Articolo di Roberto Alfatti Appetiti
Dal mensile Area, settembre 2000
Dal mensile Area, settembre 2000
Non è passato neanche un lustro dalla morte di Nino Longobardi, eccellente giornalista e scrittore di successo (l’opera autobiografica Il figlio del podestà, pubblicata da Rusconi nel 1976, superò le centomila copie vendute) ma sembra trascorso un secolo. Nessuna pagina web lo cita, non c’è associazione, fondazione, club letterario, giornale o partito che abbia assunto un’iniziativa per ricordarlo. Le sue opere sono irreperibili da anni, e non c’è editore che ne abbia in programmazione una ristampa.
Eppure lo stesso Longobardi non sarebbe sorpreso di questa frettolosa archiviazione, non avendo speso in vita una sola riga per compiacere alcuno, se non il suo pubblico. Consapevole dei costi di un irrefrenabile anticonformismo, nella prefazione del suo libro Bontà mia e… di zio Amedeo (Volpe 1977) avverte che quando uno «va contromano, chi ci va scientemente, prima o poi becca la multa […] strane multe […] pesanti, talvolta definitive […] Hanno il sapore amaro dell’odio inventato a freddo, dell’odio artificiale seminato a piene democratiche mani […] E sono sempre e solo gli uomini liberi a pagare queste multe».
Longobardi, «nato figlio di podestà all’imbrunire del quindicesimo giorno di un meridionale [Torre del Greco, nda] ottobre [1922]» e giornalisticamente «allevato alla scuola di Longanesi e Flaiano», fu davvero un uomo libero, che «per far luce nel trentennio sporco di questa fasulla democrazia» era pronto a scagliarsi «contro ruffiani, leccapiedi e cialtroni, ladri e imbecilli saccenti per la rabbia di vedere rovinato, marcito, fatto a pezzi, il tuo Paese, il nostro Paese, per colpa di quei servi, di quei ruffiani, di quei cialtroni, di quei ladri».
Giovanissimo reporter del Corriere di Napoli, a soli ventisei anni venne assunto a Il Messaggero, come inviato speciale, da Alessandro Perrone, che, insieme al padre Mario, costituivano nell’editoria di quegli anni quello che Longobardi definiva affettuosamente «l’ultimo esempio di monarchia despotica europea».
Sul prestigioso quotidiano romano si fece conoscere ed apprezzare dalle rinomate colonne delle Cronache italiane come acuto commentatore del costume nazionale, guadagnando due premi Marzotto per il giornalismo e l’attenzione ricorrente dei giornali stranieri, sino a conquistare, cosa tutt’altro che usuale, due pagine con fotografia sul New York Times.
Piuttosto che sedersi sugli allori, Longobardi, insofferente nei confronti di «un giornalismo che sembra vivere di piccoli annunci», volle cercarsi una tribuna meno ingessata da dove sferrare i suoi attacchi in piena libertà. Scelse, con un atto di coraggio, il giornale Vita, «con la sensazione di lasciare una portaerei per un motopeschereccio […] ma sapevo quello che facevo. Più grande è la nave e meno si vede il mare, ed avevo bisogno di sentirmi in bocca il sale del sapore della gente». Lo fece pur sapendo che avrebbe dovuto affrontare, in virtù di quella scelta, una «condizione di emarginazione che, puntualmente, si verificò». Condizione «compensata poco dopo dalla inebriante scoperta che sono tanti gli italiani i quali, nella morsa dei neoconformismi, si sentono, a loro volta, emarginati. E stanchi di essere chiamati fascisti, soltanto perché non sono di sinistra».
Al giornale Vita, infatti, Longobardi visse una stagione di grossa e meritata popolarità, in barba ad una critica ufficiale che lo combatteva apertamente, riconoscendo nel polemista un personaggio non inquadrabile, né tanto meno lottizzabile. Non lo feriva l’accusa di qualunquismo che gli veniva spesso rivolta, di essere un «novello Giannini» e un fascista.
Il richiamo dell’antifascismo militante lo lasciava indifferente, nella convinzione che «gli antichi odi, talvolta rinfocolati ad arte, non sono serviti e non servono che a peggio dividerci».
Della diffidenza e del disdegno verso certo antifascismo si trovano significative testimonianze nel suo capolavoro Il figlio del podestà (finalista al Bancarella e “libro per l’estate” nel 1976): «tutti fascisti e, poi, tutti antifascisti. Troppo facile […] ma quanti furono fascisti nel pieno dei loro consapevoli anni? Meglio avrebbero fatto a ricordarsene, a non negarlo, accettando i torti e dicendo le proprie ragioni».
Longobardi che «soltanto per meriti anagrafici e per la sopravvenuta sconfitta, non soltanto del fascismo ma dell’Italia di allora che totalitariamente entrò in guerra», non fece in tempo a diventare gerarca o podestà egli stesso, ricorda come certi giornalisti fedeli alla causa fascista si scoprirono antifascisti per pura convenienza professionale.
Nel libro racconta un episodio, emblematico nel suo squallore. Il protagonista, ormai adulto, incontra il giornalista Petruzzelli, già fanatico fascista, e gli chiede se si ricordava di lui. Il «giornalista diventato principe della risorta democrazia» mostra di ricordare, con fare ammiccante lamenta come nel fascismo «ne abbiamo sopportate e sofferte di tuti i colori», e si spinge sino a rivolgere all’incredulo protagonista un invito «a non dire in giro che era figlio di podestà, tutt’al più nipote… meglio allargare».
E’ un libro della “memoria”, ambientato nel paese dominato dal Vesuvio dove nel 1922 nacque l’autore, figlio del podestà ma anche nipote dell’antifascista zio Amedeo, una Torre del Greco dove «Mussolini aveva sempre ragione e mio padre raramente torto». E’ una storia coinvolgente, capace di restituire un ritratto fedele della provincia meridionale ai tempi del fascismo, affollata di personaggi originali ed affascinanti e descritta con una caratteristica e contagiosa verve umoristica. E’ allo stesso tempo un libro attuale, polemico, amaro, pensato, appena stemperato dalla disincantata ironia dell’autore.
Come scrittore Longobardi aveva esordito nel 1971 quando, a sua insaputa, un amico raccolse i suoi scritti facendoli pubblicare dall’editore Volpe nel Diario di un ex fumatore. Il libro si classificò tra i quattro libri finalisti dell’Estense e venne successivamente tradotto in tedesco.
Abitò a lungo a Roma, lì mise a frutto il suo ricco e poliedrico talento lavorando per il cinema, per la radio, dove con la sua rubrica L’uomo della notte ottenne un particolare successo, e per la televisione. E in televisione Longobardi, che era talmente schivo da «fuggire dinanzi alle macchine fotografiche e se sorpreso dall’obiettivo pronto a coprirmi la faccia come fanno i criminali appena catturati», fece registrare costantemente un’alta audience con la rubrica quotidiana di un quarto d’ora che curava nella «artigianale» Televita.
Nel piccolo schermo recitava se stesso, proponendosi come conversatore pensoso e dissacratore dei falsi miti. Decise di «offrire il volto alle telecamere» come «per una sfida, in un’Italia che non è poi molto cambiata e che ora ha gli antifascisti in posa ed il fascista negli abbaini […] per oppormi ad una nuova mistificazione, fuggendo dal gruppo in posa ma posando isolato o quasi».
Rileggendo il suo Bontà mia (ancora miracolosamente disponibile in poche copie presso la Libreria Europa di Roma) troviamo le audaci denunce, fatte in un’epoca assai più difficile di quella attuale. Il bersaglio ricorrente era «l’ignobile oligopolio» nella RAI-TV dei «partiti del cosiddetto arco costituzionale».
La sua fu una vera e propria campagna moralizzatrice. «Partii contro le antenne della partitocrazia», scrisse. Nel suo mirino finirono in molti, «oscuri uomini, mezze calzette, arrivati alla TV per grazia ricevuta dai partiti», i vertici dell’azienda, i mezzobusti, Bernabei, Nuccio Fava e soprattutto il detestato Paolo Grassi, spedito alla Presidenza della Rai come «un pacco raccomandatissimo». Nel libro è riportata la lettera che Longobardi gli scrisse pubblicamente: «La sua tessera da partigiano non vale un fico perché fasulla. Durante la guerra lei si è occupato di compravendita di parmigiano […] come sempre ha fatto il topo nel formaggio […] sulla sua tessera c’è, quindi, un errore di stampa: parmigiano e non partigiano». Concludeva con un invito esplicito: «Grassi, si tolga dai piedi […] non ha il coraggio dei vili e non le basta l’arguzia dei servi».
Il principale cruccio di Longobardi era proprio quella «vocazione servile che è una vecchia tara italiana di cui Mussolini seppe avvalersi ma che, in segreto, disprezzava». E a suo parere Argan, allora Sindaco di Roma, era «il caso più intollerabile» dei «servi del regime […] dei due partiti dello strapotere politico DC e PCI», di coloro che «già vecchi servi del fu regime fascista […] hanno posto il loro inalterato zelo al servizio dell’antifascismo».
Lo scrittore, con la sua penna incendiaria, denunciava il pericolo che «il nuovo regime subentri nella maniera più morbida e indolore […] ci spaventano, almeno ci provano, con incombenti pericoli di dittatura di destra […]. Questa farsa continua, ci trattano come bambini da spaventare con il bau bau e l’uomo nero […] da mandare a letto senza cena […] Della reale minaccia che, per la nostra democrazie, oggi viene chiarissimamente da sinistra, nessuno parla. Vige su ciò un pluralistico silenzio».
Neanche Dario Fo sfuggì ai suoi impetuosi strali, al futuro premio Nobel rivolse parole dure: «ha la stoffa, il temperamento, la vocazione […] del servo del nuovo regime». Nell’usuale lettera aperta gli rimproverava di non aver esercitato la sua «presunta» satira contro i «davvero potenti», piuttosto che «contro le statue che il tempo ha decapitato», di esercitare un «neoconformismo avvilente», di «non essere capace di stringere in pugno il suo pubblico se non nel saluto comunista».
Anche qui la conclusione segna una condanna senza appello: «macchietta rossa del regime che va profilandosi».
Migliore trattamento non venne riservato a Maurizio Costanzo, definito lo «scalatore delle antenne», accusato di «ruffianeria» verso il potere: «Costanzo lascia una leggera traccia. Ho preso una volta un ascensore in via Teulada. Annusai l’aria e mi dissi: Costanzo ne deve essere appena sceso. La ruffianeria, portata a gradi di altissima concentrazione lascia un suo odore, un po’ sa d’incenso, un po’ di melassa e di brodo riscaldato. Era lo stesso odore […] che promanava dal video al punto che fui io ad aprire la finestra la sera che a Bontà loro Maurizio Costanzo intervistò Paolo Grassi, Presidente della Rai TV». E, sempre riferito a Costanzo, aggiunse: «Avrei potuto, facilmente, farmene un amico. Comparire nella sua trasmissione […] procura indiscutibile pubblicità […] la capillare diffusione della TV di Stato ha reso famosi, da una sera all’altra, non pochi imbecilli».
Invece ribadì che «è contro questo Maurizio Costanzo, figlio di pochi, ma disonesti partiti politici lottizzanti che si ha il dovere di insorgere». Oggi, aggiungiamo noi, se Nino avesse scelto di allinearsi alla vulgata progressista, il suo volto e la sua opera sarebbero note ai più: l’ennesimo “santino” da tirare fuori in ogni ricorrenza per dare voce ad un coro dal quale Nino volle chiamarsi fuori.
Eppure lo stesso Longobardi non sarebbe sorpreso di questa frettolosa archiviazione, non avendo speso in vita una sola riga per compiacere alcuno, se non il suo pubblico. Consapevole dei costi di un irrefrenabile anticonformismo, nella prefazione del suo libro Bontà mia e… di zio Amedeo (Volpe 1977) avverte che quando uno «va contromano, chi ci va scientemente, prima o poi becca la multa […] strane multe […] pesanti, talvolta definitive […] Hanno il sapore amaro dell’odio inventato a freddo, dell’odio artificiale seminato a piene democratiche mani […] E sono sempre e solo gli uomini liberi a pagare queste multe».
Longobardi, «nato figlio di podestà all’imbrunire del quindicesimo giorno di un meridionale [Torre del Greco, nda] ottobre [1922]» e giornalisticamente «allevato alla scuola di Longanesi e Flaiano», fu davvero un uomo libero, che «per far luce nel trentennio sporco di questa fasulla democrazia» era pronto a scagliarsi «contro ruffiani, leccapiedi e cialtroni, ladri e imbecilli saccenti per la rabbia di vedere rovinato, marcito, fatto a pezzi, il tuo Paese, il nostro Paese, per colpa di quei servi, di quei ruffiani, di quei cialtroni, di quei ladri».
Giovanissimo reporter del Corriere di Napoli, a soli ventisei anni venne assunto a Il Messaggero, come inviato speciale, da Alessandro Perrone, che, insieme al padre Mario, costituivano nell’editoria di quegli anni quello che Longobardi definiva affettuosamente «l’ultimo esempio di monarchia despotica europea».
Sul prestigioso quotidiano romano si fece conoscere ed apprezzare dalle rinomate colonne delle Cronache italiane come acuto commentatore del costume nazionale, guadagnando due premi Marzotto per il giornalismo e l’attenzione ricorrente dei giornali stranieri, sino a conquistare, cosa tutt’altro che usuale, due pagine con fotografia sul New York Times.
Piuttosto che sedersi sugli allori, Longobardi, insofferente nei confronti di «un giornalismo che sembra vivere di piccoli annunci», volle cercarsi una tribuna meno ingessata da dove sferrare i suoi attacchi in piena libertà. Scelse, con un atto di coraggio, il giornale Vita, «con la sensazione di lasciare una portaerei per un motopeschereccio […] ma sapevo quello che facevo. Più grande è la nave e meno si vede il mare, ed avevo bisogno di sentirmi in bocca il sale del sapore della gente». Lo fece pur sapendo che avrebbe dovuto affrontare, in virtù di quella scelta, una «condizione di emarginazione che, puntualmente, si verificò». Condizione «compensata poco dopo dalla inebriante scoperta che sono tanti gli italiani i quali, nella morsa dei neoconformismi, si sentono, a loro volta, emarginati. E stanchi di essere chiamati fascisti, soltanto perché non sono di sinistra».
Al giornale Vita, infatti, Longobardi visse una stagione di grossa e meritata popolarità, in barba ad una critica ufficiale che lo combatteva apertamente, riconoscendo nel polemista un personaggio non inquadrabile, né tanto meno lottizzabile. Non lo feriva l’accusa di qualunquismo che gli veniva spesso rivolta, di essere un «novello Giannini» e un fascista.
Il richiamo dell’antifascismo militante lo lasciava indifferente, nella convinzione che «gli antichi odi, talvolta rinfocolati ad arte, non sono serviti e non servono che a peggio dividerci».
Della diffidenza e del disdegno verso certo antifascismo si trovano significative testimonianze nel suo capolavoro Il figlio del podestà (finalista al Bancarella e “libro per l’estate” nel 1976): «tutti fascisti e, poi, tutti antifascisti. Troppo facile […] ma quanti furono fascisti nel pieno dei loro consapevoli anni? Meglio avrebbero fatto a ricordarsene, a non negarlo, accettando i torti e dicendo le proprie ragioni».
Longobardi che «soltanto per meriti anagrafici e per la sopravvenuta sconfitta, non soltanto del fascismo ma dell’Italia di allora che totalitariamente entrò in guerra», non fece in tempo a diventare gerarca o podestà egli stesso, ricorda come certi giornalisti fedeli alla causa fascista si scoprirono antifascisti per pura convenienza professionale.
Nel libro racconta un episodio, emblematico nel suo squallore. Il protagonista, ormai adulto, incontra il giornalista Petruzzelli, già fanatico fascista, e gli chiede se si ricordava di lui. Il «giornalista diventato principe della risorta democrazia» mostra di ricordare, con fare ammiccante lamenta come nel fascismo «ne abbiamo sopportate e sofferte di tuti i colori», e si spinge sino a rivolgere all’incredulo protagonista un invito «a non dire in giro che era figlio di podestà, tutt’al più nipote… meglio allargare».
E’ un libro della “memoria”, ambientato nel paese dominato dal Vesuvio dove nel 1922 nacque l’autore, figlio del podestà ma anche nipote dell’antifascista zio Amedeo, una Torre del Greco dove «Mussolini aveva sempre ragione e mio padre raramente torto». E’ una storia coinvolgente, capace di restituire un ritratto fedele della provincia meridionale ai tempi del fascismo, affollata di personaggi originali ed affascinanti e descritta con una caratteristica e contagiosa verve umoristica. E’ allo stesso tempo un libro attuale, polemico, amaro, pensato, appena stemperato dalla disincantata ironia dell’autore.
Come scrittore Longobardi aveva esordito nel 1971 quando, a sua insaputa, un amico raccolse i suoi scritti facendoli pubblicare dall’editore Volpe nel Diario di un ex fumatore. Il libro si classificò tra i quattro libri finalisti dell’Estense e venne successivamente tradotto in tedesco.
Abitò a lungo a Roma, lì mise a frutto il suo ricco e poliedrico talento lavorando per il cinema, per la radio, dove con la sua rubrica L’uomo della notte ottenne un particolare successo, e per la televisione. E in televisione Longobardi, che era talmente schivo da «fuggire dinanzi alle macchine fotografiche e se sorpreso dall’obiettivo pronto a coprirmi la faccia come fanno i criminali appena catturati», fece registrare costantemente un’alta audience con la rubrica quotidiana di un quarto d’ora che curava nella «artigianale» Televita.
Nel piccolo schermo recitava se stesso, proponendosi come conversatore pensoso e dissacratore dei falsi miti. Decise di «offrire il volto alle telecamere» come «per una sfida, in un’Italia che non è poi molto cambiata e che ora ha gli antifascisti in posa ed il fascista negli abbaini […] per oppormi ad una nuova mistificazione, fuggendo dal gruppo in posa ma posando isolato o quasi».
Rileggendo il suo Bontà mia (ancora miracolosamente disponibile in poche copie presso la Libreria Europa di Roma) troviamo le audaci denunce, fatte in un’epoca assai più difficile di quella attuale. Il bersaglio ricorrente era «l’ignobile oligopolio» nella RAI-TV dei «partiti del cosiddetto arco costituzionale».
La sua fu una vera e propria campagna moralizzatrice. «Partii contro le antenne della partitocrazia», scrisse. Nel suo mirino finirono in molti, «oscuri uomini, mezze calzette, arrivati alla TV per grazia ricevuta dai partiti», i vertici dell’azienda, i mezzobusti, Bernabei, Nuccio Fava e soprattutto il detestato Paolo Grassi, spedito alla Presidenza della Rai come «un pacco raccomandatissimo». Nel libro è riportata la lettera che Longobardi gli scrisse pubblicamente: «La sua tessera da partigiano non vale un fico perché fasulla. Durante la guerra lei si è occupato di compravendita di parmigiano […] come sempre ha fatto il topo nel formaggio […] sulla sua tessera c’è, quindi, un errore di stampa: parmigiano e non partigiano». Concludeva con un invito esplicito: «Grassi, si tolga dai piedi […] non ha il coraggio dei vili e non le basta l’arguzia dei servi».
Il principale cruccio di Longobardi era proprio quella «vocazione servile che è una vecchia tara italiana di cui Mussolini seppe avvalersi ma che, in segreto, disprezzava». E a suo parere Argan, allora Sindaco di Roma, era «il caso più intollerabile» dei «servi del regime […] dei due partiti dello strapotere politico DC e PCI», di coloro che «già vecchi servi del fu regime fascista […] hanno posto il loro inalterato zelo al servizio dell’antifascismo».
Lo scrittore, con la sua penna incendiaria, denunciava il pericolo che «il nuovo regime subentri nella maniera più morbida e indolore […] ci spaventano, almeno ci provano, con incombenti pericoli di dittatura di destra […]. Questa farsa continua, ci trattano come bambini da spaventare con il bau bau e l’uomo nero […] da mandare a letto senza cena […] Della reale minaccia che, per la nostra democrazie, oggi viene chiarissimamente da sinistra, nessuno parla. Vige su ciò un pluralistico silenzio».
Neanche Dario Fo sfuggì ai suoi impetuosi strali, al futuro premio Nobel rivolse parole dure: «ha la stoffa, il temperamento, la vocazione […] del servo del nuovo regime». Nell’usuale lettera aperta gli rimproverava di non aver esercitato la sua «presunta» satira contro i «davvero potenti», piuttosto che «contro le statue che il tempo ha decapitato», di esercitare un «neoconformismo avvilente», di «non essere capace di stringere in pugno il suo pubblico se non nel saluto comunista».
Anche qui la conclusione segna una condanna senza appello: «macchietta rossa del regime che va profilandosi».
Migliore trattamento non venne riservato a Maurizio Costanzo, definito lo «scalatore delle antenne», accusato di «ruffianeria» verso il potere: «Costanzo lascia una leggera traccia. Ho preso una volta un ascensore in via Teulada. Annusai l’aria e mi dissi: Costanzo ne deve essere appena sceso. La ruffianeria, portata a gradi di altissima concentrazione lascia un suo odore, un po’ sa d’incenso, un po’ di melassa e di brodo riscaldato. Era lo stesso odore […] che promanava dal video al punto che fui io ad aprire la finestra la sera che a Bontà loro Maurizio Costanzo intervistò Paolo Grassi, Presidente della Rai TV». E, sempre riferito a Costanzo, aggiunse: «Avrei potuto, facilmente, farmene un amico. Comparire nella sua trasmissione […] procura indiscutibile pubblicità […] la capillare diffusione della TV di Stato ha reso famosi, da una sera all’altra, non pochi imbecilli».
Invece ribadì che «è contro questo Maurizio Costanzo, figlio di pochi, ma disonesti partiti politici lottizzanti che si ha il dovere di insorgere». Oggi, aggiungiamo noi, se Nino avesse scelto di allinearsi alla vulgata progressista, il suo volto e la sua opera sarebbero note ai più: l’ennesimo “santino” da tirare fuori in ogni ricorrenza per dare voce ad un coro dal quale Nino volle chiamarsi fuori.
1 commento:
Grazie per aver reso onore a una persona ingiustamente dimenticata.
Francesco
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