Dal mensile Area, ottobre 2001
Sono passati poco più di tre anni dalla morte di Anna Maria Ortese, avvenuta il 10 marzo del 1998, oggi finalmente riconosciuta come una delle più grandi scrittrici del Novecento.
Spirito anticonformista per eccellenza, donna riservata e sincera, indisponibile ad ogni compromesso, aliena ad ogni frequentazione opportunistica nel mondo autoreferenziale dei salotti, incurante del disprezzo e dell’ostilità con cui la quasi totalità del mondo culturale progressista l’ha sistematicamente osteggiata, ha scritto alcune delle pagine più emozionanti degli ultimi decenni.
Le sue sono storie realistiche e surreali al tempo stesso, dense di sogni, poesia, fiaba, amore e dolore, messaggeri celesti, umanità dolente, creature incomprese, escluse e respinte, pianto e desiderio di trascendenza.
Senza cedere nulla alle mode letterarie del secondo dopoguerra e alla logica che voleva gli scrittori in servizio permanente effettivo del dogma marxista, decise di non rinunciare mai alla sua idea di letteratura alta e fantastica.
«La verità è che io do cose che non sono richieste», si scherniva. Animata dalla convinzione metaletteraria che «si vive circondati dall’invisibile», ha lasciato un pulsante patrimonio di opere straordinarie, piene della sua scrittura visionaria. I suoi libri continuano incessantemente a tornare in libreria, per la gioia di un sempre crescente numero di lettori.
L’ultima pubblicazione è Il Monaciello di Napoli (Adelphi 2001), raccolta composta da due racconti già apparsi nei primi anni Quaranta sul mensile Ateneo Veneto e su Nove Maggio, quindicinale del GUF di Napoli. E’ la stessa Ortese a descriverli come «tentativi, dapprima felici, poi via via nevrotici e travagliati, di rendere il primo impatto con il mondo (estasi, meraviglia) e poi lo sconforto vedendo questo mondo sempre più mutarsi in un deserto, dove nessuna cosa sembrava avere senso, destinazione: un mondo di mostri e fantasmi».
La sua scrittura si nutre in un mondo trascendentale, animato dalla presenza delle anime, dei ricordi, di piccole nostalgie, di affetti smarriti, di quanto di più caro c’è nella nostra vita. «Credo in tutto ciò che non vedo […] Ma forse le cose amate sono soltanto invisibili: non perse. Questa sensazione, che tutto l’infinito, passato di tutti, si accumuli in qualche luogo e […] lo ripossederemo un giorno realmente, concretamente, credo sia comune a tutti. Conforta e non è affatto vergognoso per l’intelligenza».
La sua vita non è certo stata facile. Nasce a Roma il 14 giugno 1914, penultima di sei fratelli in una famiglia «miserrima […] di nessun rilievo sociale», sempre «sopraffatta dal problema del pane quotidiano, della sopravvivenza, sola, senza lavoro, abbarbicata al niente». E’ costretta ad abbandonare presto gli studi, trovando in una particolare predisposizione alla scrittura il proprio riscatto spirituale.
Le sue prime poesie sono del 1933 e vengono pubblicate su La fiera letteraria di Roma. L’anno successivo, sempre su La fiera è la volta del primo racconto, Pellerossa, nel quale già si evince quella che sarà una delle sue preoccupazioni costanti: il timore dei danni che la civilizzazione dilagante – il cosiddetto progresso – produce sullo spazio «naturale» e l’originaria «innocenza» degli uomini. E’ proprio il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della raccolta Angelici dolori (1937) che include tredici novelle.
La stroncatura che ne fanno i critici militanti è violenta e spropositata, tanto più se si considera che si tratta di una esordiente, il cui talento appare subito evidente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima», ma quello che si vuole colpire, come ben ricostruisce Monica Farnetti nel suo Anna Maria Ortese (Bruno Mondatori 1998) è l’impianto culturale cui la Ortese sembra ispirarsi; il crepuscolarismo, il D’Annunzio «paradisiaco», un «anglismo» ultradecadente e la «tradizione mistica», il «realismo magico» e «l’allegorismo vittorughiano».
A motivare tale critica faziosa, che mette all’indice il suo «deteriore romanticismo» in un’epoca nella quale era d’obbligo per gli intellettuali attenersi ad un rigoroso materialismo, è un vero e proprio «odio e disprezzo ideologico», come riconosce Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia 1998).
La sua è una vita randagia, solitaria, nella quale non c’è spazio per una vita coniugale: «il matrimonio non lo concepivo proprio […] perché comporta una quantità di tagli alla propria vita, al proprio tempo, alla propria immaginazione». E’ costretta continuamente a spostarsi, vive in diverse città, è una «senza patria». La patria, infatti, è per lei quella degli affetti smarriti: «mia sorella è stata la mia patria: non ne ho avuto un’altra, di patria, io». Si mantiene arrangiando mestieri occasionali, estemporanei, come quello di correttrice di bozze al Gazzettino di Venezia, senza mai mettere radici in nessun luogo.
La città che ama di più è Napoli, e alla città partenopea è dedicata una delle sue opere più importanti Il mare non bagna Napoli (1953), la raccolta dei racconti che la impone all’attenzione del pubblico e le vale il Premio Viareggio. In un capitolo del libro, Il silenzio della ragione, prende le distanze dagli intellettuali progressisti partenopei, rei di aver perso ogni «sacro furore» e di essersi omologati ad una società «conformista e utilitaristica e profondamente cambiati dall’ansia del successo».
L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo» e le costa una repentina emarginazione. Decide di andarsene e di non tornare più a Napoli, neanche quando, poco prima della morte, il Comune le assegna un appartamento nei Quartieri Spagnoli.
Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: i vecchi, i poveri, i bambini, i più deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI.
Ne ha la certezza quando, con amarezza, deve raccogliere le feroci critiche della sinistra ai resoconti giornalistici che scrive di ritorno da un viaggio in Russia. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. Il mondo della sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi […] Io scrivevo in modo non ortodosso. Da lì è nato il dissidio».
Continua a scrivere, pur tra mille difficoltà economiche, ed ottiene dei premi autorevoli. Nel 1967 con Poveri e belli vince il Premio Strega e nel 1986, con Il mormorio di Parigi, il Premio Fiuggi per la cultura. Finalmente nel 1986 le viene assegnato, grazie alla Legge n. 440 del 1985 (la cosiddetta Legge Baccelli, che prevede un fondo destinato a quei cittadini che abbiano dato lustro alla patria e che versino in stato di particolare necessità) un modesto vitalizio, che le consente di mettere fine ad una vita da nomade della letteratura e di dedicarsi alla scrittura nell’abitazione di Rapallo.
Il 1986 è l’anno fortunato per la Ortese. Adelphi, la casa editrice diretta da Roberto Calasso, decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne delle nuove.
L’incontro riempie di entusiasmo la scrittrice: «Sì, ho incontrato l’Adelphi: hanno creduto nei miei libri, li hanno pubblicati con riguardo, è stato un miracolo». Lo stesso anno viene pubblicata la ristampa de L’iguana, l’anno successivo In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato (1993), Alonso e i visionari (1996), Corpo celeste (1997) e Il porto di Toledo, mentre poco dopo sopraggiunge la morte della scrittrice.
E’ in particolare Il cardillo addolorato a farle raggiungere la meritata e sofferta affermazione definitivia, con uno strepitoso risultato delle vendite, ottantamila nel solo 1993, che diventano oltre centomila dopo pochi anni.
E’ un trionfo anche all’estero. In Francia è L’iguana, pubblicato da Gallimard, a far innamorare i francesi. Lei, sempre schiva, accetta di farsi intervistare da Le Monde, ma quando l’intervistatrice arriva nella sua piccola casa di Rapallo lei esordisce dicendole: «Non ho più niente da dire».
Solo negli ultimi anni è il suo indomito anticonformismo a prevalere sul suo carattere schivo. La indigna il caso di Erich Priebke, l’ex ufficiale delle S.S. coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in quel periodo in attesa di giudizio in carcere. Nella vicenda legge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’inerzia e all’umiliazione.
Prende carta e penna e scrive a Il Giornale. Il 12 gennaio 1997 la Ortese firma sul quotidiano milanese una richiesta di pietà per il «lupo sconfitto». Sottolinea la «dignità con cui accetta […] tutto il rituale solenne della giustizia insieme con i ricordi di quello che ormai era il suo Paese, e della moglie lontana». Si domanda: «Come dunque ci si aspettava che morisse, per il nemico?».
Ne nasce un’odiosa polemica, nella quale si sbizzarriscono i professorini della sinistra. Tabucchi ritiene «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della Ortese, altri se la prendono con «l’intenerita coetanea del nazista».
Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Quest’Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli […] e quell’uomo è vecchio e solo […] e abbiamo torto ad identificare questa idea […] con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile».
Quel nazismo è oggi rappresentato dalla dittatura del conformismo, di chi non accetta che altri possano avere opinioni diverse dalle proprie e che, invece di argomentare, preferisce l'insulto.
Spirito anticonformista per eccellenza, donna riservata e sincera, indisponibile ad ogni compromesso, aliena ad ogni frequentazione opportunistica nel mondo autoreferenziale dei salotti, incurante del disprezzo e dell’ostilità con cui la quasi totalità del mondo culturale progressista l’ha sistematicamente osteggiata, ha scritto alcune delle pagine più emozionanti degli ultimi decenni.
Le sue sono storie realistiche e surreali al tempo stesso, dense di sogni, poesia, fiaba, amore e dolore, messaggeri celesti, umanità dolente, creature incomprese, escluse e respinte, pianto e desiderio di trascendenza.
Senza cedere nulla alle mode letterarie del secondo dopoguerra e alla logica che voleva gli scrittori in servizio permanente effettivo del dogma marxista, decise di non rinunciare mai alla sua idea di letteratura alta e fantastica.
«La verità è che io do cose che non sono richieste», si scherniva. Animata dalla convinzione metaletteraria che «si vive circondati dall’invisibile», ha lasciato un pulsante patrimonio di opere straordinarie, piene della sua scrittura visionaria. I suoi libri continuano incessantemente a tornare in libreria, per la gioia di un sempre crescente numero di lettori.
L’ultima pubblicazione è Il Monaciello di Napoli (Adelphi 2001), raccolta composta da due racconti già apparsi nei primi anni Quaranta sul mensile Ateneo Veneto e su Nove Maggio, quindicinale del GUF di Napoli. E’ la stessa Ortese a descriverli come «tentativi, dapprima felici, poi via via nevrotici e travagliati, di rendere il primo impatto con il mondo (estasi, meraviglia) e poi lo sconforto vedendo questo mondo sempre più mutarsi in un deserto, dove nessuna cosa sembrava avere senso, destinazione: un mondo di mostri e fantasmi».
La sua scrittura si nutre in un mondo trascendentale, animato dalla presenza delle anime, dei ricordi, di piccole nostalgie, di affetti smarriti, di quanto di più caro c’è nella nostra vita. «Credo in tutto ciò che non vedo […] Ma forse le cose amate sono soltanto invisibili: non perse. Questa sensazione, che tutto l’infinito, passato di tutti, si accumuli in qualche luogo e […] lo ripossederemo un giorno realmente, concretamente, credo sia comune a tutti. Conforta e non è affatto vergognoso per l’intelligenza».
La sua vita non è certo stata facile. Nasce a Roma il 14 giugno 1914, penultima di sei fratelli in una famiglia «miserrima […] di nessun rilievo sociale», sempre «sopraffatta dal problema del pane quotidiano, della sopravvivenza, sola, senza lavoro, abbarbicata al niente». E’ costretta ad abbandonare presto gli studi, trovando in una particolare predisposizione alla scrittura il proprio riscatto spirituale.
Le sue prime poesie sono del 1933 e vengono pubblicate su La fiera letteraria di Roma. L’anno successivo, sempre su La fiera è la volta del primo racconto, Pellerossa, nel quale già si evince quella che sarà una delle sue preoccupazioni costanti: il timore dei danni che la civilizzazione dilagante – il cosiddetto progresso – produce sullo spazio «naturale» e l’originaria «innocenza» degli uomini. E’ proprio il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della raccolta Angelici dolori (1937) che include tredici novelle.
La stroncatura che ne fanno i critici militanti è violenta e spropositata, tanto più se si considera che si tratta di una esordiente, il cui talento appare subito evidente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima», ma quello che si vuole colpire, come ben ricostruisce Monica Farnetti nel suo Anna Maria Ortese (Bruno Mondatori 1998) è l’impianto culturale cui la Ortese sembra ispirarsi; il crepuscolarismo, il D’Annunzio «paradisiaco», un «anglismo» ultradecadente e la «tradizione mistica», il «realismo magico» e «l’allegorismo vittorughiano».
A motivare tale critica faziosa, che mette all’indice il suo «deteriore romanticismo» in un’epoca nella quale era d’obbligo per gli intellettuali attenersi ad un rigoroso materialismo, è un vero e proprio «odio e disprezzo ideologico», come riconosce Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia 1998).
La sua è una vita randagia, solitaria, nella quale non c’è spazio per una vita coniugale: «il matrimonio non lo concepivo proprio […] perché comporta una quantità di tagli alla propria vita, al proprio tempo, alla propria immaginazione». E’ costretta continuamente a spostarsi, vive in diverse città, è una «senza patria». La patria, infatti, è per lei quella degli affetti smarriti: «mia sorella è stata la mia patria: non ne ho avuto un’altra, di patria, io». Si mantiene arrangiando mestieri occasionali, estemporanei, come quello di correttrice di bozze al Gazzettino di Venezia, senza mai mettere radici in nessun luogo.
La città che ama di più è Napoli, e alla città partenopea è dedicata una delle sue opere più importanti Il mare non bagna Napoli (1953), la raccolta dei racconti che la impone all’attenzione del pubblico e le vale il Premio Viareggio. In un capitolo del libro, Il silenzio della ragione, prende le distanze dagli intellettuali progressisti partenopei, rei di aver perso ogni «sacro furore» e di essersi omologati ad una società «conformista e utilitaristica e profondamente cambiati dall’ansia del successo».
L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo» e le costa una repentina emarginazione. Decide di andarsene e di non tornare più a Napoli, neanche quando, poco prima della morte, il Comune le assegna un appartamento nei Quartieri Spagnoli.
Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: i vecchi, i poveri, i bambini, i più deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI.
Ne ha la certezza quando, con amarezza, deve raccogliere le feroci critiche della sinistra ai resoconti giornalistici che scrive di ritorno da un viaggio in Russia. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. Il mondo della sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi […] Io scrivevo in modo non ortodosso. Da lì è nato il dissidio».
Continua a scrivere, pur tra mille difficoltà economiche, ed ottiene dei premi autorevoli. Nel 1967 con Poveri e belli vince il Premio Strega e nel 1986, con Il mormorio di Parigi, il Premio Fiuggi per la cultura. Finalmente nel 1986 le viene assegnato, grazie alla Legge n. 440 del 1985 (la cosiddetta Legge Baccelli, che prevede un fondo destinato a quei cittadini che abbiano dato lustro alla patria e che versino in stato di particolare necessità) un modesto vitalizio, che le consente di mettere fine ad una vita da nomade della letteratura e di dedicarsi alla scrittura nell’abitazione di Rapallo.
Il 1986 è l’anno fortunato per la Ortese. Adelphi, la casa editrice diretta da Roberto Calasso, decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne delle nuove.
L’incontro riempie di entusiasmo la scrittrice: «Sì, ho incontrato l’Adelphi: hanno creduto nei miei libri, li hanno pubblicati con riguardo, è stato un miracolo». Lo stesso anno viene pubblicata la ristampa de L’iguana, l’anno successivo In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato (1993), Alonso e i visionari (1996), Corpo celeste (1997) e Il porto di Toledo, mentre poco dopo sopraggiunge la morte della scrittrice.
E’ in particolare Il cardillo addolorato a farle raggiungere la meritata e sofferta affermazione definitivia, con uno strepitoso risultato delle vendite, ottantamila nel solo 1993, che diventano oltre centomila dopo pochi anni.
E’ un trionfo anche all’estero. In Francia è L’iguana, pubblicato da Gallimard, a far innamorare i francesi. Lei, sempre schiva, accetta di farsi intervistare da Le Monde, ma quando l’intervistatrice arriva nella sua piccola casa di Rapallo lei esordisce dicendole: «Non ho più niente da dire».
Solo negli ultimi anni è il suo indomito anticonformismo a prevalere sul suo carattere schivo. La indigna il caso di Erich Priebke, l’ex ufficiale delle S.S. coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in quel periodo in attesa di giudizio in carcere. Nella vicenda legge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’inerzia e all’umiliazione.
Prende carta e penna e scrive a Il Giornale. Il 12 gennaio 1997 la Ortese firma sul quotidiano milanese una richiesta di pietà per il «lupo sconfitto». Sottolinea la «dignità con cui accetta […] tutto il rituale solenne della giustizia insieme con i ricordi di quello che ormai era il suo Paese, e della moglie lontana». Si domanda: «Come dunque ci si aspettava che morisse, per il nemico?».
Ne nasce un’odiosa polemica, nella quale si sbizzarriscono i professorini della sinistra. Tabucchi ritiene «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della Ortese, altri se la prendono con «l’intenerita coetanea del nazista».
Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Quest’Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli […] e quell’uomo è vecchio e solo […] e abbiamo torto ad identificare questa idea […] con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile».
Quel nazismo è oggi rappresentato dalla dittatura del conformismo, di chi non accetta che altri possano avere opinioni diverse dalle proprie e che, invece di argomentare, preferisce l'insulto.
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