sabato 9 dicembre 2006

La tigre bianca impossibile da domare

Dal Secolo d'Italia del 6 settembre 2006
rubrica "Sei un mito"
Yanez c’est moi. E’ un ruolo che ho adorato, perché mi ricordava moltissimo la fantastica vita avventurosa che ho avuto prima di diventare un attore. Magico, ironico. Ero come lui a quel tempo! E’ anche la mia ossessione, però. Se incontro qualcuno che mi riconosce, di solito esclama: Yanez!». Sono trascorsi trent’anni dall’incredibile successo dello sceneggiato televisivo Sandokan e nonostante Philippe Leroy Beaulieu, grazie al suo versatile quanto inossidabile talento, abbia avuto e continui ad avere una carriera strepitosa tra cinema e teatro, è difficile non ricordarlo magnificamente a suo agio nei panni del nobile portoghese Yanez de Gomera, il 'fratellino' della tigre della Malesia interpretata da Kabir Bedi. Il vagabondo con l’inseparabile sigaretta stretta tra le labbra, l’amico fedele, il lucido consigliere con una visione del mondo disincantata senza essere cinica, animato da un irrinunciabile senso dell’onore e dalla simpatia per i perdenti, è il compagno di avventure che ognuno di noi avrebbe desiderato avere. In particolare per chi è nato negli anni Sessanta, Yanez ha rappresentato molto di più che un personaggio televisivo. «Tutti quanti, prima di dormire, sapevamo di poter contare sull’amicizia di Philippe Leroy» ha scritto Aldo Nove nel bel libro Mompracem (a cura di Antonio Franchini e Ferruccio Parazzoli, Mondadori). Lo scrittore varesino, classe ’67, è uno degli oltre ventisette milioni di italiani che la sera del 6 gennaio del 1976 seguono sul piccolo schermo la prima delle sei puntate del kolossal, gli occhi puntati sulle isole remote e le foreste impenetrabili nate dalla fervida fantasia di Emilio Salgari e restituite con «grande senso dello spettacolo» dal regista Sergio Sollima nei paesaggi da sogno della Malesia, della Thailandia e dell’India. «Avevo nove anni e il piccolo paese di provincia in cui vivevo si apprestava a diventare una piccola colonia britannica di una strana India popolata di frontalieri che possiedono quasi tutti la Fiat 500 e presero a dividersi in immaginifiche approssimazioni ai personaggi dello sceneggiato. Il panettiere era un ciccione stronzo e ai miei occhi era Adolfo Celi che voleva sconfiggere i tigrotti con il pane avvelenato dell’esercito inglese». Da parte mia, essendo coetaneo di Aldo Nove, ricordo perfettamente la gelosia di bambino per Philippe Leroy. Ogni volta che facevo arrabbiare nonna Ines, vedova ma donna di grande ironia e dolcezza, la minaccia incombeva: «scappo con Yanez!» La prospettiva, naturalmente terribile per me, non poteva che sembrarmi assolutamente comprensibile, giustificabile.E se lo scrittore dei nove romanzi della saga - considerato dagli addetti ai lavori troppo a lungo solo uno «scrittore per ragazzi rozzo e vago, perfino diseducativo» - si era limitato a navigare di biblioteca in biblioteca, Leroy ha avuto, se possibile, una vita persino più romanzesca della «tigre bianca» Yanez. Mozzo a soli diciassette anni per sottrarsi all’educazione dei gesuiti, vive perennemente in giro per il mondo, ventimila chilometri in autostop, sino alle esperienze della guerra vissuta da volontario e della legione straniera. A ventun anni sale sul primo aereo militare, nel ’53 è paracadutista in Indocina e nel ’58 nuovamente in Algeria come tenente di riserva. «Ho vissuto dappertutto, rientravo a Parigi per giocare a rugby e poi ripartire, il mio allenatore usava chiamarmi il pittore, volendo così etichettarmi d’artista, da irregolare» ha raccontato. Ciononostante Leroy sembra avviato ad una brillante carriera sportiva: «Ho giocato per dieci anni in prima divisione in una importantissima squadra di rugby, il Racing Club. Siamo stati anche campioni di Francia. Poi, per ragioni politiche ho dovuto lasciare Parigi, per uno spirito indipendente come il mio non c’erano molti spazi di libertà». Quando arriva in Italia ancora non sa che nel suo destino c’è il cinema: «Non mi passava proprio per la testa di fare l’attore: fino ad allora non avevo visto più di due film. E poi ero molto intimorito dal fatto che nel mondo dello spettacolo ci fossero così tanti omosessuali» ha detto scherzando in un’intervista.Ad offrirgli la prima opportunità importante è Vittorio Caprioli in Leoni al sole (’62). «Da lì in poi c’è stato il mio personale miracolo italiano. Giravo molto, dato che avevo un fisico atletico mi usavano un po’ come il prezzemolo, ma ancora non ero convinto della mia carriere di attore». La concorrenza è spietata. Negli anni Sessanta sono molti gli attori francesi che, attratti dalla vivacità della nostra industria cinematografica, oltre trecento film prodotti l’anno, vivono a Roma: Terzieff, Delon, Anouk Aimeé. «C’era una voglia di fare e vedere cinema che adesso pare perduta – ricorda Leroy - poi il lavoro è scemato, tutti incominciarono a tornare ed io ebbi la felice intuizione di restare, perché mi piaceva vivere nel vostro paese». E l’Italia saprà valorizzarlo più di quanto non faranno oltralpe. «In Francia sono ancora classificato, a causa dei vecchi “007” che ho interpretato, come il poliziotto in incognito o il tipo misterioso e vengo chiamato per rifare quel ruolo. E poi lo fanno perché non c'è gente della mia età senza pancia, io sono uno dei pochi». Ma gli inizi sono duri. Famoso per la spericolatezza e l’allergia agli stuntman, Leroy si destreggia tra pellicole d’autore, buoni film di genere e altri «fatti per pura sopravvivenza, in periodi bui. Ho sempre avuto molti alti e bassi. Così ho dovuto fare film alimentari». Tutto per non scendere a compromessi: «Con il mio carattere e la mia indole estremamente indipendente, non ho mai voluto fare parte di qualsiasi clan o famiglia, sia cinematografica che culturale. Non so fare il cortigiano né l’ho mai voluto fare». Detesta «le cose troppo intellettuali» e l’ambiente lo tratta come «un estraneo, un infiltrato». «C’è sempre stato un po’ di ostracismo nei miei confronti» ricorda mostrando di avere le spalle larghe: «Delle recensioni me ne frego, mi interessa la sfida che impone l’interpretazione di un uomo diverso da me». Pochi credono in lui, tra questi il regista Renato Castellani, che nel ’71 lo vuole come protagonista nello sceneggiato televisivo Vita di Leonardo da Vinci. «Leonardo era un personaggio che m’incuteva una paura terribile, quando si affronta una leggenda ci vuole un enorme lavoro d’intuizione. Fui nominato agli Oscar in America per quella interpretazione».Un palmarès che si è arricchito con il tempo: all’attivo ha lavori teatrali di grande spessore, dall’Isola degli Schiavi di Marivaux, portato in scena da Giorgio Strehler nel ‘94, a La Donna del mare di Ibsen, diretta da Bob Wilson nel ’98, sino al più recente The loooking glass di Leonardo Petrillo (premio Flaiano 2003), oltre cento film e qualche rifiuto, persino a grandi registi come il maestro del western all’italiana, genere con cui Leroy si è cimentato negli anni Sessanta. «Sergio Leone mi aveva interpellato per il suo Per un pugno di dollari. Ma volevano impormi a tutti i costi un nome inglese e non ho accettato la parte». Altro rifiuto nel ’96 quando gli propongono di rindossare i panni di Yanez nel film tv Il ritorno di Sandokan (canale 5). Stavolta il no spiana la strada a Fabio Testi. «Questo Yanez risultava privo di spessore rispetto a quello di Sollima e così non ho voluto riprenderlo». La verità è che l’attore francese è insofferente ai clichè e non ama percorrere strade già battute, comoda prassi in cui si sono adagiati molti colleghi. «Io invece non ho mai voluto rifare sempre lo stesso personaggio, non mi divertirei, sarebbe come lavorare in banca». Torna ad interpretare Yanez solo nel 2000: il film è Teste di Cocco di Ugo Fabrizio Giordani, accanto a Gianmarco Tognazzi e Alessandro Gassmann, ma «più che una riproposizione era un’autoparodia». Nel 2001 lavora in Vajont di Renzo Martinelli, che narra la tragedia avvenuta nell’omonima valle nell’ottobre del ’63. «E’ un ruolo che ho odiato perché impersono Dal Pià, il geologo che insiste nel considerare sicura la diga provocando la strage. Il film è una denuncia del capitalismo selvaggio, che quando costa così tanti morti non è proprio ammissibile».Libertario irriducibile, negli anni Settanta è stato persino promotore di una cooperativa d’attori insieme ad Anouk Aimée e poi con Irene Papas, e da qualche anno vive ad Isola Farnese, borgo medievale ad una ventina di chilometri dalla Capitale, con la moglie Silvia – figlia di Enzo Tortora - e i due figli. Pur non nascondendo «quell’agorafobia dell’anima che da sempre mi spinge all'isolamento», Leroy conserva intatta un’energia da ragazzo, tanto da festeggiare il compleanno lanciandosi con il paracadute, passando con estrema disinvoltura dal set al cielo. Dopo duemila lanci, per i suoi splendidi settantacinque anni, lo scorso mese di ottobre ha toccato il record degli ottomila metri, duecento chilometri orari di caduta a ventiquattro gradi sotto zero. Ma per un carattere esuberante come il suo non è abbastanza: «vorrei salire a 10mila metri ma per farlo l’esercito italiano dovrebbe prestarci una tuta riscaldata e una speciale maschera». A chi si sorprende di questa ventennale passione per il paracadutismo civile, risponde: «Il volo è sempre stata una mia passione sin da ragazzino, poi c’è stato il teatro e il cinema e c’era sempre troppo poco tempo. Ma ad un certo punto bisogna realizzare i propri sogni ed io volevo volare, così ho iniziato».Recentemente ha dichiarato di voler lasciare gli impegni professionali - «nel cinema non vi sono più grandi maestri con cui lavorare e le fiction proprio non mi vanno giù, anche se, per amicizia verso Cinzia Torrini, sono apparso, divertendomi, in Elisa di Rivombrosa» - per dedicarsi a tempo pieno alla scultura: «materializzare la necessità di aria e spazio che sento da sempre. Che mi ha fatto partire ma anche arrivare. So che non scioglierò mai il nodo di questa mia irrequietezza, però posso conviverci». Ma se Yanez può riposare tranquillo nel paradiso dei grandi sceneggiati televisivi, insieme con la sua principessa Surama, i mitici Michele Strogoff, Orzowey e tutti gli altri protagonisti che hanno infiammato la nostra giovinezza, c’è da giurare che Philippe continuerà ad essere mattatore nella scena oltre che nella vita.

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