sabato 9 dicembre 2006

Wilde, il socialista aristocratico

Dal mensile Area, dicembre 2000
«Un’idea che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata un’idea». Forte di questo convincimento, sempre difeso con coraggio e coerenza, Oscar Wilde, artista poliedrico, commediografo, scrittore, poeta, saggista, visse il suo tempo caratterizzandosi come un demolitore delle fondamenta moralistiche e materialistiche della società borghese vittoriana, un vero e proprio critico ante litteram della cultura di massa. Sostenitore dell’estetismo e della bellezza contro l’involuzione della società moderna, condusse un’impavida battaglia contro le rigide etichette morali del tempo affermando, come Nietzsche, l’insufficienza dei concetti di bene e male per esprimere la complessità dei comportamenti umani.
A cento anni dalla sua morte, avvenuta il 30 novembre 1900, il suo pensiero e la sua opera rimangono estremamente attuali. Spesso rappresentato nel caricaturale ritratto di polemista, sardonico battutista e confezionatore di aforismi, sono arrivate in libreria a rendere omaggio e giustizia al grande irlandese, negli ultimi mesi, tra le tante pubblicazioni di e su Oscar Wilde, la ponderosa biografia di Richard Ellmann (Mondadori) e l’edizione riveduta e ampliata delle sue opere nei prestigiosi Meridiani.
Nato a Dublino nel 1854 da William, uno stimato medico che si meritò la nomina di chirurgo oculista della Regina e successivamente quella di Cavaliere, e da Jane, che con lo pseudonimo di Speranza fu una delle più importanti poetesse dell’Irlanda, crebbe in un ambiente dove l’anticonformismo ed il nazionalismo erano di casa. Entrambi i genitori, infatti, erano di idee nazionaliste. In particolare la madre trasmise al figlio la determinazione a tradurle in versi. Speranza raccontava di essere diventata poetessa per rispondere all’appello politico del poeta Richard d’Alton Williams che, rivolto alle donne irlandesi, aveva chiesto di «non cantarci più altri canti se non quello della patria», e ricordava quando dalle pagine del giornale The Nation aveva incitato all’insurrezione armata contro gli inglesi.
Studente brillante e dotato di una intelligenza fuori dal comune, Wilde studiò alla Portora Royal School prima di approdare, come vincitore di una borsa di studio, al Trinity College di Dublino. Qui manifestò una particolare predilezione per i greci, rispetto ai quali rivendicava una certa continuità: «noi irlandesi siamo troppo poetici per essere poeti; siamo una nazione di brillanti falliti, ma siamo i più grandi parlatori dai tempi dei greci». Al contempo si andava formando la sua personalità vivace ed estrosa, un incontenibile anticonformismo che manifestava già nel suo caratteristico abbigliamento dandy, sintesi della sua indifferenza per la rispettabilità borghese e dell’epidermico rigetto per la morale convenzionale.
Caratteristiche che, insieme ad un’innata capacità di conversatore, lo resero un personaggio singolare tra gli studenti di Dublino. A soli venti anni, grazie ad un’altra borsa di studio, si trovò a misurarsi con la più antica e prestigiosa università d’Inghilterra, il Madgalen College di Oxford, da dove uscì pochi anni dopo con una laurea in materie umanistiche, attribuendosi la qualità di «docente d’estetica» e con la dichiarata ambizione di portare nel mondo la bellezza, di cui si definiva l’apostolo, convinto com’era che andassero combattuti gli orrori della società industriale. «L’industria è la radice di ogni bruttezza», ripeteva.
Nel frattempo le sue idee politiche si erano definite e trovavano inequivocabile espressione nelle poesie come nella conversazione, così ricercata da far dire a Yeats: «sembrava scritta durante la notte con grande travaglio ed invece era assolutamente spontanea». Come scrive Ellmann, Wilde «condivideva con la madre l’odio per il dominio della folla e i suoi eccessi, ma anche l’ammirazione per l’eroismo personale e la solidarietà con gli oppressi». In particolare in Vera, una delle prime opere di Wilde, i protagonisti si fanno portavoce delle idee politiche dell’autore. Il Principe Paolo afferma che «in una buona democrazia ogni uomo dovrebbe essere un aristocratico».
E’ quello di Wilde un socialismo aristocratico, che non si lascia «impastoiare da qualche credo ferreo […] E tutto questo è un bene. Perché rendere socialisti gli uomini non è nulla, ma rendere umano il socialismo è una gran cosa». La società che prefigurava è quella che oggi definiremmo postmoderna, dove le macchine finiscono con il sostituire il lavoro manuale, consentendo a chiunque, almeno nel disegno di Wilde, di coltivare le proprie attitudini artistiche.
Per esprimere le sue idee colse l’opportunità che gli venne offerta di recarsi negli Stati Uniti per tenere delle conferenze sull’estetismo. Vi si recò con lo sbandierato obiettivo di «civilizzare l’America». Tenne ben centoquaranta conferenze in duecentosessanta giorni, discorrendo con particolare talento istrionico degli argomenti più disparati: “Rinascimento inglese”; “La casa bella”; “Le arti figurative”; “I poeti irlandesi del 1848”.
La politica non mancò mai nelle sue conferenze e nei difficili rapporti con una stampa incuriosita e a volte diffidente. Wilde ribadì la sua fede in più occasioni: «si, sono un repubblicano convinto». Di fronte alle provocazioni dei giornalisti, che gli chiedevano cosa pensasse del terrorismo nazionalista rispondeva: «Noi dimentichiamo quanto sia da biasimare l’Inghilterra. Sta raccogliendo ora il frutto di sette secoli d’ingiustizia». Con riferimento all’arte aggiungeva: «Con l’arrivo degli inglesi l’arte irlandese si spense e non esiste più da settecento anni. Sono felice che sia così perché l’arte non può vivere e fiorire sotto tiranno». Ad un cronista di San Francisco disse che detestava talmente i demagoghi che preferiva loro i dittatori. Ellmann scrive che quando Wilde si recò nell’America del Sud non perse occasione pubblica per dare scandalo con dichiarazioni ardite: «c’è un’analogia tra la Confederazione del Sud e l’Irlanda; entrambe sono scese in battaglia ed entrambe sono state sconfitte e l’aspirazione all’autonomia le rende simili». Fino a suscitare scalpore dichiarando che «i princìpi per i quali Jefferson Davis ed il Sud entrarono in guerra non possono essere vinti».
Dopo una breve vacanza a Parigi, tornò a Londra dove si sposò e avviò una serie di attività, quella giornalistica di recensore culturale, di scrittore di storie umoristiche e di favole per bambini, ma anche di stravagante direttore di un giornale per signore, sino a trovare nel teatro il suo vero talento e un successo strepitoso quanto immediato con le sue opere I fan di Lady Windermere, Una donna senza importanza e Un marito ideale.
Nel 1891 regalò all’estetismo e al decadentismo un vero e proprio manifesto, Il ritratto di Dorian Gray, il suo unico romanzo, che lo impose all’attenzione internazionale. Ma per un tragico scherzo del destino, nel momento in cui diventava il padrone assoluto della scena artistica londinese e con la sua opera L’importanza di chiamarsi Ernesto toccava l’apice della sua arte, Wilde cadde nella polvere, rovinosamente. Accusato nel 1895 di sodomia venne trascinato in giudizio. Affrontò il processo, senza cedere ai ripetuti inviti degli amici a lasciare il paese. Malgrado l’efficace difesa, il cui resoconto è stato di recente ripubblicato in ogni dettaglio ne L’arte dell’impertinenza (Editori riuniti) venne condannato a due anni di lavori forzati per «atti osceni con individui di sesso maschile» e conobbe la durezza degli istituti di pena inglese.
Le sue commedie furono tolte dai cartelloni, i suoi beni venduti e dichiarato insolvente, il suo nome cancellato dagli annali delle scuole che aveva frequentato con capacità, in una parola venne ripudiato da tutti, compresi la moglie ed i figli, che cambiarono cognome, come fece lui stesso, del resto.
Restituito alla libertà, ma fiaccato nello spirito e nel fisico, trascorse gli ultimi anni nella semiclandestinità, rifiutato, costretto a vagare come un’anima in pena tra l’Italia e la Francia. Come disse Joyce: «la sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana, cacciato, come una lepre dai cani, di albergo in albergo». A Parigi, dove si stabilì in squallide locande, costretto a cambiare spesso dimora, accelerò la sua corsa verso la fine conducendo una vita sregolata e piena di sofferenze.
La morte arrivò presto, quando aveva solo qurantaquattro anni. Le ipotesi sulle cause si sono susseguite nel tempo, ma la più probabile è che il decesso fu causato dal progredire di una malcurata infezione ad un orecchio, contratta in seguito ad una caduta in carcere. Insofferente da sempre alla natia religione protestante, nella quale vi identificava la detestata società borghese, e sin da ragazzo attratto da quella cattolica, decise, come racconta Joyce, di voler morire da «cattolico romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita della sua fiera dottrina».
A cento anni dalla morte, Wilde rimane un uomo, come disse Jorge Luis Borges in Altre inquisizioni, «che conserva, nonostante le abitudini del male e della sventura, un’invulnerabile innocenza». A lui, che fu sempre orgoglioso di appartenere alla più «grande aristocrazia europea», quella irlandese, le Poste del suo Paese hanno reso omaggio quest’anno con l’emissione di una serie di francobolli commemorativi .
Anche a noi piace ricordare questo personaggio temerario, che era, per dirla con Ellman: «malinconico sotto l’apparenza spavalda, energico dietro le mollezze del corpo e intransigente a dispetto della serietà sempre sconfessata».

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