Dal mensile Area, luglio-agosto 2001
E’ con un efficace ed incalzante uno-due che la Bompiani ha ripubblicato, nell’arco di pochi mesi, l’intera opera omnia di Pier Vittorio Tondelli, mentre si avvicina la ricorrenza del decimo anno dalla sua morte, causata dall’AIDS il 16 dicembre 1991, all’età di trentasei anni.
Curatore dei due volumi, che ne raccolgono l’intensa produzione letteraria, è Fulvio Panzeri, giornalista cattolico, amico ed esecutore testamentario dello scrittore emiliano. Nel primo tomo (giugno 2000) sono raccolti “romanzi, teatro, racconti” (Altri libertini, Il diario del soldato Acci, Pao Pao, Dinner party, Rimini, Racconti, Biglietti agli amici, Camere separate). Nel secondo (aprile 2001) “cronache, saggi, conversazioni” (Un weekend postmoderno, Quarantacinque giri per dieci anni, Under 25, Il mestiere dello scrittore, Conversazioni).
Materiale preziosissimo, specialmente quello contenuto nell’ultimo lavoro, che ha il pregio di restituire la parola allo stesso Tondelli, sottraendolo alla noiosa e ricorrente contesa tra bande culturali per l’appropriazione ideologica del patrimonio culturale lasciato dallo scrittore.
Dopo la sua morte, infatti, non è mancato chi ha cercato di incasellarlo nel proprio schieramento ideologico, di appropriarsene, di farne un simbolo, una bandiera, un militante postumo.
Da una parte i clan di sinistra, sempre pronti al reclutamento coatto degli intellettuali, dall’altra un articolato fronte cattolico composto da Avvenire e dai gesuiti di Civiltà Cattolica, guidato da padre Antonio Spadaro (che ha dedicato un saggio alla religiosità dello scrittore, Tondelli. Attraversare l’intesa. Edizioni Diabasis 1999), che è stato certamente molto attivo nel promuovere studi e articoli sullo scrittore. Le due letture sono entrambe tendenziose e pongono i loro accenti su aspetti diversi e contrastanti del percorso umano e culturale, prima che letterario, di Tondelli.
Pier Vittorio nasce a Correggio (Reggio Emilia) il 14 settembre 1955, in un ambiente provinciale, che lui stesso definisce di «gente ordinaria, gente comune, lontana dalla cronaca e dal pettegolezzo». Partecipa alla vita delle comunità giovanili dell’associazionismo cattolico e scrive i suoi primi testi per giornalini ciclostilati editi nell’ambito dell’oratorio.
Eppure la sua prima opera, Altri libertini (Feltrinelli 1980), suscita scandalo. Viene sequestrata dall’autorità giudiziaria e considerata «opera luridamente blasfema» che «stimola violentemente i lettori alla depravazione e al disprezzo della religione» (Tondelli viene successivamente assolto e il libro torna in circolazione). E’ il linguaggio ad essere messo sotto accusa, ma anche la tematica autobiografica dell’omosessualità, molto presente anche nella successiva produzione letteraria.
E’ certamente vero che Tondelli si riavvicina alla religione negli ultimi anni, specialmente quando inizia il calvario della malattia, ma sostenere, come fa Padre Spadaro, che «lo spirito libertino delle prime prove è radicalmente messo in discussione su quella via di Damasco che è costituita dalle ultime opere», è quantomeno ingeneroso per la complessità, la sincerità e soprattutto per la coerenza del pensiero dello scrittore correggiano.
E’ allo stesso modo strumentale citare gli ultimi episodi della sua vita, quando la battaglia con la malattia è ormai persa. L’ultimo libro che legge in ospedale è la Prima lettera ai Corinti e vi annota con grafia tremante: «la letteratura non salva mai. L’unica cosa che salva è l’Amore, la fede e la ricaduta nella grazia». Basta questo per parlare di conversione? Non lo sappiamo e non è così importante, per chi apprezza l’intera sua opera, la letteratura «emotiva», come egli stesso la definisce. «Le mie storie sono emotive […] Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è la letteratura. La letteratura emotiva è una letteratura di potenza».
Il suo maestro è Louis Ferdinand Céline: «Grande genio, la sua è vera letteratura di potenza […] un altro sfigato che oggi tutti leggono, e che chiacchierano, però io non lo so se lo prendono bene». Altri libertini, per l’autore, «si basa soprattutto sulla lettura di Céline».
La politica partitica non gli interessa. Si definisce «infantilmente apolitico, con la perversione del bambino amorale che non conosce».
Certo non è di sinistra. Parlando in terza persona della sua gioventù racconta egli stesso: «Il ragazzo non avrebbe fatto parte di nessuna organizzazione politica dell’estrema sinistra, non avrebbe occupato scuole, avrebbe contestato il nozionismo degli insegnanti in modo individuale […] Si sarebbe sentito in contatto con i suoi coetanei, li avrebbe cercati iscrivendosi all’Università di Bologna, li avrebbe trovati solo per rendersi conto che la propria vita si sarebbe giocata in solitudine e avrebbe potuto unirsi agli altri unicamente attraverso la scrittura».
La scelta di non schierarsi gli costa la freddezza dei potentati culturali, ma non se ne fa un problema. «I salotti non mi hanno mai interessato». Non riconosce la società letteraria come tale: «L’ambiente letterario italiano mi sembra diviso a metà tra un giornalismo fatto un po’ di ripiego e un accademismo delle università. Non mi sembra che esista una società letteraria vera e propria».
I suoi libri sono scomodi per la classe politica di centrosinistra. In Rimini (1985) la trama racconta un caso di corruzione politica (siamo ancora lontani da Tangentopoli), di cui è protagonista un senatore democristiano della «sinistra cattolica». Così l’autore descrive il personaggio: «è uno che parte dalla Resistenza […] poi flirterà coi gruppi dell’estrema sinistra […] Il problema principale di questa sinistra cattolica era se entrare nella società per farla diventare cristiana oppure restarne fuori, se mettere le mani nel potere e sporcarsi oppure non sporcarsi. Noi sappiamo quale è stata storicamente la scelta, quella di sporcarsi le mani e magari di farle sporcare anche a tanti altri». Il libro non viene presentato a Domenica In, sulla Prima rete Rai, nonostante fossero stati presi precisi accordi con la direzione dell’azienda.
E’ lo stesso Tondelli a raccontare l’episodio di censura: «La versione ufficiale è che il libro non fu presentato nella trasmissione perché trattandosi di una rete democristiana, non poteva parlare di un democristiano. Non so aggiungere altro».
La penna di Tondelli è critica nei confronti del miracolo economico, anzi del «bim bum bam» economico degli anni Ottanta, perché citando Luciano Bianciardi «i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino e la gente mangia gratis tutta insieme e beve e canta» e non – come distingue Tondelli – «quando i ricchi si accorgono di essere davvero ricchi e vanno in giro a spifferarlo a tutti». Non crede nel «sogno di una realizzazione prêt-à-porter, lesta e facile a raggiungersi, il mito di un decollo in verticale senza nessuna pista di allungo o di rullaggio, una volta accesi i motori, via! Zummm!, in alto più veloce della luce!».
Degli anni Ottanta, «anni vacui e superficiali in apparenza», salva, come «capitale morale del decennio», non una città, ma «l’intera provincia italiana».
A dispetto di una cultura ufficiale che impone il verbo “sinistro” dell’internazionalismo, Tondelli recupera il valore della provincia italiana e rivendica la continuità ideale con i grandi scrittori del dopoguerra, come Parise e Brancati, che hanno messo la provincia al centro della loro opera. «Il termine provincia o provinciale li ho sempre sentiti in modo positivo perché stanno a significare una serie di valori o di tradizioni che vengono magari cambiati, ma hanno una solidità, che restano». Sino a concludere, con una incredibile lungimiranza: «Questa è la sua forza, della letteratura che racconta la provincia, e questa, anche andando verso l’Europa, credo sia una delle strade più percorribili, quella delle comunità locali o regionali, più ristrette rispetto alle metropoli».
I libri di Pier Vittorio sono una scossa elettrica, il tentativo di far uscire dall’intorporimento e dall’apatia la società italiana, la sua scrittura è dirompente. Dopo le prime opere gli vengono appiccicate definizioni di scrittore “giovane”, “naif”e “realista”, che respinge energicamente.
Quella che più lo imbarazza è di essere presentato come un “nipotino di Kerouac”. «La retorica legata alla figura dello scrittore americano sembrava relegarmi nel ruolo del solito, stupido ragazzino invasato che, appena si sente libero di viaggiare, incomincia a predicare su tutto e tutti […] I luoghi comuni dei beat non mi interessavano, mi attraeva la poesia che hanno fatto».
A stimolarlo è soprattutto la ricerca «di una scrittura nuova, analogamente a quanto avevano fatto negli anni Cinquanta gli autori come Kerouac, che avevano messo al centro della narrazione le piccole cose d’ogni giorno, i personaggi emarginati, gli accadimenti quotidiani, sempre visti e descritti attraverso la lente deformante e sublime della poesia».
Una letteratura capace di rimanere con i piedi per terra, attenta a descrivere la realtà per quello che è. Questo gli sta a cuore, non certo la «leggenda di Kerouac», nei confronti della cui vicenda umana prende anche le distanze: «Che leggenda può esserci nella vita di un uomo che muore così miseramente, rifiutato da tutti, alcolizzato cronico, quale mito in un suicidio ricercato e voluto e inseguito per decenni? Nessuna, io credo».
I suoi gusti letterari sono altri, adora Tolkien con una «costanza verso l’opera» conservata nel tempo, a differenza di «altri miti letterari dei miei vent’anni», verso cui nutre «ora freddezza, a volte un fastidioso distacco». Leggerlo è per lui ogni volta una sfida con se stesso. «E’ per riprendere in mano quei libri. Per toccarli e sfogliarli. Per rileggere le vecchie annotazioni, per confrontarci con chi eravamo anni fa. Perché, in fondo, vorremmo saper rileggere quel libro come se fosse la prima volta».
Tra gli scrittori prediletti ha un debole per John Fante, che certo non è uno scrittore di sinistra, è piuttosto un tipaccio, con il suo carattere «iracondo, saturnino, imprevedibile, greve, impastato di una salacità non facilmente sopportabile».
Tondelli è, a suo modo, uno scrittore impegnato. «Impegnato per me vuol dire seguire la propria natura e il proprio istinto, saper essere sinceri con se stessi e pieni di desiderio e voglia di cambiare il mondo, anche se io non posso dirvi il modo».
E una particolare attenzione l’ha dedicata a quella «marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, ubriaconi e struggenti […] di cui i giornali non si occupano, che le trasmissioni non fanno parlare, le firme non intervistano […] questi i ragazzi che danno speranza, i ragazzi che pensano e cercano nell’oscurità la propria via individuale, le proprie risorse, al di là del baccano, degli strombazzamenti, dei riflettori puntati, dei capelli e dei vestitini».
Si è sempre rivolto ai giovani senza paternalismi, compiacimento, ammiccamenti, ma piuttosto come un fratello maggiore che non esita a rimproverare loro un certo conformismo, quel «vestirsi tutti in uno stesso modo o pensarla alla stessa maniera […] Il punto di partenza era la ricerca della diversità: volersi diversi per amalgamarsi e riconoscersi in un atto di protesta. Non assomigliarsi tutti e poi rivendicare un’illusoria diversità, come mi sembra stia accadendo ora. Bisognerebbe forse capire che, nella civiltà dell’immagine, l’immagine non conta più e che la diversità può essere solo interiore. Conciatevi come volete. Vi ho già visti a Sanremo».
Le sue opere altro non sono che «il tentativo di portare nella letteratura il mondo giovanile» e viceversa. Sprona i giovani a scrivere: «Perché non scrivete pagine contro chi odiate? […] Siete voi che dovete prendere la parola e dire quello che vi va e quello che non vi va […] Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto…».
Ed è proprio per l’allergia nei confronti degli «specialisti» e «temendo di diventare un chiacchierone» che Tondelli lancia il Progetto Under 25, l’idea di raccogliere e pubblicare in volume le opere di giovani talenti. In cinque anni sono tre le raccolte che vedono la luce e coinvolgono ventisei autori, alcuni dei quali oggi sono scrittori affermati (Romagnoli, Ballestra, Culicchia) anche grazie a Tondelli. Ha stimolato le loro individualità, senza l’aspirazione di strumentalizzarli, di omologarli. «Questo perché non era nelle mie intenzioni dimostrare niente di niente, né proporre una condotta ideologica o canoni estetici, ma mettere semplicemente insieme un libro di giovani, realmente giovani, autori».
Si sente lontano anni luce dai giovani militanti di sinistra. Quando una sera si trova tra gli studenti della Pantera, durante un’occupazione universitaria, sente di provare per loro «una specie di ostilità […] Forse più che ostilità è indifferenza […] Perché sono ancora, in questo momento, lo spaurito studente di quindici anni fa che sente la propria separatezza dalle ragioni e dalle lotte degli altri come una condanna inappellabile».
Curatore dei due volumi, che ne raccolgono l’intensa produzione letteraria, è Fulvio Panzeri, giornalista cattolico, amico ed esecutore testamentario dello scrittore emiliano. Nel primo tomo (giugno 2000) sono raccolti “romanzi, teatro, racconti” (Altri libertini, Il diario del soldato Acci, Pao Pao, Dinner party, Rimini, Racconti, Biglietti agli amici, Camere separate). Nel secondo (aprile 2001) “cronache, saggi, conversazioni” (Un weekend postmoderno, Quarantacinque giri per dieci anni, Under 25, Il mestiere dello scrittore, Conversazioni).
Materiale preziosissimo, specialmente quello contenuto nell’ultimo lavoro, che ha il pregio di restituire la parola allo stesso Tondelli, sottraendolo alla noiosa e ricorrente contesa tra bande culturali per l’appropriazione ideologica del patrimonio culturale lasciato dallo scrittore.
Dopo la sua morte, infatti, non è mancato chi ha cercato di incasellarlo nel proprio schieramento ideologico, di appropriarsene, di farne un simbolo, una bandiera, un militante postumo.
Da una parte i clan di sinistra, sempre pronti al reclutamento coatto degli intellettuali, dall’altra un articolato fronte cattolico composto da Avvenire e dai gesuiti di Civiltà Cattolica, guidato da padre Antonio Spadaro (che ha dedicato un saggio alla religiosità dello scrittore, Tondelli. Attraversare l’intesa. Edizioni Diabasis 1999), che è stato certamente molto attivo nel promuovere studi e articoli sullo scrittore. Le due letture sono entrambe tendenziose e pongono i loro accenti su aspetti diversi e contrastanti del percorso umano e culturale, prima che letterario, di Tondelli.
Pier Vittorio nasce a Correggio (Reggio Emilia) il 14 settembre 1955, in un ambiente provinciale, che lui stesso definisce di «gente ordinaria, gente comune, lontana dalla cronaca e dal pettegolezzo». Partecipa alla vita delle comunità giovanili dell’associazionismo cattolico e scrive i suoi primi testi per giornalini ciclostilati editi nell’ambito dell’oratorio.
Eppure la sua prima opera, Altri libertini (Feltrinelli 1980), suscita scandalo. Viene sequestrata dall’autorità giudiziaria e considerata «opera luridamente blasfema» che «stimola violentemente i lettori alla depravazione e al disprezzo della religione» (Tondelli viene successivamente assolto e il libro torna in circolazione). E’ il linguaggio ad essere messo sotto accusa, ma anche la tematica autobiografica dell’omosessualità, molto presente anche nella successiva produzione letteraria.
E’ certamente vero che Tondelli si riavvicina alla religione negli ultimi anni, specialmente quando inizia il calvario della malattia, ma sostenere, come fa Padre Spadaro, che «lo spirito libertino delle prime prove è radicalmente messo in discussione su quella via di Damasco che è costituita dalle ultime opere», è quantomeno ingeneroso per la complessità, la sincerità e soprattutto per la coerenza del pensiero dello scrittore correggiano.
E’ allo stesso modo strumentale citare gli ultimi episodi della sua vita, quando la battaglia con la malattia è ormai persa. L’ultimo libro che legge in ospedale è la Prima lettera ai Corinti e vi annota con grafia tremante: «la letteratura non salva mai. L’unica cosa che salva è l’Amore, la fede e la ricaduta nella grazia». Basta questo per parlare di conversione? Non lo sappiamo e non è così importante, per chi apprezza l’intera sua opera, la letteratura «emotiva», come egli stesso la definisce. «Le mie storie sono emotive […] Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è la letteratura. La letteratura emotiva è una letteratura di potenza».
Il suo maestro è Louis Ferdinand Céline: «Grande genio, la sua è vera letteratura di potenza […] un altro sfigato che oggi tutti leggono, e che chiacchierano, però io non lo so se lo prendono bene». Altri libertini, per l’autore, «si basa soprattutto sulla lettura di Céline».
La politica partitica non gli interessa. Si definisce «infantilmente apolitico, con la perversione del bambino amorale che non conosce».
Certo non è di sinistra. Parlando in terza persona della sua gioventù racconta egli stesso: «Il ragazzo non avrebbe fatto parte di nessuna organizzazione politica dell’estrema sinistra, non avrebbe occupato scuole, avrebbe contestato il nozionismo degli insegnanti in modo individuale […] Si sarebbe sentito in contatto con i suoi coetanei, li avrebbe cercati iscrivendosi all’Università di Bologna, li avrebbe trovati solo per rendersi conto che la propria vita si sarebbe giocata in solitudine e avrebbe potuto unirsi agli altri unicamente attraverso la scrittura».
La scelta di non schierarsi gli costa la freddezza dei potentati culturali, ma non se ne fa un problema. «I salotti non mi hanno mai interessato». Non riconosce la società letteraria come tale: «L’ambiente letterario italiano mi sembra diviso a metà tra un giornalismo fatto un po’ di ripiego e un accademismo delle università. Non mi sembra che esista una società letteraria vera e propria».
I suoi libri sono scomodi per la classe politica di centrosinistra. In Rimini (1985) la trama racconta un caso di corruzione politica (siamo ancora lontani da Tangentopoli), di cui è protagonista un senatore democristiano della «sinistra cattolica». Così l’autore descrive il personaggio: «è uno che parte dalla Resistenza […] poi flirterà coi gruppi dell’estrema sinistra […] Il problema principale di questa sinistra cattolica era se entrare nella società per farla diventare cristiana oppure restarne fuori, se mettere le mani nel potere e sporcarsi oppure non sporcarsi. Noi sappiamo quale è stata storicamente la scelta, quella di sporcarsi le mani e magari di farle sporcare anche a tanti altri». Il libro non viene presentato a Domenica In, sulla Prima rete Rai, nonostante fossero stati presi precisi accordi con la direzione dell’azienda.
E’ lo stesso Tondelli a raccontare l’episodio di censura: «La versione ufficiale è che il libro non fu presentato nella trasmissione perché trattandosi di una rete democristiana, non poteva parlare di un democristiano. Non so aggiungere altro».
La penna di Tondelli è critica nei confronti del miracolo economico, anzi del «bim bum bam» economico degli anni Ottanta, perché citando Luciano Bianciardi «i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino e la gente mangia gratis tutta insieme e beve e canta» e non – come distingue Tondelli – «quando i ricchi si accorgono di essere davvero ricchi e vanno in giro a spifferarlo a tutti». Non crede nel «sogno di una realizzazione prêt-à-porter, lesta e facile a raggiungersi, il mito di un decollo in verticale senza nessuna pista di allungo o di rullaggio, una volta accesi i motori, via! Zummm!, in alto più veloce della luce!».
Degli anni Ottanta, «anni vacui e superficiali in apparenza», salva, come «capitale morale del decennio», non una città, ma «l’intera provincia italiana».
A dispetto di una cultura ufficiale che impone il verbo “sinistro” dell’internazionalismo, Tondelli recupera il valore della provincia italiana e rivendica la continuità ideale con i grandi scrittori del dopoguerra, come Parise e Brancati, che hanno messo la provincia al centro della loro opera. «Il termine provincia o provinciale li ho sempre sentiti in modo positivo perché stanno a significare una serie di valori o di tradizioni che vengono magari cambiati, ma hanno una solidità, che restano». Sino a concludere, con una incredibile lungimiranza: «Questa è la sua forza, della letteratura che racconta la provincia, e questa, anche andando verso l’Europa, credo sia una delle strade più percorribili, quella delle comunità locali o regionali, più ristrette rispetto alle metropoli».
I libri di Pier Vittorio sono una scossa elettrica, il tentativo di far uscire dall’intorporimento e dall’apatia la società italiana, la sua scrittura è dirompente. Dopo le prime opere gli vengono appiccicate definizioni di scrittore “giovane”, “naif”e “realista”, che respinge energicamente.
Quella che più lo imbarazza è di essere presentato come un “nipotino di Kerouac”. «La retorica legata alla figura dello scrittore americano sembrava relegarmi nel ruolo del solito, stupido ragazzino invasato che, appena si sente libero di viaggiare, incomincia a predicare su tutto e tutti […] I luoghi comuni dei beat non mi interessavano, mi attraeva la poesia che hanno fatto».
A stimolarlo è soprattutto la ricerca «di una scrittura nuova, analogamente a quanto avevano fatto negli anni Cinquanta gli autori come Kerouac, che avevano messo al centro della narrazione le piccole cose d’ogni giorno, i personaggi emarginati, gli accadimenti quotidiani, sempre visti e descritti attraverso la lente deformante e sublime della poesia».
Una letteratura capace di rimanere con i piedi per terra, attenta a descrivere la realtà per quello che è. Questo gli sta a cuore, non certo la «leggenda di Kerouac», nei confronti della cui vicenda umana prende anche le distanze: «Che leggenda può esserci nella vita di un uomo che muore così miseramente, rifiutato da tutti, alcolizzato cronico, quale mito in un suicidio ricercato e voluto e inseguito per decenni? Nessuna, io credo».
I suoi gusti letterari sono altri, adora Tolkien con una «costanza verso l’opera» conservata nel tempo, a differenza di «altri miti letterari dei miei vent’anni», verso cui nutre «ora freddezza, a volte un fastidioso distacco». Leggerlo è per lui ogni volta una sfida con se stesso. «E’ per riprendere in mano quei libri. Per toccarli e sfogliarli. Per rileggere le vecchie annotazioni, per confrontarci con chi eravamo anni fa. Perché, in fondo, vorremmo saper rileggere quel libro come se fosse la prima volta».
Tra gli scrittori prediletti ha un debole per John Fante, che certo non è uno scrittore di sinistra, è piuttosto un tipaccio, con il suo carattere «iracondo, saturnino, imprevedibile, greve, impastato di una salacità non facilmente sopportabile».
Tondelli è, a suo modo, uno scrittore impegnato. «Impegnato per me vuol dire seguire la propria natura e il proprio istinto, saper essere sinceri con se stessi e pieni di desiderio e voglia di cambiare il mondo, anche se io non posso dirvi il modo».
E una particolare attenzione l’ha dedicata a quella «marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, ubriaconi e struggenti […] di cui i giornali non si occupano, che le trasmissioni non fanno parlare, le firme non intervistano […] questi i ragazzi che danno speranza, i ragazzi che pensano e cercano nell’oscurità la propria via individuale, le proprie risorse, al di là del baccano, degli strombazzamenti, dei riflettori puntati, dei capelli e dei vestitini».
Si è sempre rivolto ai giovani senza paternalismi, compiacimento, ammiccamenti, ma piuttosto come un fratello maggiore che non esita a rimproverare loro un certo conformismo, quel «vestirsi tutti in uno stesso modo o pensarla alla stessa maniera […] Il punto di partenza era la ricerca della diversità: volersi diversi per amalgamarsi e riconoscersi in un atto di protesta. Non assomigliarsi tutti e poi rivendicare un’illusoria diversità, come mi sembra stia accadendo ora. Bisognerebbe forse capire che, nella civiltà dell’immagine, l’immagine non conta più e che la diversità può essere solo interiore. Conciatevi come volete. Vi ho già visti a Sanremo».
Le sue opere altro non sono che «il tentativo di portare nella letteratura il mondo giovanile» e viceversa. Sprona i giovani a scrivere: «Perché non scrivete pagine contro chi odiate? […] Siete voi che dovete prendere la parola e dire quello che vi va e quello che non vi va […] Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto…».
Ed è proprio per l’allergia nei confronti degli «specialisti» e «temendo di diventare un chiacchierone» che Tondelli lancia il Progetto Under 25, l’idea di raccogliere e pubblicare in volume le opere di giovani talenti. In cinque anni sono tre le raccolte che vedono la luce e coinvolgono ventisei autori, alcuni dei quali oggi sono scrittori affermati (Romagnoli, Ballestra, Culicchia) anche grazie a Tondelli. Ha stimolato le loro individualità, senza l’aspirazione di strumentalizzarli, di omologarli. «Questo perché non era nelle mie intenzioni dimostrare niente di niente, né proporre una condotta ideologica o canoni estetici, ma mettere semplicemente insieme un libro di giovani, realmente giovani, autori».
Si sente lontano anni luce dai giovani militanti di sinistra. Quando una sera si trova tra gli studenti della Pantera, durante un’occupazione universitaria, sente di provare per loro «una specie di ostilità […] Forse più che ostilità è indifferenza […] Perché sono ancora, in questo momento, lo spaurito studente di quindici anni fa che sente la propria separatezza dalle ragioni e dalle lotte degli altri come una condanna inappellabile».
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