Dal mensile Area, novembre 2000
Nelle «Riflessioni» contenute nel suo romanzo I sette colori, Robert Brasillach, osserva come «coloro che muoiono intorno alla trentina non sono consolidatori, ma fondatori. Portano al mondo l’esempio scintillante della loro vitalità, i loro misteri, le loro conquiste. Frettolosamente, indicano alcune vie, alla luce della loro giovinezza sempre presente. Abbagliano, interpretano, meravigliano […] Bruciano la loro stessa vita, talvolta quella degli altri, ma donano la fiamma, l’avvenire […] non sono venuti per portare al mondo la pace ma la spada».
La breve esistenza di James Douglas Morrison (Melbourne, Florida, 1943 – Parigi 1971) non sfugge a questa descrizione. Frenetico divoratore di testi filosofici, appassionato di cinema e di teatro, Jim Morrison scelse la musica come strumento d’espressione: «per me non si è mai trattato di un’esibizione, di una cosiddetta performance. Era una questione di vita o di morte, un tentativo di comunicare, di coinvolgere molte persone nel prvato mondo del pensiero».
Applicando a se stesso la massima di William Blake, poeta inglese dell’Ottocento, per il quale «la strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza», spese la sua funambolica vita artistica nel tentativo di aprire un varco tra il noto e l’ignoto, di spalancare, come recita il titolo di un libro di Aldous Huxley, «le porte della conoscenza», di lanciare un messaggio di libertà contro «tutte le puttanate che ti hanno insegnato, tutto il lavaggio del cervello che ti ha fatto la società. Devi liberarti di tutto ciò, se vuoi passare dall’altra parte della barricata […] Il mondo che suggeriamo è un nuovo occidente selvaggio. Un mondo sensuale e maledetto, strano e inquietante, il sentiero del sole. Sino alla fine».
Il gruppo musicale che formò e al quale dette il nome di The Doors (le porte) divenne in pochissimi anni una delle band più importanti e famose nella storia del rock. Il successo fu immediato. Nel 1977 uscì il primo singolo Light my fire e subito si impose al primo posto delle classifiche americane dei dischi più venduti, prima di cedere il passo a All you need is love dei Beatles. I numerosi LP prodotti in poco tempo (sei in cinque anni), The Doors, Strange days, Waiting for the sun, The soft parade, Morrison Hotel e L.A. Woman, trovarono ampi consensi negli Stati Uniti come in Europa.
A quasi trent’anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta in circostanze misteriose (l’autopsia parlò di morte per arresto cardiaco, ma non ci sono testimoni), la popolarità di Jim Morrison e dei Doors è ancora viva. La piccola tomba dove riposa, nel cimitero parigino di Père-Lachaise, è oggetto ancora oggi di un continuo pellegrinaggio di fans provenienti da tutto il mondo.
Come con preveggenza osservò lo stesso Morrison: «Esiste un motivo sul fatto che la poesia mi attiri così tanto: perché è talmente eterna! Finché ci saranno persone, ci sarà qualcuno in grado di ricordare parole e combinazioni di parole. Poesia e canzoni potrebbero essere le uniche cose in grado di sopravvivere ad un olocausto». E’ sorprendente, infatti, come l’ennesima nuova antologia The Best of The Doors sia entrata da qualche settimana prepotentemente nella UK Top 10, la classifica degli album più venduti in Inghilterra, mentre in Italia continuano ad essere prodotte e vendute raccolte di CD in eleganti cofanetti e pubblicazioni riguardanti la storia e le canzoni del gruppo musicale.
Recentemente sono state ristampate anche due raccolte delle poesie di Morrison, I signori e Le nuove creature, poesie del Re Lucertola (Edizioni Blues Brothers), che ci mostrano, non come afferma la quarta di copertina del libro, probabilmente per facili fini commerciali, «l’anfratto più riposto e oscuro dell’artista maledetto», ma un poeta ispirato, maturo, antimaterialista, animato da una visionarietà rimbaudiana e da una tensione nietzscheana del superamento dell’esistente.
Le sue poesie parlano di dolore, morte, solitudine, incomunicabilità, ma rappresentano anche un originale ed affascinante mondo fantastico costellato di animali, insetti, lucertole, aquile, dove si avverte la conoscenza di Lovecraft e Bloch.
Adottato abusivamente dall’ultrasinistra come icona progressista e schiacciato sull’immagine ricorrente e stereotipata della rock star pacifista e antifascista, maledetta e autodistruttiva, Jim Morrison è in realtà un personaggio ben più complesso e interessante, come lo è la stessa proposta dei Doors, un’alchimia musicale capace di coniugare una particolare musica rock con la poesia, la teatralità e la drammaturgia.
Estraneo al conformismo degli hippyes, tipico di quegli anni, insofferente verso i dogmi della nuova sinistra, dal vegetarianismo alle roboanti insegne del “Pace e Amore”, il “Re Lucertola” era, come lo descrivono Jerry Hopkins e Danny Sugerman nell’accurata biografia Nessuno uscirà vivo da qui (Edizioni Blues Brothers), un intellettuale raffinato, affascinante e ambizioso, «per molti aspetti conservatore in ambito politico». Come quando, per esempio, «guardava i beneficiari delle opere assistenziali con lo stesso disprezzo che provava per i mendicanti capelloni».
Nato e cresciuto in una famiglia cattolica della medio alta borghesia del Sud, aveva presto dimostrato insofferenza per le convenzioni sociali, gettando nello sconcerto il padre, ufficiale della marina statunitense, pilota di Hellcats e istruttore di programmi militari, nonché, a soli quarantasette anni, il più giovane ammiraglio del paese.
Il giovane James si distinse già nell’ambiente scolastico per la condotta trasgressiva, per la predisposizione per gli studi filosofici, per la passione per la storia medioevale europea e per la “simpatia” per gli indiani d’America. Raccontava, al riguardo, che l’anima di un indiano morto in un incidente stradale si era impossessata di lui, contagiandone ogni scelta successiva.
Allo Junior College di St. Petersburg in Florida, leggeva più di ogni altro studente. I suoi preferiti erano i francesi, soprattutto Céline e Rimbaud, ma anche Baudelaire, Balzac, Cocteau, Molière e gli scrittori beat, Ferlinghetti, Patchen e McClure, dai quali poi prese le distanze. In particolare, anni dopo, rimase deluso dall’incontro con McClure.
Scoprì Nietzsche, il filosofo il cui pensiero maggiormente ne ha influenzato la formazione culturale, l’atteggiamento verso il mondo, gli scritti, le canzoni e le poesie. La lettura di Nietzsche accompagnò costantemente la sua vita, in particolare nella sua permanenza alla Florida State University, dove ne approfondì lo studio frequentando i corsi di filosofia della rivolta. Nel 1964 lasciò la Florida per l’agognata California, dove si iscrisse all’UCLA, la famosa scuola di cinematografia. Il cinema lo appassionava, ma era sempre il tedesco ad avvincerlo, trascorreva intere giornate a leggere e a trascrivere appunti sul pensiero nietzscheano. Lesse La nascita della tragedia. Cominciò ad affascinarlo la dionisiaca arte della musica: «la nascita del rock and roll ha coinciso con la mia adolescenza, con il divenire della mia consapevolezza».
Scriveva poesie e canzoni. Ad ispirarlo erano ancora i suoi scrittori preferiti. Per End of the night disse di aver «preso spunto» dal Viaggio al termine della notte di Céline. Beveva, cominciava sempre più spesso ad assumere droghe, acidi in particolare, ma non, come spesso si è sostenuto, per un’insana attrazione per la morte o per semplice autolesionismo. Da Nietzsche Jim aveva tratto una ardente voglia di donarsi, o, meglio, di consumarsi. Voleva vedere oltre. L’imperativo che si era dato era quello di aprirsi un varco verso una nuova vita, come incita in Break on through, una delle sue canzoni più famose: «apriti un varco dall’altra parte […] Prendi l’autostrada verso il confine della notte».
Aveva senz’altro seguito il consiglio di Rimbaud, per il quale si diventa poeti solo dopo «un lungo, illimitato e sistematico scardinamento di tutti i sensi». E lui si sentiva sempre più uno «sciamano», un poeta, piuttosto che uno showman: «io canto quello che gli altri non dicono. Per me contano solo i testi di una canzone. Sono un poeta. Mi piace dire al mondo cose importanti. Tutto ciò che esiste è un simbolo. Ogni cosa sembra lì per se stessa ma in realtà è qualcosa d’altro. La vera poesia non dice nulla. Dà solamente una parvenza della realtà. Apre tutte le porte».
Non voleva fare solo musica e cavalcare l’onda del ribellismo nascente: «non sto affatto parlando di rivoluzione, non sto parlando di manifestazioni o di scendere in piazza, sto parlando di danzare». Non era nel suo stile assecondare gli umori del pubblico. Anzi, spesso lo provocava, rivolgendogli frasi ingiuriose: «siete un mucchio di fottuti idioti». Sputava rivolto verso la platea. Esattamente come gli attori del Living Theatre, insultava gli spettatori per svegliarli dal loro letargo, stimolarli a reagire e a partecipare.
Intervistato dalla rivista Time, dopo i primi successi, rappresentò la musica dei Doors come un «teatro-rock» che fonde la musica con «la struttura del dramma poetico». Morrison è stato infatti il primo a parlare delle implicazioni mitiche e dei poteri archetipici del rock, delle caratteristiche «rituali» del concerto, non mancando di suscitare l’ilarità della critica militante. I giornalisti “impegnati” lo presentavano spesso con nomignoli offensivi come “Topolino De Sade”, ricordandogli di essere “solo” un cantante e invitandolo a non prendersi troppo sul serio.
Morrison non voleva essere “solo” questo, cominciò a sentirsi a disagio nel ruolo del divo, si accorgeva che il messaggio che aveva voluto lanciare con i Doors non era stato recepito e che il pubblico era attirato soprattutto dal “sensazionale”, dal «magnetismo dell’idolo erotico».
Mostrava, sempre di più, fastidio per il suo stesso pubblico, si sentiva stretto nelle vesti da palcoscenico. Indifferente agli esorbitanti guadagni, cercò di concentrarsi sulle sue poesie, firmandole con il nome di battesimo, James Douglas, nel tentativo di far convivere, tenendole separate, le due identità, il cantante ed il poeta. Alla soddisfazione per la pubblicazione delle sue raccolte subentrò però la delusione per la scelta editoriale di pubblicarle con il nome di Jim Morrison, corredate da foto “sceniche” e riferimenti alla sua attività di cantante.
Scelse l’esilio a Parigi nel tentativo di sottrarsi all’abbraccio distruttivo della folla, ad una popolarità che avvertiva sempre più come intollerabile e soffocante. Ma il suo corpo era troppo stanco, sfinito da una vita spesa a piene mani. C’è però chi ritiene che Morrison sia morto per rinascere come poeta, sostenendo che il decesso sia stato solo una messa in scena, l’ultima. E’ la tesi di Jacques Rocard, che nel suo libro Vivo sostiene di averlo conosciuto diversi anni dopo la sua “morte simulata” e per certi versi questa versione potrebbe essere anche verosimile.
Ma a noi piace credere che al Père-Lachaise, in compagnia dei tanti poeti e artisti che amava e di cui si sentiva fratello, Wilde, Balzac, Baudelaire, Proust e Bizet, abbia finalmente trovato quel varco a lungo cercato. Break on through to the oder side, Jim.
La breve esistenza di James Douglas Morrison (Melbourne, Florida, 1943 – Parigi 1971) non sfugge a questa descrizione. Frenetico divoratore di testi filosofici, appassionato di cinema e di teatro, Jim Morrison scelse la musica come strumento d’espressione: «per me non si è mai trattato di un’esibizione, di una cosiddetta performance. Era una questione di vita o di morte, un tentativo di comunicare, di coinvolgere molte persone nel prvato mondo del pensiero».
Applicando a se stesso la massima di William Blake, poeta inglese dell’Ottocento, per il quale «la strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza», spese la sua funambolica vita artistica nel tentativo di aprire un varco tra il noto e l’ignoto, di spalancare, come recita il titolo di un libro di Aldous Huxley, «le porte della conoscenza», di lanciare un messaggio di libertà contro «tutte le puttanate che ti hanno insegnato, tutto il lavaggio del cervello che ti ha fatto la società. Devi liberarti di tutto ciò, se vuoi passare dall’altra parte della barricata […] Il mondo che suggeriamo è un nuovo occidente selvaggio. Un mondo sensuale e maledetto, strano e inquietante, il sentiero del sole. Sino alla fine».
Il gruppo musicale che formò e al quale dette il nome di The Doors (le porte) divenne in pochissimi anni una delle band più importanti e famose nella storia del rock. Il successo fu immediato. Nel 1977 uscì il primo singolo Light my fire e subito si impose al primo posto delle classifiche americane dei dischi più venduti, prima di cedere il passo a All you need is love dei Beatles. I numerosi LP prodotti in poco tempo (sei in cinque anni), The Doors, Strange days, Waiting for the sun, The soft parade, Morrison Hotel e L.A. Woman, trovarono ampi consensi negli Stati Uniti come in Europa.
A quasi trent’anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta in circostanze misteriose (l’autopsia parlò di morte per arresto cardiaco, ma non ci sono testimoni), la popolarità di Jim Morrison e dei Doors è ancora viva. La piccola tomba dove riposa, nel cimitero parigino di Père-Lachaise, è oggetto ancora oggi di un continuo pellegrinaggio di fans provenienti da tutto il mondo.
Come con preveggenza osservò lo stesso Morrison: «Esiste un motivo sul fatto che la poesia mi attiri così tanto: perché è talmente eterna! Finché ci saranno persone, ci sarà qualcuno in grado di ricordare parole e combinazioni di parole. Poesia e canzoni potrebbero essere le uniche cose in grado di sopravvivere ad un olocausto». E’ sorprendente, infatti, come l’ennesima nuova antologia The Best of The Doors sia entrata da qualche settimana prepotentemente nella UK Top 10, la classifica degli album più venduti in Inghilterra, mentre in Italia continuano ad essere prodotte e vendute raccolte di CD in eleganti cofanetti e pubblicazioni riguardanti la storia e le canzoni del gruppo musicale.
Recentemente sono state ristampate anche due raccolte delle poesie di Morrison, I signori e Le nuove creature, poesie del Re Lucertola (Edizioni Blues Brothers), che ci mostrano, non come afferma la quarta di copertina del libro, probabilmente per facili fini commerciali, «l’anfratto più riposto e oscuro dell’artista maledetto», ma un poeta ispirato, maturo, antimaterialista, animato da una visionarietà rimbaudiana e da una tensione nietzscheana del superamento dell’esistente.
Le sue poesie parlano di dolore, morte, solitudine, incomunicabilità, ma rappresentano anche un originale ed affascinante mondo fantastico costellato di animali, insetti, lucertole, aquile, dove si avverte la conoscenza di Lovecraft e Bloch.
Adottato abusivamente dall’ultrasinistra come icona progressista e schiacciato sull’immagine ricorrente e stereotipata della rock star pacifista e antifascista, maledetta e autodistruttiva, Jim Morrison è in realtà un personaggio ben più complesso e interessante, come lo è la stessa proposta dei Doors, un’alchimia musicale capace di coniugare una particolare musica rock con la poesia, la teatralità e la drammaturgia.
Estraneo al conformismo degli hippyes, tipico di quegli anni, insofferente verso i dogmi della nuova sinistra, dal vegetarianismo alle roboanti insegne del “Pace e Amore”, il “Re Lucertola” era, come lo descrivono Jerry Hopkins e Danny Sugerman nell’accurata biografia Nessuno uscirà vivo da qui (Edizioni Blues Brothers), un intellettuale raffinato, affascinante e ambizioso, «per molti aspetti conservatore in ambito politico». Come quando, per esempio, «guardava i beneficiari delle opere assistenziali con lo stesso disprezzo che provava per i mendicanti capelloni».
Nato e cresciuto in una famiglia cattolica della medio alta borghesia del Sud, aveva presto dimostrato insofferenza per le convenzioni sociali, gettando nello sconcerto il padre, ufficiale della marina statunitense, pilota di Hellcats e istruttore di programmi militari, nonché, a soli quarantasette anni, il più giovane ammiraglio del paese.
Il giovane James si distinse già nell’ambiente scolastico per la condotta trasgressiva, per la predisposizione per gli studi filosofici, per la passione per la storia medioevale europea e per la “simpatia” per gli indiani d’America. Raccontava, al riguardo, che l’anima di un indiano morto in un incidente stradale si era impossessata di lui, contagiandone ogni scelta successiva.
Allo Junior College di St. Petersburg in Florida, leggeva più di ogni altro studente. I suoi preferiti erano i francesi, soprattutto Céline e Rimbaud, ma anche Baudelaire, Balzac, Cocteau, Molière e gli scrittori beat, Ferlinghetti, Patchen e McClure, dai quali poi prese le distanze. In particolare, anni dopo, rimase deluso dall’incontro con McClure.
Scoprì Nietzsche, il filosofo il cui pensiero maggiormente ne ha influenzato la formazione culturale, l’atteggiamento verso il mondo, gli scritti, le canzoni e le poesie. La lettura di Nietzsche accompagnò costantemente la sua vita, in particolare nella sua permanenza alla Florida State University, dove ne approfondì lo studio frequentando i corsi di filosofia della rivolta. Nel 1964 lasciò la Florida per l’agognata California, dove si iscrisse all’UCLA, la famosa scuola di cinematografia. Il cinema lo appassionava, ma era sempre il tedesco ad avvincerlo, trascorreva intere giornate a leggere e a trascrivere appunti sul pensiero nietzscheano. Lesse La nascita della tragedia. Cominciò ad affascinarlo la dionisiaca arte della musica: «la nascita del rock and roll ha coinciso con la mia adolescenza, con il divenire della mia consapevolezza».
Scriveva poesie e canzoni. Ad ispirarlo erano ancora i suoi scrittori preferiti. Per End of the night disse di aver «preso spunto» dal Viaggio al termine della notte di Céline. Beveva, cominciava sempre più spesso ad assumere droghe, acidi in particolare, ma non, come spesso si è sostenuto, per un’insana attrazione per la morte o per semplice autolesionismo. Da Nietzsche Jim aveva tratto una ardente voglia di donarsi, o, meglio, di consumarsi. Voleva vedere oltre. L’imperativo che si era dato era quello di aprirsi un varco verso una nuova vita, come incita in Break on through, una delle sue canzoni più famose: «apriti un varco dall’altra parte […] Prendi l’autostrada verso il confine della notte».
Aveva senz’altro seguito il consiglio di Rimbaud, per il quale si diventa poeti solo dopo «un lungo, illimitato e sistematico scardinamento di tutti i sensi». E lui si sentiva sempre più uno «sciamano», un poeta, piuttosto che uno showman: «io canto quello che gli altri non dicono. Per me contano solo i testi di una canzone. Sono un poeta. Mi piace dire al mondo cose importanti. Tutto ciò che esiste è un simbolo. Ogni cosa sembra lì per se stessa ma in realtà è qualcosa d’altro. La vera poesia non dice nulla. Dà solamente una parvenza della realtà. Apre tutte le porte».
Non voleva fare solo musica e cavalcare l’onda del ribellismo nascente: «non sto affatto parlando di rivoluzione, non sto parlando di manifestazioni o di scendere in piazza, sto parlando di danzare». Non era nel suo stile assecondare gli umori del pubblico. Anzi, spesso lo provocava, rivolgendogli frasi ingiuriose: «siete un mucchio di fottuti idioti». Sputava rivolto verso la platea. Esattamente come gli attori del Living Theatre, insultava gli spettatori per svegliarli dal loro letargo, stimolarli a reagire e a partecipare.
Intervistato dalla rivista Time, dopo i primi successi, rappresentò la musica dei Doors come un «teatro-rock» che fonde la musica con «la struttura del dramma poetico». Morrison è stato infatti il primo a parlare delle implicazioni mitiche e dei poteri archetipici del rock, delle caratteristiche «rituali» del concerto, non mancando di suscitare l’ilarità della critica militante. I giornalisti “impegnati” lo presentavano spesso con nomignoli offensivi come “Topolino De Sade”, ricordandogli di essere “solo” un cantante e invitandolo a non prendersi troppo sul serio.
Morrison non voleva essere “solo” questo, cominciò a sentirsi a disagio nel ruolo del divo, si accorgeva che il messaggio che aveva voluto lanciare con i Doors non era stato recepito e che il pubblico era attirato soprattutto dal “sensazionale”, dal «magnetismo dell’idolo erotico».
Mostrava, sempre di più, fastidio per il suo stesso pubblico, si sentiva stretto nelle vesti da palcoscenico. Indifferente agli esorbitanti guadagni, cercò di concentrarsi sulle sue poesie, firmandole con il nome di battesimo, James Douglas, nel tentativo di far convivere, tenendole separate, le due identità, il cantante ed il poeta. Alla soddisfazione per la pubblicazione delle sue raccolte subentrò però la delusione per la scelta editoriale di pubblicarle con il nome di Jim Morrison, corredate da foto “sceniche” e riferimenti alla sua attività di cantante.
Scelse l’esilio a Parigi nel tentativo di sottrarsi all’abbraccio distruttivo della folla, ad una popolarità che avvertiva sempre più come intollerabile e soffocante. Ma il suo corpo era troppo stanco, sfinito da una vita spesa a piene mani. C’è però chi ritiene che Morrison sia morto per rinascere come poeta, sostenendo che il decesso sia stato solo una messa in scena, l’ultima. E’ la tesi di Jacques Rocard, che nel suo libro Vivo sostiene di averlo conosciuto diversi anni dopo la sua “morte simulata” e per certi versi questa versione potrebbe essere anche verosimile.
Ma a noi piace credere che al Père-Lachaise, in compagnia dei tanti poeti e artisti che amava e di cui si sentiva fratello, Wilde, Balzac, Baudelaire, Proust e Bizet, abbia finalmente trovato quel varco a lungo cercato. Break on through to the oder side, Jim.
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