Dal mensile Area, novembre 2001
«Muore giovane colui che è caro al cielo», scrisse secoli fa il commediografo greco Menandro (342 a.C. – 291 a.C.). Non si può scegliere frase migliore per ricordare Dino Garrone, scomparso prematuramente settanta anni fa (1904-1931): poeta, storico della letteratura e scrittore, figura artistica tra le più interessanti della prima metà del Novecento.
Giovanissimo aveva dato piena e romantica adesione al fascismo, impegnando la sua breve vita e il suo talento per combatterne da dentro quella che riteneva la deriva borghese e liberaldemocratica del regime. Coetaneo e amico del fiorentino Berto Ricci, appartenne a quella generazione di intellettuali appassionati e di fascisti intransigenti e eretici che si batterono per l’affermazione di un fascismo “autentico” e “di sinistra”, fieramente anticapitalista e “popolare”, sempre pronti a combattere «i conformismi, gli accademisti, la corruzione, la prostituzione dei letterati al potere».
Le sue opere più significative vennero tutte pubblicate postume: Prose, Ancona, All’insegna del Conero, 1934; Lettere, Firenze, Vallecchi 1938; Fiducia mattutina: lettere ad un amico, Rovereto, Manfrini, 1938; G. Verga, Firenze, Vallecchi, 1941; Sei prose, Milano, Scheiwiller, 1942; Epistolario di Dino Garrone e E. Persico, Forlì, 1943; Sorriso degli etruschi, Milano, Bompiani, 1944; Le più belle pagine, a cura di D. Lombrassa, Firenze, Vallecchi, 1973. Più recentemente sono stati pubblicati: Carteggi con gli amici (1922-1931) Edizioni Quattroventi, 1994; Frontiera 1931 Dino Garrone e la cultura italiana degli anni Venti – Trenta, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996; Prosa creativa e scrittura in Dino Garrone, Bulzoni, 1998.
Il contributo più rilevante e completo è senz’altro quello offerto da Paolo Buchignani con la sua opera Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Il Mulino, 1994. Nel testo, tra le numerosissime e dettagliate informazioni sulla vicenda umana e politica di Garrone, è riportata la migliore sintesi della sua biografia, scritta proprio dall’amico Berto Ricci.
«Dino Garrone, nacque a Novara, visse il più delle volte a Pesaro, studiò a Bologna: passò gli ultimi tempi tra Milano, Pesaro e Parigi. A Parigi morì di ventisette anni il 10 dicembre 1931, d’una setticemia improvvisa. Dopo di lui andò in frantumi la famiglia, morti in pochi mesi il padre e il fratello Guido, rimaste le donne sole. Pubblicò nel Corriere Adriatico, nelle diverse edizioni dell’Impero, nel Lavoro Fascista e in altri quotidiani; nell’Assalto, nella Fiera Letteraria, nel Belvedere, nell’Universale, nella Libra e in altri periodici. Un volume di prose uscì postumo in Ancona. Scrisse racconti ed invenzioni, fantasie sullo stato umano e sulla natura, articoli politici e critiche di letteratura e d’arte, qualche poesia; lasciò abbozzata una storia apocrifa di Colombo. Si laureò con una tesi su Verga. Ebbe un duello. Con amici attraversò su un cutter l’Adriatico in tempesta, e tornarono nello stesso modo. Era bello, vibrante di gioventù, piaceva. Piacque anche a diverse donne. Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni: diviso, ma non disperso, tra il bisogno della cultura e l’imperativo dell’azione, e quella fatalità di essere grande o nulla, grande per gli altri e non per sé, essere con tutte le sue forze e per tutte le fibre, con tutta la natura e con tutta l’umanità, e di tutto quel ch’è natura, e di tutto quel ch’è umano partecipare».
In queste righe si avverte l’incondizionata ammirazione che Ricci nutriva per l’amico. L’affinità elettiva tra i due nacque verso la fine del 1928, attraverso comuni collaborazioni giornalistiche, per poi svilupparsi sempre più intensa in forma epistolare, tanto che Garrone, ancora prima di incontrarlo, scrisse: «Io che per Berto Ricci domani sono disposto a fare le coltellate non l’ho mai visto […] Non ti sembra mirabile che a distanza di centinaia di chilometri ci sian dei giovani che senza essersi mai visti, combinino insieme come i sette della primiera? Che si venga formando una mentalità comune rocciosa e decisa, insomma la nuova generazione letteraria?».
Buchignani descrive mirabilmente il comune ambiente sociale e i condivisi riferimenti culturali: «entrambi di origini piccolo-borghesi, sono figli di La Voce e di Lacerba e anche de Il Selvaggio, considerano Papini e Soffici i loro maestri, anche se solo i Papini e i Soffici della fase eversiva, precedente al loro ritorno all’ordine; hanno letto con entusiasmo Mazzini e Carducci, Oriani e D’Annunzio».
Apprezzavano questi autori perché, come loro, avevano vissuto i travagli e le inquietudini di un’epoca di cambiamenti e di crisi, ma se ne staccarono presto per intraprendere un nuovo progetto di rinnovamento della società italiana.
«C’è un’atmosfera unica», scrive Garrone a Ricci, «che imbeve il nuovo campo letterario italiano e di cui i giovani vivi respirano. Per me mai come oggi c’è la via chiara. Dopo l’esperienza dannunziana, che più o meno tutti abbiam fatta, e il bombardamento futurista, si rinasce al mondo con occhi chiari e i freschi colori del mattino».
Buchignani individua nel senese Federigo Tozzi il «caposaldo nella proposta politico culturale» dei due giovani intellettuali. Lo scrittore senese è «inquieto, agitato, amaro raffinatissimo», è un ribelle che non manca di esprimere «la sua anarchica ribellione nei confronti della società borghese e dei suoi idoli gretti». Tozzi «incarna in modo efficace l’essenza della toscanità e quindi dell’italianità» perché, come spiega lo stesso Ricci su Il Bargello: «ridimostrò coi fatti […] una verità secolare, e cioè che noi d’Italia si può essere sottili, dolorosamente ironici ed anche in una certa grandiosa maniera malati e malvagi, restando noi; con le nostre campagne e le nostre città murate, noi col nostro tono paesano, senza pigliare a prestito abito e trucchi teatrali di fuori». E’ anche il cattolicesimo «reazionario e apocalittico» di Tozzi ad affascinare Garrone, che pure si sentiva «condannato a vivere in un eterno precristianesimo, senza arrivare a sentirsi felice nel Cristo». Sono i veristi ad entusiasmarli ed il siciliano Giovanni Verga in particolare. Garrone gli dedicò la tesi di laurea (stampata per interessamento dello stesso Ricci nel 1941).
Se pure rimasero intatti fino alla fine i sentimenti di amicizia e lealtà tra i due, la solida passione civile e la comune speranza di vedere un giorno l’affermazione del «fascismo autentico», i progetti finirono per dividersi, specialmente quelli letterari.
Garrone era certamente un estimatore del Ricci poeta, ma rimproverava all’amico, come testimoniato anche dalle lettere a lui indirizzate (Garrone, Lettere, a cura di Berto Ricci e Romano Bilenchi, Vallecchi 1938), di aver «sacrificato la poesia al giornalismo e alla polemica politica». «Tralascia la polemica e fa quello che devi fare: il poeta. Il tuo libretto, Poesie [dedicato allo stesso Garrone, nda], è la più bella polemica in atto che hai scritto». «La politica non è congeniale ad un’artista, ma ad un politico», ricordava sempre più spesso all’amico.
Quando Ricci intraprese l’iniziativa de L’Universale aderirono giovani intellettuali e artisti come Indro Montanelli, Diano Brocchi, Roberto Pavese, Antonio Aniante, Camillo Pellizzi, Edgardo Sulis, Luigi Bartolini, Gioacchino Contri, Icilio Petrone, Carlo Cordiè e Romano Bilenchi. Garrone no, non lo seguì, non sentendo la necessità di partecipare a quello che riteneva un ennesimo «inutile organo politico». Dopo pochi mesi dalla nascita del foglio Garrone si trasferì a Parigi, dove progettò una rivista «unicamente artistica e culturale», tutta in francese, Socrate, alla quale avrebbero collaborato, nelle intenzioni dell’ideatore, intellettuali e artisti. L’iniziativa non si realizzò mai per l’improvvisa morte di Garrone.
L’ingenua speranza di vedere sconfitto il «fascismo regime» si era già attenuata nel 1930, insieme con l’aumentare della sfiducia nell’azione rinnovatrice della politica.
Pur continuando a disprezzare «l’Italia impestata dalle mode» dove «ogni villanzone può gabellarsi per artista», Garrone decise di dedicarsi solo all’arte.
In una delle ultime lettere parigine, scritta nell’estate del 1931, si rivolge amaramente all’amico Ricci: «Cos’è successo con le nostre polemiche? La realtà non s’è spostata di un pelo, la stupidaggine, la balorderia imperversa, nelle esposizioni, nei libri ufficiali, sui giornali, sui muri, dappertutto. E’ inutile appellarsi alla gerarchia superiore, e confondere un proprio ordine spirituale, una propria ideale realtà, con la realtà vera, quotidiana, visibile, operante di tutti i giorni. La politica è sempre ciò che produce nella realtà, nelle organizzazioni, nelle cose pratiche. Dire che questa politica è falsa, e appellare poi con lo stesso nome ciò che si vorrebbe accadesse, si cade in un equivoco. Non riconoscere questo equivoco vuol dire mancare in un certo senso di logica, di forza. Noi siamo per un Fascismo poesia che è, in ultima analisi, la poesia stessa – cioè mondo agile, di cervello vivo, selezionato, greco – e che ha poco a vedere, anzi nulla, con ciò che si verifica».
Si può dire, senza fare ironia, che Garrone trascorse la sua breve vita in attesa di un cenno di Mussolini. Ripeteva agli amici: «Quando Mussolini avrà bisogno di noi, noi i disgraziati, noi che abbiamo tirato la vita con i denti, noi che l’Italia l’amiamo con la passione dell’anima, allora il duce vedrà chi sono gli artisti italiani. Si sa, adesso, si passa quasi per antifascisti! Noi che sprechiamo la vita per dare all’Italia l’arte fascista!».
Invece, dal fascismo ufficiale ricevette solo delusioni e amarezze, come quando il regime si oppose alla pubblicazione del libro Dentro la Guerra di Ottone Rosai, punto di riferimento importante nella formazione culturale e umana di Garrone (l’opera uscirà solo nel 1934).
La morte improvvisa e drammaticamente precoce di Dino lasciò un vuoto incolmabile e ne fece un vero mito per un’intera generazione di fascisti scomodi. «Bolscevici in camicia nera», vennero definiti dai loro stessi “camerati”. Ricci, nei pochi anni che rimanevano a quella «grande epopea mancata del fascismo», (come la chiamò Indrò Montanelli), manifestò in più occasioni a Garrone la piena fedeltà culturale e morale, fino a farne, come scrisse nel primo anniversario della scomparsa su L’Universale: «l’esempio nostro, il terreno archetipo della gioventù». Una gioventù che si disperse tragicamente, e in buona parte cadde sotto il fuoco nemico, nel sangue.
Giovanissimo aveva dato piena e romantica adesione al fascismo, impegnando la sua breve vita e il suo talento per combatterne da dentro quella che riteneva la deriva borghese e liberaldemocratica del regime. Coetaneo e amico del fiorentino Berto Ricci, appartenne a quella generazione di intellettuali appassionati e di fascisti intransigenti e eretici che si batterono per l’affermazione di un fascismo “autentico” e “di sinistra”, fieramente anticapitalista e “popolare”, sempre pronti a combattere «i conformismi, gli accademisti, la corruzione, la prostituzione dei letterati al potere».
Le sue opere più significative vennero tutte pubblicate postume: Prose, Ancona, All’insegna del Conero, 1934; Lettere, Firenze, Vallecchi 1938; Fiducia mattutina: lettere ad un amico, Rovereto, Manfrini, 1938; G. Verga, Firenze, Vallecchi, 1941; Sei prose, Milano, Scheiwiller, 1942; Epistolario di Dino Garrone e E. Persico, Forlì, 1943; Sorriso degli etruschi, Milano, Bompiani, 1944; Le più belle pagine, a cura di D. Lombrassa, Firenze, Vallecchi, 1973. Più recentemente sono stati pubblicati: Carteggi con gli amici (1922-1931) Edizioni Quattroventi, 1994; Frontiera 1931 Dino Garrone e la cultura italiana degli anni Venti – Trenta, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996; Prosa creativa e scrittura in Dino Garrone, Bulzoni, 1998.
Il contributo più rilevante e completo è senz’altro quello offerto da Paolo Buchignani con la sua opera Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Il Mulino, 1994. Nel testo, tra le numerosissime e dettagliate informazioni sulla vicenda umana e politica di Garrone, è riportata la migliore sintesi della sua biografia, scritta proprio dall’amico Berto Ricci.
«Dino Garrone, nacque a Novara, visse il più delle volte a Pesaro, studiò a Bologna: passò gli ultimi tempi tra Milano, Pesaro e Parigi. A Parigi morì di ventisette anni il 10 dicembre 1931, d’una setticemia improvvisa. Dopo di lui andò in frantumi la famiglia, morti in pochi mesi il padre e il fratello Guido, rimaste le donne sole. Pubblicò nel Corriere Adriatico, nelle diverse edizioni dell’Impero, nel Lavoro Fascista e in altri quotidiani; nell’Assalto, nella Fiera Letteraria, nel Belvedere, nell’Universale, nella Libra e in altri periodici. Un volume di prose uscì postumo in Ancona. Scrisse racconti ed invenzioni, fantasie sullo stato umano e sulla natura, articoli politici e critiche di letteratura e d’arte, qualche poesia; lasciò abbozzata una storia apocrifa di Colombo. Si laureò con una tesi su Verga. Ebbe un duello. Con amici attraversò su un cutter l’Adriatico in tempesta, e tornarono nello stesso modo. Era bello, vibrante di gioventù, piaceva. Piacque anche a diverse donne. Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni: diviso, ma non disperso, tra il bisogno della cultura e l’imperativo dell’azione, e quella fatalità di essere grande o nulla, grande per gli altri e non per sé, essere con tutte le sue forze e per tutte le fibre, con tutta la natura e con tutta l’umanità, e di tutto quel ch’è natura, e di tutto quel ch’è umano partecipare».
In queste righe si avverte l’incondizionata ammirazione che Ricci nutriva per l’amico. L’affinità elettiva tra i due nacque verso la fine del 1928, attraverso comuni collaborazioni giornalistiche, per poi svilupparsi sempre più intensa in forma epistolare, tanto che Garrone, ancora prima di incontrarlo, scrisse: «Io che per Berto Ricci domani sono disposto a fare le coltellate non l’ho mai visto […] Non ti sembra mirabile che a distanza di centinaia di chilometri ci sian dei giovani che senza essersi mai visti, combinino insieme come i sette della primiera? Che si venga formando una mentalità comune rocciosa e decisa, insomma la nuova generazione letteraria?».
Buchignani descrive mirabilmente il comune ambiente sociale e i condivisi riferimenti culturali: «entrambi di origini piccolo-borghesi, sono figli di La Voce e di Lacerba e anche de Il Selvaggio, considerano Papini e Soffici i loro maestri, anche se solo i Papini e i Soffici della fase eversiva, precedente al loro ritorno all’ordine; hanno letto con entusiasmo Mazzini e Carducci, Oriani e D’Annunzio».
Apprezzavano questi autori perché, come loro, avevano vissuto i travagli e le inquietudini di un’epoca di cambiamenti e di crisi, ma se ne staccarono presto per intraprendere un nuovo progetto di rinnovamento della società italiana.
«C’è un’atmosfera unica», scrive Garrone a Ricci, «che imbeve il nuovo campo letterario italiano e di cui i giovani vivi respirano. Per me mai come oggi c’è la via chiara. Dopo l’esperienza dannunziana, che più o meno tutti abbiam fatta, e il bombardamento futurista, si rinasce al mondo con occhi chiari e i freschi colori del mattino».
Buchignani individua nel senese Federigo Tozzi il «caposaldo nella proposta politico culturale» dei due giovani intellettuali. Lo scrittore senese è «inquieto, agitato, amaro raffinatissimo», è un ribelle che non manca di esprimere «la sua anarchica ribellione nei confronti della società borghese e dei suoi idoli gretti». Tozzi «incarna in modo efficace l’essenza della toscanità e quindi dell’italianità» perché, come spiega lo stesso Ricci su Il Bargello: «ridimostrò coi fatti […] una verità secolare, e cioè che noi d’Italia si può essere sottili, dolorosamente ironici ed anche in una certa grandiosa maniera malati e malvagi, restando noi; con le nostre campagne e le nostre città murate, noi col nostro tono paesano, senza pigliare a prestito abito e trucchi teatrali di fuori». E’ anche il cattolicesimo «reazionario e apocalittico» di Tozzi ad affascinare Garrone, che pure si sentiva «condannato a vivere in un eterno precristianesimo, senza arrivare a sentirsi felice nel Cristo». Sono i veristi ad entusiasmarli ed il siciliano Giovanni Verga in particolare. Garrone gli dedicò la tesi di laurea (stampata per interessamento dello stesso Ricci nel 1941).
Se pure rimasero intatti fino alla fine i sentimenti di amicizia e lealtà tra i due, la solida passione civile e la comune speranza di vedere un giorno l’affermazione del «fascismo autentico», i progetti finirono per dividersi, specialmente quelli letterari.
Garrone era certamente un estimatore del Ricci poeta, ma rimproverava all’amico, come testimoniato anche dalle lettere a lui indirizzate (Garrone, Lettere, a cura di Berto Ricci e Romano Bilenchi, Vallecchi 1938), di aver «sacrificato la poesia al giornalismo e alla polemica politica». «Tralascia la polemica e fa quello che devi fare: il poeta. Il tuo libretto, Poesie [dedicato allo stesso Garrone, nda], è la più bella polemica in atto che hai scritto». «La politica non è congeniale ad un’artista, ma ad un politico», ricordava sempre più spesso all’amico.
Quando Ricci intraprese l’iniziativa de L’Universale aderirono giovani intellettuali e artisti come Indro Montanelli, Diano Brocchi, Roberto Pavese, Antonio Aniante, Camillo Pellizzi, Edgardo Sulis, Luigi Bartolini, Gioacchino Contri, Icilio Petrone, Carlo Cordiè e Romano Bilenchi. Garrone no, non lo seguì, non sentendo la necessità di partecipare a quello che riteneva un ennesimo «inutile organo politico». Dopo pochi mesi dalla nascita del foglio Garrone si trasferì a Parigi, dove progettò una rivista «unicamente artistica e culturale», tutta in francese, Socrate, alla quale avrebbero collaborato, nelle intenzioni dell’ideatore, intellettuali e artisti. L’iniziativa non si realizzò mai per l’improvvisa morte di Garrone.
L’ingenua speranza di vedere sconfitto il «fascismo regime» si era già attenuata nel 1930, insieme con l’aumentare della sfiducia nell’azione rinnovatrice della politica.
Pur continuando a disprezzare «l’Italia impestata dalle mode» dove «ogni villanzone può gabellarsi per artista», Garrone decise di dedicarsi solo all’arte.
In una delle ultime lettere parigine, scritta nell’estate del 1931, si rivolge amaramente all’amico Ricci: «Cos’è successo con le nostre polemiche? La realtà non s’è spostata di un pelo, la stupidaggine, la balorderia imperversa, nelle esposizioni, nei libri ufficiali, sui giornali, sui muri, dappertutto. E’ inutile appellarsi alla gerarchia superiore, e confondere un proprio ordine spirituale, una propria ideale realtà, con la realtà vera, quotidiana, visibile, operante di tutti i giorni. La politica è sempre ciò che produce nella realtà, nelle organizzazioni, nelle cose pratiche. Dire che questa politica è falsa, e appellare poi con lo stesso nome ciò che si vorrebbe accadesse, si cade in un equivoco. Non riconoscere questo equivoco vuol dire mancare in un certo senso di logica, di forza. Noi siamo per un Fascismo poesia che è, in ultima analisi, la poesia stessa – cioè mondo agile, di cervello vivo, selezionato, greco – e che ha poco a vedere, anzi nulla, con ciò che si verifica».
Si può dire, senza fare ironia, che Garrone trascorse la sua breve vita in attesa di un cenno di Mussolini. Ripeteva agli amici: «Quando Mussolini avrà bisogno di noi, noi i disgraziati, noi che abbiamo tirato la vita con i denti, noi che l’Italia l’amiamo con la passione dell’anima, allora il duce vedrà chi sono gli artisti italiani. Si sa, adesso, si passa quasi per antifascisti! Noi che sprechiamo la vita per dare all’Italia l’arte fascista!».
Invece, dal fascismo ufficiale ricevette solo delusioni e amarezze, come quando il regime si oppose alla pubblicazione del libro Dentro la Guerra di Ottone Rosai, punto di riferimento importante nella formazione culturale e umana di Garrone (l’opera uscirà solo nel 1934).
La morte improvvisa e drammaticamente precoce di Dino lasciò un vuoto incolmabile e ne fece un vero mito per un’intera generazione di fascisti scomodi. «Bolscevici in camicia nera», vennero definiti dai loro stessi “camerati”. Ricci, nei pochi anni che rimanevano a quella «grande epopea mancata del fascismo», (come la chiamò Indrò Montanelli), manifestò in più occasioni a Garrone la piena fedeltà culturale e morale, fino a farne, come scrisse nel primo anniversario della scomparsa su L’Universale: «l’esempio nostro, il terreno archetipo della gioventù». Una gioventù che si disperse tragicamente, e in buona parte cadde sotto il fuoco nemico, nel sangue.
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