«Nel tempo libero correvo a vedere film italiani: De Sica, Fellini, ma anche Franco e Ciccio, sono stati loro a plasmare il mio immaginario, trasformandomi in ciò che sono». Ad accostare i nomi dei due comici più discussi e rappresentativi della cultura popolare del nostro paese, sottolineandone l’importanza, ai mostri sacri del cinema d’autore, è stata, in una recente intervista, l’iraniana Azar Nafisi, docente di estetica, cultura e letteratura alla Johns Hopkins University di Washington e autrice del bestseller internazionale Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, 2004). Il valore universale della travolgente comicità di Franco e Ciccio, infatti, ha varcato i confini nazionali ed è finalmente riconosciuto sia dal pubblico, che non ha mai smesso di amarli, quanto dalla critica, in passato diffidente se non apertamente ostile nei confronti dei due attori palermitani. «Vedevamo i loro film, ma poi non riuscivamo a parlarne bene», hanno ammesso Goffredo Fofi e Tullio Kezich.Trent’anni fa, infatti, una dichiarazione come quella della Nafisi avrebbe fatto saltare sulla sedia la quasi totalità di una critica cinematografica ideologizzata che, dalle colonne dei giornali di sinistra come da quelli moderati e cattolici, non perdeva occasione per stroncare due attori decisamente non omologabili. Il loro è un percorso da outsider: nati negli anni Venti in famiglie poverissime, spinti dai morsi della fame prima ancora che da velleità artistiche, percorrono tutti i gradini della gavetta. E’ sulla strada che affinano ogni arma utile a strappare un sorriso ai passanti, comprese l’imitazione e la canzone, sino a salire sui primi palcoscenici sgangherati e improvvisati, misurandosi con la durezza dell’avanspettacolo, dove il pubblico non è quello annoiato e passivo della televisione di oggi, ma pagante ed esigente nel reclamare la risata. Non hanno una lira, ma hanno magnifiche facce. Ha scritto Marco Giusti: «Facce che raccontavano la loro storia personale e quelle di un paese che usciva da anni di fame, di guerra, di miseria. Facce che rimandavano ad altre milioni di facce intagliate nella miseria, l’onore e l’orgoglio. Un’Italia che allora esisteva e che nei democristianissimi anni Sessanta, nel pieno del boom economico, avrebbe forse preferito nascondere». All’inimitabile mimica facciale di Franchi, piccolo e esuberante, fa da contraltare il fisico allampanato, la lentezza dei movimenti e il volto altrettanto siciliano di Ingrassia, insieme popolare e aristocratico come solo i siciliani sanno essere. Diventare una coppia è il loro destino e come tale debuttano nel ‘54 al teatro Costa di Castelvetrano (Trapani) con una parodia, filone che farà la loro fortuna nel cinema, quando, rivisitandoli con corrosiva ironia, affronteranno vari generi: dal cinema d’autore a quello hollywoodiano, senza trascurare il western, la commedia, i film d’azione e il thriller. La televisione è ancora un privilegio per pochi benestanti e la programmazione non lascia grandi spazi, soltanto molti anni dopo vi consolideranno la popolarità partecipando a numerose trasmissioni.Il cinema rappresenta l’unica strada per il successo e non si lasciano sfuggire l’occasione che è offerta loro da Domenico Modugno. Il cantante, già famoso, li vuole accanto a sè in Appuntamento a Ischia di Mario Mattoli (’60). In pochissimi anni diventano un vero e proprio fenomeno di costume: la loro comicità schietta ed esilarante, mai volgare e soprattutto contagiosa, richiama nelle sale adulti, ragazzi e bambini. I produttori se li contendono, consapevoli di come a costi di produzione modesti, che raramente superano i cento milioni, seguano incassi altissimi: oltre cinquecento milioni a film, quando il biglietto, è bene ricordarlo, costa appena cinquecento lire. Lo ha ricordato con una punta di amarezza il figlio di Ciccio, l'attoreGiampiero Ingrassia: «La verità è che i produttori facevano i soldi con loro due e poi, con quegli stessi soldi, producevano i film intellettuali che non incassavano una lira ma che piacevano tanto alla critica». E Franco e Ciccio accettano ogni proposta, lavorano a ritmi frenetici, sino a spostarsi su tre set diversi in uno stesso giorno. Don Franco e Don Ciccio nell’anno della contestazione (’68), viene realizzerato in sole tre domeniche. In molti casi la sceneggiatura è ridotta al minimo e l’onere di “fare” il film è affidato all’inesauribile capacità di improvvisazione dei due istrioni palermitani dal talento eclettico e clownesco. La produzione complessiva è sterminata e conta circa centocinquanta film, di cui ottanta realizzati solo negli anni Sessanta, con una media di dodici l’anno. Non si tratta sempre di film di qualità, più incassano e maggiore è la fretta dei produttori di sfornarne di nuovi, ma il pubblico risponde entusiasta e incorona gli Stanlio e Ollio italiani quali re Mida del botteghino. L’Italia si riconosce nei loro film istintivi e viscerali, privi di moralismo e di supponenti didascalie. Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, scomparso lo scorso 20 agosto, ha sottolineato come rappresentassero «un’Italia prorompente, vitale e con voglia di fare» e Fellini riservò loro un riconoscimento simile: «C’è più Italia in un film di Franchi e Ingrassia che in tutte le commedie all’italiana». E’ del resto un fatto che Franchi e Ingrassia siano riusciti a far coincidere i personaggi con gli interpreti – gran parte di essi si chiamano proprio Franco e Ciccio – creando una sorta di filo diretto con l’Italia reale. Nei loro film c’è anche una particolare rappresentazione della politica e del passato recente della storia nazionale. Il tema del superamento delle divisioni della seconda guerra mondiale è, ad esempio, il filo conduttore di Due marines e un generale di Luigi Scattini, un film sceneggiato proprio da Castellano e Pipolo nel ‘66. Qui i nostri antieroi sono due marines italo-americani inviati in Italia per preparare lo sbarco di Anzio. Arrivano a scontrasi e poi a fraternizzare con un generale tedesco interpretato da Buster Keaton. Alla fine, quando il generale viene catturato, i due lo fanno fuggire per riconoscenza.Tra i pochi critici controcorrente, si distingue Valerio Caprara: «Inutile aggiungere che meno amavo le isterie gauchistes (che, pure, hanno preso il potere nel campo dei sacerdoti della critica) più simpatizzavo con la morfologia artistica di Franchi e Ingrassia, la cui docta ignorantia mi sembrava di gran lunga più lucida della ignoranza tout court dei lanzichenecchi rossi e rosa di Cinecittà e dintorni. Il cinema ‘nobile’ era costituito, per costoro, da alcuni ignobili sottoprodotti gabellati per ‘ideologici’ e progressivi, e Franchi e Ingrassia dovevano essere disprezzati in quanto non degni del circuito prestigioso delle prime visioni. Per fortuna il popolo (quello vero, quello che si esalta al Mundial e prende a pomodorate le reprimende dei sociologi) invertiva puntualmente i canoni del sotterraneo Minculpop e premiava gli sforzi autarchici, generosi, fisici dei due attori in barba agli appelli auto-mortificanti dei pretini sub-marxiani». Quello di Caprara è un sentimento diffuso e ben radicato, se si considera il persistente successo, ad esempio, dei Dvd mandati in edicola dalla De Agostini e come ogni passaggio televisivo della coppia per antonomasia del cinema italiano riscuota una simpatia che non accenna a ridimensionarsi.Eppure sono stati pochi gli uomini di cultura che ne hanno riconosciuto, in vita, il valore. Carmelo Bene ne apprezzava l’atteggiamento dissacrante verso il cinema cosiddetto “serio”, Pasolini li aveva voluti accanto a Totò nell’episodio Che cosa sono le nuvole? di Capriccio all’italiana (’68), ma agli inizi per un regista dirigere un film di Franco e Ciccio rappresentava una macchia professionale difficile da cancellare. Lucio Fulci, che ne diresse addirittura una ventina, arrivò a dire: «Per anni mi sono portato il marchio di Franchi e Ingrassia, ma io mi vanto di avere fatto film che hanno rappresentato per molti anni l’unico prodotto comico italiano a diffusione internazionale ». Pensare che quando i due esordiscono con Fulci da protagonisti nel ‘62 in I due della legione, persino la casa produttrice, la Titanus, temendone l’insuccesso, decide di non comparire. Solo dopo i primi successi della pellicola, la Titanus si convince a figurare. Resisterà la critica militante, che continuerà a considerarli poco più che fenomeni da baraccone, manifestando sdegno per il crescente successo di pubblico. L’accusa rimarrà sempre la stessa: qualunquismo. Di «avvilente esempio di qualunquismo» parla il Giorno nel ‘69. Non è da meno l’Unità, che contesterà ripetutamente il tono “qualunquistico” dei film. Pregiudizio che li seguirà per tutta la carriera. Ancora nel 1975, quando, dopo una delle tante separazioni (seguite da riconciliazioni) - «sembravamo Liz Taylor e Richard Burton» disse Ciccio – lo stesso Ingrassia nei panni di regista gira la mirabile parodia de L’esorciccio, il quotidiano cattolico Avvenire recita la consueta litania: «L’attore regista fa professione di qualunquismo».La “riabilitazione” dei due vastasi siciliani sarà lenta ma inesorabile e culminerà nell’edizione 2004 del festival di Venezia, tempio del cinema d’autore. E sarà soprattutto grazie ai registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco, che presentano fuori concorso il documentario Come inguaiammo il cinema italiano, un film di montaggio che racconta La vera storia di Franco e Ciccio. Incredibilmente il salotto buono della cinematografia italiana si fermerà per sei minuti ad applaudire le icone per eccellenza della comicità popolare. La figlia di Franchi, Maria Letizia Benenato, dirà: «Sono andata al cimitero prima di venire qui a Venezia e ho trovato una fascia rosso e nera con la scritta: Franco, hai visto, siamo arrivati in serie A». Promozione che ha il sapore del risarcimento per chi, come Franchi, ha attraversato anche l’inferno di un processo per mafia e la conseguente fatale malattia che lo ha condotto alla morte nel ’92 (Ingrassia morirà nel 2003). Ora riposano insieme ai protagonisti della grande commedia all’italiana: Totò, Peppino De Filippo, Nino Taranto, Ave Ninchi, Aldo Fabrizi e Alberto Sordi. E noi continuiamo a ridere con loro.
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