Dal mensile Area, ottobre 2000
Il 14 novembre 1971, a soli quarantanove anni, consumato dall’alcool e dalle delusioni, dopo diciannove giorni di agonia presso l’ospedale San Carlo di Milano, muore, dimenticato da tutti, Luciano Bianciardi. Finisce nell’indifferenza generale l’esistenza dello scrittore toscano che condusse una solitaria ed irriducibile battaglia contro Milano, simbolo della società capitalista e di un “miracolo economico” pieno di aspettative ma anche foriero di cattivi presagi.
La sua opera principale, La vita agra, è infatti la storia di una «solenne incazzatura in prima persona singolare» con un mondo che, mai così unanimemente, si affrettava a saltare sul carro del progresso. Bianciardi da quel treno in corsa venne scaraventato giù.
Eppure chiunque ami la letteratura aveva ed ha un debito con l’intellettuale maremmano, per i libri che ha scritto e per l’imponente attività di traduttore (oltre cento opere tradotte). Si deve a lui la lettura in lingua italiana di Faulkner, Miller, Huxley, Saroyan e di numerosi altri scrittori. Sua è la traduzione di Gilles di Pierre Drieu La Rochelle per l’editore Sugar (1961).
Era nato a Grosseto il 14 dicembre 1922, città che aveva lasciato per rispondere alla chiamata in armi della patria e nella quale, dopo due anni di guerra e con il grado di sergente, aveva fatto ritorno nel 1945, trovandola semidistrutta da venti mesi di bombardamenti angloamericani.
Come racconta Pino Corrias nel volume Vita agra di un anarchico (Baldini & Castoldi), recentemente ristampato, nei «covi rossi della Maremma» dopo un anno dalla fine della guerra erano ben centoventi le sezioni del PCI. Tutti erano comunisti, braccianti, mezzadri, contadini, intellettuali, studenti. Bianciardi no, «detesta le tessere, i funzionari togliattizzati che chiama preti rossi».
Si dichiara «anarchico individualista». La mia, afferma, «è una disposizione d’animo, non un’ideologia». Si laurea in filosofia a Pisa, insegna, poi lascia la cattedra per improvvisarsi dinamico responsabile della biblioteca comunale. Nel frattempo comincia l’attività giornalistica, realizza un’inchiesta sulla condizione dei minatori maremmani. Sono gli anni «più belli e ricchi» della vita di Bianciardi, ma non è lontano il tempo del disincanto che lo porterà a definire il dopoguerra «una colossale fregatura».
La tragedia di Ribolla del 4 maggio 1954, l’esplosione della miniera di lignite che provoca quarantatre morti, segna per sempre Bianciardi. Sfogherà la rabbia provata per quell’episodio scrivendo, otto anni dopo, La vita agra.
L’opportunità per cambiare vita arriva presto. Con il suo giornalismo sociale si è imposto all’attenzione dei vertici del PCI. Viene segnalato a Giangiacomo Feltrinelli, impegnato a reclutare giovani intellettuali per dare vita ad una grande iniziativa culturale: una nuova casa editrice. Arriva la convocazione per un colloquio, ma Bianciardi diffida dei comunisti. «Io sono anarchico, cosa volete voi da me?», chiede a Maria Iatosti, la giovane militante comunista per la quale ha lasciato moglie e figli. Poi accetta. L’arrivo a Milano nel 1954 è traumatico, viverci «è triste», il traffico è congestionato, ci sono nebbia e smog, è la vera città capitalistica, «la gente è allineata […] cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida […] Poi ci sarebbe il Feltrinelli, detto il giaguaro […] ignorante come un tacco di frate e ricco da fare schifo».
L’ambiente di lavoro non gli piace, gli «intellettuali-funzionari» della casa editrice non gli sono simpatici, trova ridicoli quei «fannulloni frenetici» nella loro ansia di affermazione, troppo disponibili a farsi corrompere. Gli vengono assegnate le traduzioni e la direzione delle collane Scrittori d’oggi e la Bianca e nera. Ma arriva presto il licenziamento per scarso rendimento, senza che nessun collega si esponga in attestazioni di solidarietà. Aveva rotto l’anima a tutti con l’ostentazione del suo essere povero e trasandato. «La sua mancanza assoluta di fanatismo poteva risultare persino una forma di immoralismo», ricorda Mario Spagnol, oggi editore di Longanesi, Guanda e Salani, nel libro di Corrias.
Lo stesso Bianciardi raccontò: «mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile». Feltrinelli, per compensare, gli affida il lavoro esterno di traduttore e lui traduce a ritmi «infernali» procurandosi incubi notturni: «dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a tradurre quel che avevo sognato».
Solo la domenica trova il tempo per scrivere i suoi libri. Nel 1957 pubblica il Lavoro culturale, vende poche copie ma diventa un libro di culto per molti giovani. Con «dieci giorni di sigarette e grappa» nel 1959 scrive L’integrazione, «uno schizzo sarcastico dell’industria culturale all’alba del boom». Ma non è abbastanza. Nel 1961 decide di liberare tutta «la rabbia contro Milano […] Non è una città, non è un paese, non è niente. E’ solo una macchina caotica senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata».
Ha in mente di «buttar giù una grossa pisciata in prima persona sul miracolo economico». Centoventi pagine scritte di getto, La vita agra. La storia è in buona parte autobiografica. Il protagonista, però, non è venuto a Milano per lavorare, ma per realizzare una covata vendetta, vuole far saltare in aria il palazzo della società proprietaria della miniera e responsabile della morte dei quarantatre compaesani. Il successo del libro è incredibile, vende cinquantamila copie in poco più di una settimana.
Montanelli sul Corriere della Sera lo definisce uno dei libri «più vivi e stupefacenti» degli ultimi anni e propone all’autore persino una collaborazione, due pezzi al mese per la terza pagina, per trecentomila lire. Bianciardi rifiuta e si prende del «bischero» dal vecchio leone del giornalismo italiano. Il libro subirà, due anni dopo, una improbabile traduzione cinematografica ma la genuina rabbia di Bianciardi, sbiadita e resa inoffensiva, diventa una commedia umoristica.
La Rizzoli gli propone di scrivere un libro «arrabbiato» l’anno, ma diventare un «incazzato di professione» non lo entusiasma. Ci pensa e poi propone alla casa editrice milanese uno dei suoi libri sul Risorgimento, vecchia passione sempre coltivata.
E’ al culmine del successo, ma lui si schernisce: «per me successo è participio passato del verbo succedere». Forse consapevole che per lui il successo segnerà l’anticamera della fine. Di colpo rimane intrappolato in quegli stessi ingranaggi della società milanese salottiera e progressista che aveva aspramente combattuto, si difende bevendo grappa, cercando l’evasione, è l’inizio della resa.
Insiste con altri libri di divulgazione storica: La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969) e Aprire il fuoco (1969). Sceglie di collaborare con riviste ai margini dell’editoria che conta, come Belfagor, Comunità, Nuovi argomenti e addirittura Playman e Le ore.
Fa esattamente il contrario di quello che ci si aspetta da lui. Decide di sperperare il patrimonio di credibilità accumulato come scrittore e giornalista, «limita la sua protesta ad un’alzata di spalle». Si trasferisce a Rapallo dove, racconta Corrias: «passa metà delle sue giornate nelle osterie di Sant’Anna, gira in pantofole, scrive articoli inutili e libri mediocri. A quarantadue anni, esce di scena». E’ un uomo stanco, deluso, che viaggia sempre meno. Solo nel 1967 si lascia convincere ad andare in Israele. Litiga con chiunque lodi questa nazione. Non sopportava il modo con il quale gli israeliani trattavano gli arabi. Era stato testimone di un rastrellamento ed era rimasto colpito. Quando torna a Rapallo per diverse settimane ostenta una beffarda benda sull’occhio, alla Moshe Dayan, con il dichiarato intento di «prendere per il culo i filoisraeiliani».
Torna per un breve periodo a Grosseto. Intorno il mondo è scosso da eventi epocali: il ‘68, le occupazioni, Praga, l’autunno caldo. Bianciardi è distante anni luce, vive chiuso in se stesso. Racconta Maria Iatosti che solo in un’occasione riuscì a convincerlo a partecipare ad una manifestazione, a Genova. Gli bastò prendere in mano un volantino per esplodere: «Ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione».
Da Rapallo torna a Milano, ma non è più in grado di lavorare. La sua collaborazione con il Guerin Sportivo gli procura lo snobistico disconoscimento degli ambienti culturali radical-chic. Nelle traduzioni che gli vengono commissionate intere righe sono piene di errori se non inventate di sana pianta.
Gli ultimi mesi sono terribili, continua a bere, soffre di crisi depressive, sembra quasi aver fretta di morire. Ha combattuto la sua guerra personale e l’ha persa. Rimangono le sue opere, alcune recentemente ristampate, una decina di libri, tra romanzi e saggi, e i suoi articoli spigolosi e taglienti.
A rendergli giustizia, a farne conoscere la vita e l’opera, dal 1993 è impegnata la Fondazione Luciano Bianciardi (http://www.gol.grosseto.it/asso/bianciardi/ e-mail: fondbian@gol.grosseto.it).
La fondazione, che ha tra gli animatori Luciana, la figlia dello scrittore, svolge una serie di attività, illustrate in una rubrica sulla pagina grossetana de La Nazione, dal titolo Non solo Bianciardi, ha da qualche mese un suo periodico di approfondimento, affettuosamente chiamato Il gabellino. E’ soprattutto grazie a loro che il ricordo di questo irruento toscano rimane vivo.
La sua opera principale, La vita agra, è infatti la storia di una «solenne incazzatura in prima persona singolare» con un mondo che, mai così unanimemente, si affrettava a saltare sul carro del progresso. Bianciardi da quel treno in corsa venne scaraventato giù.
Eppure chiunque ami la letteratura aveva ed ha un debito con l’intellettuale maremmano, per i libri che ha scritto e per l’imponente attività di traduttore (oltre cento opere tradotte). Si deve a lui la lettura in lingua italiana di Faulkner, Miller, Huxley, Saroyan e di numerosi altri scrittori. Sua è la traduzione di Gilles di Pierre Drieu La Rochelle per l’editore Sugar (1961).
Era nato a Grosseto il 14 dicembre 1922, città che aveva lasciato per rispondere alla chiamata in armi della patria e nella quale, dopo due anni di guerra e con il grado di sergente, aveva fatto ritorno nel 1945, trovandola semidistrutta da venti mesi di bombardamenti angloamericani.
Come racconta Pino Corrias nel volume Vita agra di un anarchico (Baldini & Castoldi), recentemente ristampato, nei «covi rossi della Maremma» dopo un anno dalla fine della guerra erano ben centoventi le sezioni del PCI. Tutti erano comunisti, braccianti, mezzadri, contadini, intellettuali, studenti. Bianciardi no, «detesta le tessere, i funzionari togliattizzati che chiama preti rossi».
Si dichiara «anarchico individualista». La mia, afferma, «è una disposizione d’animo, non un’ideologia». Si laurea in filosofia a Pisa, insegna, poi lascia la cattedra per improvvisarsi dinamico responsabile della biblioteca comunale. Nel frattempo comincia l’attività giornalistica, realizza un’inchiesta sulla condizione dei minatori maremmani. Sono gli anni «più belli e ricchi» della vita di Bianciardi, ma non è lontano il tempo del disincanto che lo porterà a definire il dopoguerra «una colossale fregatura».
La tragedia di Ribolla del 4 maggio 1954, l’esplosione della miniera di lignite che provoca quarantatre morti, segna per sempre Bianciardi. Sfogherà la rabbia provata per quell’episodio scrivendo, otto anni dopo, La vita agra.
L’opportunità per cambiare vita arriva presto. Con il suo giornalismo sociale si è imposto all’attenzione dei vertici del PCI. Viene segnalato a Giangiacomo Feltrinelli, impegnato a reclutare giovani intellettuali per dare vita ad una grande iniziativa culturale: una nuova casa editrice. Arriva la convocazione per un colloquio, ma Bianciardi diffida dei comunisti. «Io sono anarchico, cosa volete voi da me?», chiede a Maria Iatosti, la giovane militante comunista per la quale ha lasciato moglie e figli. Poi accetta. L’arrivo a Milano nel 1954 è traumatico, viverci «è triste», il traffico è congestionato, ci sono nebbia e smog, è la vera città capitalistica, «la gente è allineata […] cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida […] Poi ci sarebbe il Feltrinelli, detto il giaguaro […] ignorante come un tacco di frate e ricco da fare schifo».
L’ambiente di lavoro non gli piace, gli «intellettuali-funzionari» della casa editrice non gli sono simpatici, trova ridicoli quei «fannulloni frenetici» nella loro ansia di affermazione, troppo disponibili a farsi corrompere. Gli vengono assegnate le traduzioni e la direzione delle collane Scrittori d’oggi e la Bianca e nera. Ma arriva presto il licenziamento per scarso rendimento, senza che nessun collega si esponga in attestazioni di solidarietà. Aveva rotto l’anima a tutti con l’ostentazione del suo essere povero e trasandato. «La sua mancanza assoluta di fanatismo poteva risultare persino una forma di immoralismo», ricorda Mario Spagnol, oggi editore di Longanesi, Guanda e Salani, nel libro di Corrias.
Lo stesso Bianciardi raccontò: «mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile». Feltrinelli, per compensare, gli affida il lavoro esterno di traduttore e lui traduce a ritmi «infernali» procurandosi incubi notturni: «dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a tradurre quel che avevo sognato».
Solo la domenica trova il tempo per scrivere i suoi libri. Nel 1957 pubblica il Lavoro culturale, vende poche copie ma diventa un libro di culto per molti giovani. Con «dieci giorni di sigarette e grappa» nel 1959 scrive L’integrazione, «uno schizzo sarcastico dell’industria culturale all’alba del boom». Ma non è abbastanza. Nel 1961 decide di liberare tutta «la rabbia contro Milano […] Non è una città, non è un paese, non è niente. E’ solo una macchina caotica senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata».
Ha in mente di «buttar giù una grossa pisciata in prima persona sul miracolo economico». Centoventi pagine scritte di getto, La vita agra. La storia è in buona parte autobiografica. Il protagonista, però, non è venuto a Milano per lavorare, ma per realizzare una covata vendetta, vuole far saltare in aria il palazzo della società proprietaria della miniera e responsabile della morte dei quarantatre compaesani. Il successo del libro è incredibile, vende cinquantamila copie in poco più di una settimana.
Montanelli sul Corriere della Sera lo definisce uno dei libri «più vivi e stupefacenti» degli ultimi anni e propone all’autore persino una collaborazione, due pezzi al mese per la terza pagina, per trecentomila lire. Bianciardi rifiuta e si prende del «bischero» dal vecchio leone del giornalismo italiano. Il libro subirà, due anni dopo, una improbabile traduzione cinematografica ma la genuina rabbia di Bianciardi, sbiadita e resa inoffensiva, diventa una commedia umoristica.
La Rizzoli gli propone di scrivere un libro «arrabbiato» l’anno, ma diventare un «incazzato di professione» non lo entusiasma. Ci pensa e poi propone alla casa editrice milanese uno dei suoi libri sul Risorgimento, vecchia passione sempre coltivata.
E’ al culmine del successo, ma lui si schernisce: «per me successo è participio passato del verbo succedere». Forse consapevole che per lui il successo segnerà l’anticamera della fine. Di colpo rimane intrappolato in quegli stessi ingranaggi della società milanese salottiera e progressista che aveva aspramente combattuto, si difende bevendo grappa, cercando l’evasione, è l’inizio della resa.
Insiste con altri libri di divulgazione storica: La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969) e Aprire il fuoco (1969). Sceglie di collaborare con riviste ai margini dell’editoria che conta, come Belfagor, Comunità, Nuovi argomenti e addirittura Playman e Le ore.
Fa esattamente il contrario di quello che ci si aspetta da lui. Decide di sperperare il patrimonio di credibilità accumulato come scrittore e giornalista, «limita la sua protesta ad un’alzata di spalle». Si trasferisce a Rapallo dove, racconta Corrias: «passa metà delle sue giornate nelle osterie di Sant’Anna, gira in pantofole, scrive articoli inutili e libri mediocri. A quarantadue anni, esce di scena». E’ un uomo stanco, deluso, che viaggia sempre meno. Solo nel 1967 si lascia convincere ad andare in Israele. Litiga con chiunque lodi questa nazione. Non sopportava il modo con il quale gli israeliani trattavano gli arabi. Era stato testimone di un rastrellamento ed era rimasto colpito. Quando torna a Rapallo per diverse settimane ostenta una beffarda benda sull’occhio, alla Moshe Dayan, con il dichiarato intento di «prendere per il culo i filoisraeiliani».
Torna per un breve periodo a Grosseto. Intorno il mondo è scosso da eventi epocali: il ‘68, le occupazioni, Praga, l’autunno caldo. Bianciardi è distante anni luce, vive chiuso in se stesso. Racconta Maria Iatosti che solo in un’occasione riuscì a convincerlo a partecipare ad una manifestazione, a Genova. Gli bastò prendere in mano un volantino per esplodere: «Ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione».
Da Rapallo torna a Milano, ma non è più in grado di lavorare. La sua collaborazione con il Guerin Sportivo gli procura lo snobistico disconoscimento degli ambienti culturali radical-chic. Nelle traduzioni che gli vengono commissionate intere righe sono piene di errori se non inventate di sana pianta.
Gli ultimi mesi sono terribili, continua a bere, soffre di crisi depressive, sembra quasi aver fretta di morire. Ha combattuto la sua guerra personale e l’ha persa. Rimangono le sue opere, alcune recentemente ristampate, una decina di libri, tra romanzi e saggi, e i suoi articoli spigolosi e taglienti.
A rendergli giustizia, a farne conoscere la vita e l’opera, dal 1993 è impegnata la Fondazione Luciano Bianciardi (http://www.gol.grosseto.it/asso/bianciardi/ e-mail: fondbian@gol.grosseto.it).
La fondazione, che ha tra gli animatori Luciana, la figlia dello scrittore, svolge una serie di attività, illustrate in una rubrica sulla pagina grossetana de La Nazione, dal titolo Non solo Bianciardi, ha da qualche mese un suo periodico di approfondimento, affettuosamente chiamato Il gabellino. E’ soprattutto grazie a loro che il ricordo di questo irruento toscano rimane vivo.
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