sabato 9 dicembre 2006

Wodehouse collaborazionista? Sicuramente sì, anzi no

Dal mensile Area, settembre 2001

Pelhalm Grenville Wodehouse «non si vendette ai nazisti». E’ arrivata, a dire il vero in sordina, l’assoluzione per il geniale scrittore inglese che, con irrefrenabile umorismo, ha fatto sorridere bambini e adulti di tutto il mondo, tanto da essere ancora oggi, a più di venticinque anni dalla sua morte, uno dei beniamini del pubblico.
Così il Times, dopo aver certificato due anni fa, con tanto di memorie del servizio segreto britannico esibite come prova, la fondatezza dell’accusa di collaborazionista del nazismo che venne rivolta allo scrittore alla fine della seconda guerra mondiale, ha recentemente avviato, alla luce di nuovi documenti, la “riabilitazione” del creatore dei tanti personaggi indimenticabili, singolari ed eccentrici che hanno animato le più esilaranti saghe della letteratura del Novecento.
L’imperturbabile e colto maggiordomo Jeevs e il suo “padrone” Bertie Wooster, professione dandy edoardiano, giovane aristocratico sprovveduto e pasticcione, Psmith, lo sfaccendato dal linguaggio forbito fino all’esasperazione, lo zio Fred, non a caso chiamato zio Dinamite per l’intraprendenza, bizzarri protagonisti che, insieme a parentele e numerose comparse, vengono rappresentati in luoghi affascinanti e surreali come il Castello di Blandings, nel quale lo svanito Lord Emsworth vive con la maestosa scrofa da concorso di cui è innamorato, definita amorevolmente l’imperatrice del maniero.
Una ricca galleria di varia umanità, magistralmente assortita, composta da eccentrici e altezzosi nobili inglesi, arrampicatori sociali, inossidabili viveurs, produttori, dive, vecchi che non vogliono saperne di invecchiare e giovani che si sentono ancora bambini, balordi che nel tentativo di uscire da qualche pasticcio finiscono sempre per cacciarsi in altri e ben peggiori guai. I dialoghi sono brillanti, vivaci, incalzanti e mordaci, ricchi di sfumature e di un sublime senso dell’humor, tenuti insieme come in un incantesimo dalla scrittura affabulatoria, magica e sapiente di un grande burattinaio della letteratura.
Wodehouse, inglese doc, non lesinò, sull’esempio di Oscar Wilde, salaci critiche al mondo di cui tanto abilmente descrisse tic e incongruenze, facendo ricorso all’umorismo, parente aristocratico della comicità popolare.
Del resto non poteva non affrontare la vita con ironia chi, come lui, nacque con la testa a forma di prugna, tanto da venir soprannominato Plum, nomignolo che lo accompagnò per tutta la vita.
Venne al mondo, pertanto, con quella particolarità, a Guildford, nel Surrey, in Gran Bretagna, il 15 ottobre del 1881. Studiò al Dulwich College e cominciò giovanissimo a lavorare in banca, ma era la scrittura il suo vero talento e la sua incontenibile passione.
Nel 1902 iniziò a collaborare con la rubrica umoristica del londinese Globe e nel 1909 diede alla stampa il suo primo romanzo, Amore tra polli, un vero capolavoro, che riscosse un successo immediato quanto ininterrotto, visto che continua ancora oggi.
Fu un autore prolifico, con quasi cento libri all’attivo, tra romanzi e raccolte di racconti, che non mancò di rivolgere il proprio estro anche fuori dai confini della letteratura, sviluppando una parallela e altrettanto lusinghiera carriera di scrittore per il teatro e per il cinema.
Visse a lungo negli Stati Uniti, tra New York e Hollywood, dove ebbe modo di conoscere e collaborare con personaggi come Guy Bolton, Jerom Kern, Cole Porter, Irving Berlin e George Gershwin. Produsse circa trenta commedie e musical e scrisse una ventina di sceneggiature per film. Visse anche a Berlino, a Parigi e in altre località della Francia.
E fu proprio in una villa a Le Touquet, sulla costa francese della Manica, che nel 1940 i tedeschi l’arrestarono perché cittadino di una potenza straniera e come tale venne chiuso in un campo di concentramento. Vi rimase per un anno, venne poi scarcerato e restituito alla libertà.
Lo scrittore si giustificò raccontando, tempo dopo, che i tedeschi «ebbero pena» dei suoi sessant’anni. Ma i guai di Plum iniziarono nel 1941, quando dai microfoni berlinesi del Reich animò cinque trasmissioni radiofoniche destinate al pubblico americano, nelle quali con la solita accattivante vis comica, in modo lieve e persino divertito, trasformò l’esperienza dell’internamento in una sorta di piacevole avventura.
L’indignazione dei suoi connazionali lo travolse e la stampa inglese lo ribattezzò sprezzantemente «Herr Wodehouse».
A guerra finita venne accusato di collaborazionismo e minacciato di arresto, se solo fosse tornato in Patria, dal capo delle procure britanniche, sir Theobald Matthew. Lo scrittore preferì «stare alla larga» e seppur in difficoltà economiche, causate dal blocco dei suoi averi operato dalla Banca d’Inghilterra e dall’impossibilità di riscuotere i diritti d’autore, non perse il suo irrinunciabile spirito. Per uno come lui, convinto che «tutto quello che c’è di divertente nella vita o è immorale, o illegale o fa ingrassare», anche una vicenda grave come quella in cui si trovava andava sdrammatizzata. Da Parigi scrisse infatti al suo inquisitore, il colonnello Edward Cussen, chiedendo sornione: «Devo morire di fame? O devo forse comprarmi una pistola per rapinare la gente per strada qui a Parigi? Temo però di non conoscere abbastanza bene il francese per intimare l’altolà […] Per quanto tempo? All’infinito? Per sempre? ».
Decise, con la sofferenza dell’esiliato, di non tornare più in patria e di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti, dove nel 1955 divenne cittadino americano. Nel 1971 il primo ministro inglese Edward Heath respinse la proposta di farlo sir e fu nominato baronetto a Long Island solo nel 1975, un mese prima che morisse, il 14 febbraio, all’età di novantaquattro anni, con un atto di riconciliazione che sembrava dover essere definitivo.
La vicenda, invece, è tornata d’attualità nell’estate del 1999 quando il Times e il Guardian hanno pubblicato alcuni documenti dei servizi segreti britannici che sembravano dimostrare come lo scrittore fosse stato più che organico al nazismo e la sua collaborazione tutt’altro che estemporanea e occasionale, ma persino retribuita. A sostegno di questa tesi si affermava che Wodehouse sarebbe stato ospite del Reich in lussuosi alberghi parigini, ricevendo dall’Ambasciata tedesca a Parigi, dove abitava con la moglie Edith, un salario mensile paragonabile ad attuali dieci milioni di lire, senza contare il relativo argent de poche per le spese di viaggio e voluttuarie e gli «affettuosi» regali di cui periodicamente sarebbe stato omaggiato da stretti collaboratori di Hitler.
Considerata la fama dello scrittore, la notizia fece il giro del mondo in poche ore, sino a far strillare d’indignazione i giornali italiani, con in testa la progressista La Repubblica, che si superò nel linciaggio per l’astiosità dimostrata. In un articolo, il cui titolo All’ombra del cricket e della svastica è tutto un programma, lo scrittore viene definito «senza possibile equivoco» un intellettuale al «soldo del nazismo».
Ed eccolo diventare «fatuo, mondano, divagante», aggettivi che sembrano essere stati coniati apposta per essere riferiti agli scrittori collaborazionisti. L’autore del pezzo, Nello Ajello, si spinse oltre e se la prese con il «vero personaggio» wodehousiano: «Bertie Wooster […] una sorta di Don Chisciotte indolente, al quale sembrava far capo non soltanto l’inventiva di Wodehouse, ma anche la sua ideologia». Ecco sciolto l’inghippo di «certe sue insensatezze politiche». Per l’articolista l’opera, e non solo l’autore, era da ritenersi pura e semplice propaganda fascista. Ajello non mancò di fare autocritica e riprendendo il celebre giudizio di Orwell, che aveva definito il collega «un political innocent», ovvero un imbranato politico, concluse affermando perentorio: «Forse, più imbranati fummo noi nel farne un idolo», evidentemente ritenendo, considerando l’uso del “noi”, di poter parlare a nome della sua generazione.
Come da consolidata prassi in casi simili la riabilitazione annunciata recentemente dal Times non ha avuto in Italia la stessa eco che ebbero invece le «notizie inequivocabili» di quei giorni di fine estate del 1999. Più di qualche intellettuale oggi tace, forse per imbarazzo.
Eppure la bravura dello scrittore ha retto ad ogni malevolenza e le sue opere vengono lette da un pubblico crescente di lettori in tutto il mondo. In Italia solo nei primi mesi del 2001 sono arrivati in libreria ben tre titoli, altrettanti classici dell’universo wodehousiano: Il codice dei Wooster (Mursia), I gatti non sono cani (Guanda) e I porci hanno le ali (Tea).
Ed è ancora una volta, quella del pubblico entusiasta, la migliore risposta ai denigratori dello scrittore inglese. Questa è l’unica cosa che conta davvero.

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