un vero e proprio fustigatore del malcostume letterario. Il giornalismo cosiddetto democratico lo ricambiò ignorando quello che sarà definto, più tardi, a pacificazione raggiunta, il «tentativo più onesto per spiegare la gioventù fascista».
Singolare condizione per uno scrittore che, snobbato dalla critica ufficiale, godeva della stima di Hemingway. Il grande scrittore americano, intervistato l’anno precedente a Venezia, aveva dichiarato ad un «Montale allibito» di apprezzare lo scrittore trevigiano ed espresso persino il desiderio di incontrarlo. Anche la sua attività di sceneggiatore, che negli anni precedenti lo aveva visto tra i più richiesti dell’industria cinematografica, segnò il passo. La crisi d’ispirazione, la mancanza di sponsor e le difficoltà economiche, contribuirono a provocare in Berto quel “male oscuro” della depressione, la cui esperienza, per uno strano capriccio del destino, trasposta nel 1964 nel celebre libro, finì per restituirgli, con gli interessi, la meritata celebrità.
Nel mirino di Berto rimaneva sempre la nomenklatura culturale e nel 1962 non si fece sfuggire l’occasione che il secondo Premio Formetor gli fornì per attaccare «l’illustre e onnipotente Moravia», supremo sacerdote e deus ex machina di quel mondo blindato e autoreferenziale. Il premio, che consisteva in sei milioni di lire e nella pubblicazione dell’opera vincitrice in tredici paesi, era stato assegnato alla venticinquenne Dacia Maraini, a danno del grande Luciano Bianciardi che concorreva con La vita agra. La Maraini era stata caldeggiata alla giuria dallo stesso Moravia che, oltre ad aver scritto la prefazione al libro, della giovane divorziata era innamorato e convivente. Nel corso della conferenza stampa di premiazione Berto accese la miccia, prese la parola e stroncò duramente il libro, denunciando «il pericolo che la società letteraria si corrompa, che da giudice dei valori si trasformi in camarilla» e gridando, nell’eccitazione crescente del pubblico, che «è ora di finirla con questi monopoli culturali protetti dai giornali di sinistra». La platea si schierò con Berto, applaudendo, lanciando grida e battute, sino a costringere la Maraini alla fuga e un Moravia visibilmente imbarazzato ad inseguirla. Berto disistimava quello che considerava un «capomafia culturale» (la definizione è riportata da Biagi), un «corruttore», uno scrittore «che è passato dall’erotismo alla moda al marxismo alla moda». Come spesso accade, però, anche se molti in privato dicevano di condividere i giudizi di Berto, i più non si esposero, Moravia recuperò in fretta tutto il suo prestigio e Berto venne messo all’angolo.
Ma lo scrittore non se ne curò più di tanto. Superata la crisi era tornato proficuamente all’attività letteraria, senza trascurare quella giornalistica, fatta di efficaci elzeviri e di sagaci staffilate. Il trionfo del Male oscuro fu strepitoso (diecimila copie in pochi mesi ed il prestigioso Premio Strega), riconquistò il pubblico ma fu «irriso, sminuito e travisato dalla critica radicale e di sinistra». Walter Pedullà mise addirittura in dubbio «l’autenticità del conflitto bertiano con il padre» e la sincerità stessa dell’autore. Il libro, invece, loro malgrado, fu definito dalla prestigiosa New York Review of Books l’unico d’avanguardia italiano di quegli anni. Come confermarono l’assegnazione, nell’arco di una sola settimana, dei Premi letterari Viareggio e Campiello. Nonostante il successo ritrovato, Berto non rinunciò alla sua vis polemica, in particolar modo dalle tribune del Carlino e della Nazione e, più tardi, del Settimanale della Rusconi, da dove attaccava «uomini, istituzioni e miti».
Nel 1971 scrisse, sulle orme di quella celebre di Jonathan Swift, la sua Modesta proposta per prevenire. Si tratta di un pamphlet dichiaratamente politico, anche se con la sua graffiante autoironia Berto lo definì null’altro che «un libretto semiclandestino, di provocazione, destinato alle signore le quali non sanno mai cosa pensare della cosa pubblica, e le quali, dopo aver letto, comprenderanno che è assolutamente ragionevole non sapere cosa pensare».
Il libro sfiorò in pochi mesi le quarantamila copie vendute. Tale opera, ripubblicata dall’editore Marsilio nel 1998, mostra ancora oggi la lucidità di Berto nell’analizzare la società di quegli anni e nell’individuarne vizi, trasformazioni e prospettive. Scriveva, già allora, che la nostra era una democrazia bloccata e senza tanti giri di parole concludeva che al fascismo era succeduto un altro regime basato sulla disonestà. Denunciava la «degenerazione partitocratica e consociativa della politica italiana», e con lungimiranza auspicava una riorganizzazione della burocrazia statale e una riforma istituzionale in senso presidenziale. «Impressionanti», come le ha definite Massimo Fini, «per la loro attualità bruciante e dolorosa, sono le pagine che dedica alla crisi della magistratura». Il motore del cambiamento Berto lo individuava in quelli che oggi chiamiamo i “ceti medi produttivi”, affinché trovassero l’orgoglio di farsi classe guida del rinnovamento. Lanciava appelli per «una nuova rivoluzione borghese» da affidare a cosiddetti «gruppi di pressione democratica», mentre gli intellettuali à la page si appiattivano sulle posizioni dei sindacati, del PCI, dei gruppi extraparlamentari di sinistra e dei contestatori sessantottini. Questi ultimi erano considerati da Berto «insidiosi nemici» di quel sistema «cristiano liberal capitalista» che era «ancora da preferirsi» al comunismo, nonostante «la sua mirabile inefficienza ed insufficienza». Si indignava, inoltre, per l’uso strumentale che le forze politiche facevano dell’antifascismo e per la rimozione del Ventennio dalla storia italiana nella quale, nel bene e nel male, il fascismo aveva lasciato un profondo segno. Riteneva la Resistenza un «fenomeno minoritario, confuso e limitato nel tempo […] reso possibile dalla presenza delle truppe alleate». Per Berto il fascismo, e non la Resistenza, «era stato l’unico fenomeno di base nazional-popolare che si fosse verificato in Italia dai tempi di Cesare Augusto in poi».
Fu probabilmente proprio dopo aver letto e apprezzato Modesta proposta che Armando Plebe, all’epoca organizzatore culturale del MSI-DN, invitò Berto al Congresso per la difesa della cultura a Torino. Nel suo intervento Berto si dichiarò «afascista», non fascista, ma affermò di non tollerare l’antifascismo che, «come praticato dagli intellettuali italiani è terribilmente vicino al fascismo […] l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido». La critica di Berto non si fermava alla denuncia del problema, ma si spingeva sino ad individuare i colpevoli nei «gruppi di potere intellettuale […] tutti collegati in nome di principi invalicabili: sono democratici, antifascisti e nati dalla resistenza. In realtà ciò che li unisce è una comunità di interessi […] mafiosa […] la Rai è nelle loro mani […] tutti i periodici […] i più grossi quotidiani […] Se un intellettuale non entra in un gruppo o ne denuncia le manovre mettendosi contro i capi viene messo al bando, proscritto. Del suo lavoro si parlerà il meno possibile e in termini spregiativi […] Verrà chiamato fascista, con valore d’insulto». Berto concluse affermando: «in Italia non esiste libertà per l’intellettuale».
Com’era prevedibile la partecipazione ad un convegno di destra, area nei cui confronti il mondo culturale e quello politico applicavano una rigorosa conventio ad excludendum, e tali coraggiose dichiarazioni, finirono per renderlo ancora più inviso. Un ostracismo che oggi, a più di venti anni dalla sua morte, continua a pagare con una congiura del silenzio che non ha simili nella letteratura italiana.
Una vera sindrome da outsider, dalla quale Berto non si liberò mai, come amaramente riconobbe: «La mia generazione ha commesso un’infinità di errori, ma l’errore più grosso è quello d’essersi coltivata dentro un senso collettivo di colpa, una convinzione d’indegnità che ci ha portato sbrigativamente al disinteresse, alla rinuncia a esercitare una funzione attiva nella società e perfino nella famiglia».
Quando pochi mesi fa l’editore Bollati Boringhieri ha pubblicato la bella biografia di Dario Biagi La vita scandalosa di Giuseppe Berto, ne fummo felici, sperando che attorno alla figura e all’opera del grande scrittore trevigiano si riaprisse il dibattito e che altri editori ne traessero spunto per riproporne al pubblico le opere. Ma dopo qualche fugace ed imbarazzata recensione giornalistica è sceso nuovamente il sipario. Del resto al timone di buona parte delle case editrici (salvo lodevoli eccezioni) non ci sono forse gli allievi e i discepoli di quell’establishement culturale che Berto combatté intrepidamente, spesso da solo, pagando l’altissimo prezzo di un sistematico ostracismo che continua anche oggi, a più di vent’anni dalla sua morte?
Il pregio del contributo di Biagi è invece quello di aver riacceso le luci dei riflettori sulla vita di un personaggio ribelle e guastafeste, raccontandone la storia di non allineato, i trionfi e i tonfi, delineandone un ritratto fedele e affettuoso: «Berto aveva tutto per essere un vincente: talento, fascino, simpatia; ma volle – fortissimamente volle – iscriversi al partito dei perdenti».
Giuseppe Berto da Mogliano, Bepi per gli amici, aveva partecipato alla guerra d’Abissinia come volontario sottotenente di fanteria e nei quattro anni della campagna di guerra aveva superato un attacco di malaria, sfiorato la morte e preso una pallottola nel calcagno destro. L’insofferenza del suo carattere fece sì che non si accontentasse delle due medaglie d’argento e di bronzo ricevute quale riconoscimento al suo valore di soldato, così come non lo gratificò ricoprire a soli ventisette anni la carica di segretario locale del fascio. Cercava la guerra e dopo pochi anni, tacendo dell’ulcera che lo affliggeva, riuscì ad arruolarsi nuovamente per l’Africa dove, nella estate del ‘42, l’aspettava il IV Battaglione Camicie nere.
Auspicava, con l’ala radicale degli idealisti alla Berto Ricci, una seconda e rigeneratrice rivoluzione fascista: «l’aver partecipato con onore a questa guerra», disse, «costituirà un buon diritto per fare la rivoluzione».
La guerra, però, finì male e nel maggio 1943 dall’Africa finì in Texas, prigioniero nel fascist criminal camp “George E. Meade” di Hereford, dove, appena arrivato, apprese della caduta di Mussolini.
Pur nella veste di recluso trovò «condizioni straordinariamente favorevoli» per scrivere e pensare. Aveva appreso che trecento aerei Alleati avevano bombardato Treviso il 7 aprile 1944, lasciando più di mille morti e trentamila senzatetto e volle scrivere di getto, immaginandola con incredibile realismo, la storia di quella «perduta gente». In soli otto mesi il libro fu pronto. Fece giusto in tempo a completarlo, perché gli americani cambiarono atteggiamento verso i non collaboratori, costringendoli a digiunare e a rimanere anche cinque o sei ore sotto il solleone pomeridiano per piegarne la resistenza. Berto non collaborò e dopo lunghi mesi di tormenti fu rispedito in patria.
Longanesi accettò di pubblicare il libro di questo principiante arrivato dalla campagna del triveneto e dopo aver modificato il titolo Perduta gente, ritenuto lugubre, in Il sole è rosso, lo dette alle stampe pochi giorni prima del Natale 1946.
Fiducioso nelle sue capacità, ma conscio delle difficoltà pratiche che comporta l’incerto mestiere dello scrittore, cominciò a scrivere anche sceneggiature per il cinema, un mestiere «vile» per campare in attesa di realizzarsi con quello «nobile» della letteratura. Lo fece spinto da ragioni di sussistenza, ma anche abbagliato dal miraggio del set e dall’aspirazione di diventare regista.
Il Sole è rosso registrò un clamoroso successo di vendite in Italia e all’estero, sbancò in Spagna, Svizzera, Scandinavia, Stati Uniti (ventimila copie in pochi mesi) e in Inghilterra si impose come un vero best-sellers (cinquemila copie in un giorno), tanto da essere definito dagli inglesi «il più bel romanzo uscito dalla seconda guerra mondiale».
La consacrazione letteraria arrivò nel 1948 con l’assegnazione del prestigioso Premio Firenze. La prima battuta d’arresto ci fu, invece, nel 1951, con la pubblicazione del romanzo Il Brigante (ripubblicato da Marsilio nel 1997). Il libro ebbe un considerevole successo negli Stati Uniti, sino ad essere giudicato un capolavoro dal Time, ma in Italia fu sminuito dalla critica, che continuava a guardare con sospetto quel dilettante, fortunatamente asceso alla ribalta, le cui opere traboccavano di «facile romanticismo» e «trame da giornali a fumetti».
I cenacoli culturali non chiedevano di meglio che mettere alla porta quel parvenu, ricordando la sua non collaborazione con gli Alleati anche a guerra persa e appiccicandogli addosso l’etichetta di fascista nostalgico. E Berto, ricorda Biagi, «uomo orgoglioso e leale pur di non rinnegare gli ideali […] contribuiva ad alimentare la diceria». Fama che si consolidava ogni volta che Berto puntava l’indice accusatore sulla repentina conversione all’antifascismo di tanti «padreterni letterari» o lanciava goliardiche provocazioni: «Come si può far si che il numero dei comunisti diminuisca senza ricorrere alla prigione o al taglio della testa?». Battute decisamente azzardate in un epoca nella quale, come scrive Biagi «il patentino di antifascista era obbligatorio per essere ammessi nella buona società letteraria».
La pubblicazione nel 1955 di Guerra in camicia nera, ricostruzione dei suoi diari di guerra, determinò, sempre per rimanere alle parole di Biagi, il suo tracollo e «la sua definitiva messa all’indice da parte del mondo letterario». Berto dichiarò guerra al “Palazzo” e diventò un vero e proprio fustigatore del malcostume letterario. Il giornalismo cosiddetto democratico lo ricambiò ignorando quello che sarà definto, più tardi, a pacificazione raggiunta, il «tentativo più onesto per spiegare la gioventù fascista».
Singolare condizione per uno scrittore che, snobbato dalla critica ufficiale, godeva della stima di Hemingway. Il grande scrittore americano, intervistato l’anno precedente a Venezia, aveva dichiarato ad un «Montale allibito» di apprezzare lo scrittore trevigiano ed espresso persino il desiderio di incontrarlo. Anche la sua attività di sceneggiatore, che negli anni precedenti lo aveva visto tra i più richiesti dell’industria cinematografica, segnò il passo. La crisi d’ispirazione, la mancanza di sponsor e le difficoltà economiche, contribuirono a provocare in Berto quel “male oscuro” della depressione, la cui esperienza, per uno strano capriccio del destino, trasposta nel 1964 nel celebre libro, finì per restituirgli, con gli interessi, la meritata celebrità.
Nel mirino di Berto rimaneva sempre la nomenklatura culturale e nel 1962 non si fece sfuggire l’occasione che il secondo Premio Formetor gli fornì per attaccare «l’illustre e onnipotente Moravia», supremo sacerdote e deus ex machina di quel mondo blindato e autoreferenziale. Il premio, che consisteva in sei milioni di lire e nella pubblicazione dell’opera vincitrice in tredici paesi, era stato assegnato alla venticinquenne Dacia Maraini, a danno del grande Luciano Bianciardi che concorreva con La vita agra. La Maraini era stata caldeggiata alla giuria dallo stesso Moravia che, oltre ad aver scritto la prefazione al libro, della giovane divorziata era innamorato e convivente. Nel corso della conferenza stampa di premiazione Berto accese la miccia, prese la parola e stroncò duramente il libro, denunciando «il pericolo che la società letteraria si corrompa, che da giudice dei valori si trasformi in camarilla» e gridando, nell’eccitazione crescente del pubblico, che «è ora di finirla con questi monopoli culturali protetti dai giornali di sinistra». La platea si schierò con Berto, applaudendo, lanciando grida e battute, sino a costringere la Maraini alla fuga e un Moravia visibilmente imbarazzato ad inseguirla. Berto disistimava quello che considerava un «capomafia culturale» (la definizione è riportata da Biagi), un «corruttore», uno scrittore «che è passato dall’erotismo alla moda al marxismo alla moda». Come spesso accade, però, anche se molti in privato dicevano di condividere i giudizi di Berto, i più non si esposero, Moravia recuperò in fretta tutto il suo prestigio e Berto venne messo all’angolo.
Ma lo scrittore non se ne curò più di tanto. Superata la crisi era tornato proficuamente all’attività letteraria, senza trascurare quella giornalistica, fatta di efficaci elzeviri e di sagaci staffilate. Il trionfo del Male oscuro fu strepitoso (diecimila copie in pochi mesi ed il prestigioso Premio Strega), riconquistò il pubblico ma fu «irriso, sminuito e travisato dalla critica radicale e di sinistra». Walter Pedullà mise addirittura in dubbio «l’autenticità del conflitto bertiano con il padre» e la sincerità stessa dell’autore. Il libro, invece, loro malgrado, fu definito dalla prestigiosa New York Review of Books l’unico d’avanguardia italiano di quegli anni. Come confermarono l’assegnazione, nell’arco di una sola settimana, dei Premi letterari Viareggio e Campiello. Nonostante il successo ritrovato, Berto non rinunciò alla sua vis polemica, in particolar modo dalle tribune del Carlino e della Nazione e, più tardi, del Settimanale della Rusconi, da dove attaccava «uomini, istituzioni e miti».
Nel 1971 scrisse, sulle orme di quella celebre di Jonathan Swift, la sua Modesta proposta per prevenire. Si tratta di un pamphlet dichiaratamente politico, anche se con la sua graffiante autoironia Berto lo definì null’altro che «un libretto semiclandestino, di provocazione, destinato alle signore le quali non sanno mai cosa pensare della cosa pubblica, e le quali, dopo aver letto, comprenderanno che è assolutamente ragionevole non sapere cosa pensare».
Il libro sfiorò in pochi mesi le quarantamila copie vendute. Tale opera, ripubblicata dall’editore Marsilio nel 1998, mostra ancora oggi la lucidità di Berto nell’analizzare la società di quegli anni e nell’individuarne vizi, trasformazioni e prospettive. Scriveva, già allora, che la nostra era una democrazia bloccata e senza tanti giri di parole concludeva che al fascismo era succeduto un altro regime basato sulla disonestà. Denunciava la «degenerazione partitocratica e consociativa della politica italiana», e con lungimiranza auspicava una riorganizzazione della burocrazia statale e una riforma istituzionale in senso presidenziale. «Impressionanti», come le ha definite Massimo Fini, «per la loro attualità bruciante e dolorosa, sono le pagine che dedica alla crisi della magistratura». Il motore del cambiamento Berto lo individuava in quelli che oggi chiamiamo i “ceti medi produttivi”, affinché trovassero l’orgoglio di farsi classe guida del rinnovamento. Lanciava appelli per «una nuova rivoluzione borghese» da affidare a cosiddetti «gruppi di pressione democratica», mentre gli intellettuali à la page si appiattivano sulle posizioni dei sindacati, del PCI, dei gruppi extraparlamentari di sinistra e dei contestatori sessantottini. Questi ultimi erano considerati da Berto «insidiosi nemici» di quel sistema «cristiano liberal capitalista» che era «ancora da preferirsi» al comunismo, nonostante «la sua mirabile inefficienza ed insufficienza». Si indignava, inoltre, per l’uso strumentale che le forze politiche facevano dell’antifascismo e per la rimozione del Ventennio dalla storia italiana nella quale, nel bene e nel male, il fascismo aveva lasciato un profondo segno. Riteneva la Resistenza un «fenomeno minoritario, confuso e limitato nel tempo […] reso possibile dalla presenza delle truppe alleate». Per Berto il fascismo, e non la Resistenza, «era stato l’unico fenomeno di base nazional-popolare che si fosse verificato in Italia dai tempi di Cesare Augusto in poi».
Fu probabilmente proprio dopo aver letto e apprezzato Modesta proposta che Armando Plebe, all’epoca organizzatore culturale del MSI-DN, invitò Berto al Congresso per la difesa della cultura a Torino. Nel suo intervento Berto si dichiarò «afascista», non fascista, ma affermò di non tollerare l’antifascismo che, «come praticato dagli intellettuali italiani è terribilmente vicino al fascismo […] l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido». La critica di Berto non si fermava alla denuncia del problema, ma si spingeva sino ad individuare i colpevoli nei «gruppi di potere intellettuale […] tutti collegati in nome di principi invalicabili: sono democratici, antifascisti e nati dalla resistenza. In realtà ciò che li unisce è una comunità di interessi […] mafiosa […] la Rai è nelle loro mani […] tutti i periodici […] i più grossi quotidiani […] Se un intellettuale non entra in un gruppo o ne denuncia le manovre mettendosi contro i capi viene messo al bando, proscritto. Del suo lavoro si parlerà il meno possibile e in termini spregiativi […] Verrà chiamato fascista, con valore d’insulto». Berto concluse affermando: «in Italia non esiste libertà per l’intellettuale».
Com’era prevedibile la partecipazione ad un convegno di destra, area nei cui confronti il mondo culturale e quello politico applicavano una rigorosa conventio ad excludendum, e tali coraggiose dichiarazioni, finirono per renderlo ancora più inviso. Un ostracismo che oggi, a più di venti anni dalla sua morte, continua a pagare con una congiura del silenzio che non ha simili nella letteratura italiana.
2 commenti:
Bravo l'autore di questo articolo su Berto, che tra l'altro ha scritto un vero e proprio capolavoro (Il male oscuro). Sono stato, dalla fine degli anni Sessanta, un simpatizzante comunista e posso testimoniare di quanto l'egemonia culturale marxista vietasse a ciascuno - negli ambienti che sappiamo - di avere idee che si discostassero, anche di poco, dai soliti cliché imposti dal partito. Mi sono sentito un altro quando alla fine degli anni Settanta mi sono liberato, dopo varie riflessioni, di quella stupida dittatura ideologica.
Vittorio Spadanuda, giornalista
Bravo l'autore di questo articolo su Berto, che tra l'altro ha scritto un vero e proprio capolavoro (Il male oscuro). Sono stato, dalla fine degli anni Sessanta, un simpatizzante comunista e posso testimoniare di quanto l'egemonia culturale marxista vietasse a ciascuno - negli ambienti che sappiamo - di avere idee che si discostassero, anche di poco, dai soliti cliché imposti dal partito. Mi sono sentito un altro quando alla fine degli anni Settanta mi sono liberato, dopo varie riflessioni, di quella stupida dittatura ideologica.
Vittorio Spadanuda, giornalista
PS. Tutto questo casino solo per lasciare quattro righe di commento!!!!
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