Dal mensile Area, giugno 2003
Quando Guido Morselli, dopo un breve soggiorno a Mucugnana, torna nella sua casa di Varese e trova tra la posta due copie del suo ultimo lavoro, Dissipatio H. G. (Humani Generis), ancora una volta respinto da altrettanti editori, sente che non rimane altro da fare, a rimedio di una lunga e dolorosa frustrazione, un «male insoffribile», quello di non vedere riconosciuta, con una pubblicazione che non fosse a sue spese, la sua qualità di scrittore.
«Nessuno mai si è tolto la vita», aveva scritto, «il suicidio è una condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato». Un incarico che accetta con rassegnata consapevolezza, «senza rancore», come sottolinea in una nota inviata alla questura di Varese, scelto piuttosto «per amore della vita», come aveva annotato nel Diario il 13 gennaio del 1945, «meglio la morte che una vita amara, e il riposo eterno che un continuo dolore», a rivelare una antica attrazione per il gesto estremo e irrimediabile, che è anche di molti personaggi morselliani. La sera tra il 31 luglio e il 1° agosto del 1973 si presenta al suo ultimo appuntamento con «la ragazza dall’occhio nero», la sua inseparabile rivoltella, una browning calibro 7,65. Non c’è spazio per alcuna esitazione, per nessuna incertezza.
Lascia un articolato testamento, di assoluto valore letterario, come lo sono tutte le opere delle sua vasta produzione, sia che si tratti di articoli giornalistici che di saggi, di racconti, romanzi, commedie e soggetti cinematografici. Si preoccupa persino di lasciare accurate disposizioni nell’eventualità non riuscisse a raggiungere il suo scopo, prevedendo e disciplinando gli effetti di una eventuale infermità.
Era nato a Bologna il 15 agosto 1912. Pochi giorni dopo avrebbe compiuto sessantuno anni, ma probabilmente aveva perso quella passione che l’aveva sostenuto in anni lunghi e difficili, fatti di sacrifici e di applicazione costante, di studi e di sperimentazione letteraria, nei quali aveva riposto tante speranze, aspettando pazientemente una sospirata pubblicazione che non arrivò mai.
Nella vita non aveva voluto fare altro che lo scrittore. Si era laureato in legge presso l’Università Statale di Milano, dove si era trasferita la famiglia già dal 1914, ma non aveva voluto accondiscendere all’aspirazione paterna di vederlo avvocato.
Dopo la seconda guerra mondiale aveva deciso di non tornare con il padre a Milano, ma di rimanere a Varese, dove la famiglia era sfollata. Si era fatto costruire una villetta immersa nel verde di Gavirate, un eremo nel quale rifugiarsi per sfuggire ad una quotidianità che, per uno come lui «refrattario alla civiltà», appariva minacciosa: «l’uniformità noiosa di un destino in cui non doveva esserci posto per la gioia schietta». Lì poteva vivere a contatto con la natura, cavalcare e soprattutto seguire religiosamente l’irrinunciabile vocazione: scrivere.
Se Morselli, scrittore raffinato, colto, originale, versatile e uomo discreto, coerente, antiprogressista ed antimaterialista, intransigente soprattutto con se stesso, avesse rinunciato appena un po’ alla sua libertà per lusingare le consorterie culturali, la sua vicenda personale si sarebbe conclusa ben diversamente. Invece Morselli, per non voler subire alcun tipo di condizionamento, non cercò mai scorciatoie, preferendo andare con ostinata dignità incontro alla sua rovina. «Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi», si lamentava sempre Leo Longanesi. «La categoria, quasi inesistente, dei liberi scrittori, è da sempre inaffidabile e invisa ai politici di tutti i partiti. Ma in particolar modo a quelli di sinistra», ha affermato in un’intervista di qualche tempo fa Sebastiano Vassalli. E Morselli agli occhi della sinistra era da ritenersi particolarmente scomodo, perché nei suoi romanzi proprio di quel mondo comunista, che attraverso un funzionariato militante gestiva a proprio piacimento buona parte del potere letterario, lo scrittore denunciava, con lucidità e con lungimirante anticipo, l’irreversibile crisi morale e politica.
Ne Il Comunista, in particolare, racconta l’emblematica vicenda di Walter Ferrandini, un personaggio schivo, modesto, che nel carattere austero, nel rigore morale e nell’isolamento, assomiglia molto al suo creatore: «onestissimo, d’un pezzo solo, ma non si sa come prenderlo; e così tanti gli stavano alla larga». Ferrandini è un militante comunista in buona fede, che non vuole fare altro che «dare una mano a della povera gente che soffre» e che, diventato deputato e conoscendo da vicino la realtà del partito, ne rimane profondamente deluso. «Inutili e oziosi» gli sembrano i centoquaranta compagni del suo gruppo. «Dunque siamo qui a perdere tempo», è la sua indispettita quanto amara considerazione. Non lo convince più «l’ottimismo messianico che ispira la dottrina marxiana e comunistica», generatrice di «illusioni», colpevole a suo dire di alimentare l’aspettativa di una felicità che il materialismo non può dare.
Convinzioni che si rafforzano di fronte ad una prassi politica avvilente, caratterizzata dal “carrierismo” dei singoli, appena mascherato da fatue affermazioni di principio sempre più stridenti con il sostanziale disimpegno sui temi concreti. La goccia che fa traboccare il vaso è il rifiuto dei parlamentari del partito di sostenere un suo progetto sulla riforma della legislazione infortunistica. Trova patetiche le giustificazioni che gli offrono i vertici: «i comunisti non devono partecipare alla vita parlamentare, devono stare a vedere, restare estranei».
Ferrandini mette su carta il suo pensiero di «marxista in crisi» in un articolo che viene pubblicato da una rivista culturale, ma subito dopo si pente di aver scelto per il dibattito «una tribuna borghese». Nell’articolo sostiene che «la teoria è smentita dalla realtà, è irrealizzabile, è assurda e falsa è la promessa di un cambiamento nell’insieme della vita, cambiamento positivo».
Mentre già si prepara, da una parte, ad una dura reprimenda, e, dall’altra, a ricevere serie argomentazioni in risposta, sperando in cuor suo che «gli altri avessero più ragione di lui e glielo dimostrassero», a mortificarlo definitivamente arriva l’indulgenza dei vertici, che lo trattano «mezzo da parolaio, mezzo da scolaro zuccone» perché ha scritto quella che ritengono semplicemente «un’incauta e inconsistente presa di posizione», poco di più di un piccolo incidente di percorso, da superare con una tempestiva ritrattazione.
Si accorge che non c’è alcuna volontà di mettersi in discussione, che la nomenklatura del partito è troppo occupata a «tenere su la baracca, a mandare avanti il tesseramento, l’organizzazione, la stampa, le ispezioni […] la continuazione dello stato delle cose, uno stato delle cose redditizio, sicuro e riposante, così gradevole».
Ferrandini, umiliato da cotanta supponenza, si trasforma. Da «buon comunista che si sottomette anzitutto alla disciplina» diventa un eretico, un ribelle. Cogliendo l’opportunità che gli viene offerta da un invito della ex moglie Nancy, gravemente malata, si reca negli Stati Uniti, cominciando a quarantasei anni una nuova vita, liberata dal vincolo ideologico e riscoprendo quella capacità di dubitare di se stessi che, diceva Ugo Ojetti, è «il primo segno d’intelligenza».
Il Comunista, proposto nel 1965 all’Einaudi, venne bocciato da Italo Calvino, direttore editoriale dell’importante casa editrice, con il quale Morselli intrattenne una corrispondenza dai contenuti significativi.
Calvino in una lettera del 5 ottobre contesta all’autore la rappresentazione del PCI fatta nel romanzo: «ogni accento di verità si perde quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco».
Morselli, in una parola, ha scritto il falso, il mito del grande partito democratico di massa non può essere intaccato. Il tono di Calvino è cortese, ma fermo, così come lo è nella risposta di Morselli. Gratificato dall’attenzione che gli dedica l’illustre scrittore, preferisce prendere la bocciatura come «la lunga articolata recensione di uno dei dieci o quindici italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei manuali di lettere del 2000». Così gli risponde Morselli, lusingato, non sapendo che in quelle antologie entrerà prepotentemente e a pieno titolo anche lui, post mortem e senza raccomandazioni.
Certo non poteva immaginare che, dopo essersi visto costantemente opporre «pareti scoscese, invalicabili, contro le quali è stato inutile farsi sanguinare e piedi e mani e ginocchia», a distanza di un solo anno dalla morte, nel 1974 (anno di pubblicazione del romanzo “fantareligioso” Roma senza Papa, scritto tra il 1965 ed il 1966), si sarebbero spalancate improvvisamente le porte della popolarità facendo di lui un caso letterario.
L’Adelphi, cui va il merito della “scoperta” di questo grande autore, ha pubblicato le sue opere con un ritmo incalzante; Divertimento 1889 e Contro-passato prossimo nel 1975, Il Comunista nel 1976, Dissipatio H.G. nel 1977, Un dramma borghese nel 1978, Incontro col comunista nel 1980, Diario nel 1988 e La felicità non è un lusso nel 1994.
Giulio Nascimbeni fu tra i primi a salutare in Morselli un grande scrittore, tanto da scrivere sul Corriere della Sera che si era di fronte ad un «Gattopardo del Nord». Paragone più che mai appropriato, soprattutto perché con Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva condiviso l’analoga sorte di scrittore che in vita si è visto a lungo rifiutare ogni tipo di lavoro da quasi tutte le case editrici. E anche nei confronti del siciliano la cosiddetta critica militante aveva parlato sprezzantemente di narrativa decadente e fatalista, in una parola rinunciataria, disfattista, disimpegnata.
Un inspiegabile caso letterario è il titolo opportunamente scelto da Marina Lessona Fasano per il suo libro, la cui seconda edizione è tornata in libreria da poche settimane per l’editore Liguori. Nel libro vengono affrontate efficacemente le tematiche espresse nei romanzi e nei saggi di Morselli, e ricostruito «il mondo sentimentale e esistenziale e le caratteristiche dei suoi personaggi».
Oggi Morselli è finalmente un “classico” e come tale l’Adelphi ha pubblicato nel 2002 il primo volume delle opere complete nella prestigiosa collana dei classici moderni, La nave Argo. La raccolta, Romanzi I, è impreziosita dalla presenza di un romanzo inedito, Brave borghesi ed è curata da Elena Borsa e Sara D’Arienzo, mentre l’introduzione e la cronologia sono dell’attivissima Valentina Fortichiari, alla quale si devono, tra l’altro, anche l’Invito alla lettura di Morselli (Mursia, 1984) ed il recente Morselli: immagini di una vita (Rizzoli 2001).
Contributi importanti, che a trent’anni dalla sua morte, risarciscono, almeno in parte, una «monade intellettuale», un artista che si tolse la vita, ma senza perdere mai la coscienza di essere uno scrittore autentico.
«Nessuno mai si è tolto la vita», aveva scritto, «il suicidio è una condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato». Un incarico che accetta con rassegnata consapevolezza, «senza rancore», come sottolinea in una nota inviata alla questura di Varese, scelto piuttosto «per amore della vita», come aveva annotato nel Diario il 13 gennaio del 1945, «meglio la morte che una vita amara, e il riposo eterno che un continuo dolore», a rivelare una antica attrazione per il gesto estremo e irrimediabile, che è anche di molti personaggi morselliani. La sera tra il 31 luglio e il 1° agosto del 1973 si presenta al suo ultimo appuntamento con «la ragazza dall’occhio nero», la sua inseparabile rivoltella, una browning calibro 7,65. Non c’è spazio per alcuna esitazione, per nessuna incertezza.
Lascia un articolato testamento, di assoluto valore letterario, come lo sono tutte le opere delle sua vasta produzione, sia che si tratti di articoli giornalistici che di saggi, di racconti, romanzi, commedie e soggetti cinematografici. Si preoccupa persino di lasciare accurate disposizioni nell’eventualità non riuscisse a raggiungere il suo scopo, prevedendo e disciplinando gli effetti di una eventuale infermità.
Era nato a Bologna il 15 agosto 1912. Pochi giorni dopo avrebbe compiuto sessantuno anni, ma probabilmente aveva perso quella passione che l’aveva sostenuto in anni lunghi e difficili, fatti di sacrifici e di applicazione costante, di studi e di sperimentazione letteraria, nei quali aveva riposto tante speranze, aspettando pazientemente una sospirata pubblicazione che non arrivò mai.
Nella vita non aveva voluto fare altro che lo scrittore. Si era laureato in legge presso l’Università Statale di Milano, dove si era trasferita la famiglia già dal 1914, ma non aveva voluto accondiscendere all’aspirazione paterna di vederlo avvocato.
Dopo la seconda guerra mondiale aveva deciso di non tornare con il padre a Milano, ma di rimanere a Varese, dove la famiglia era sfollata. Si era fatto costruire una villetta immersa nel verde di Gavirate, un eremo nel quale rifugiarsi per sfuggire ad una quotidianità che, per uno come lui «refrattario alla civiltà», appariva minacciosa: «l’uniformità noiosa di un destino in cui non doveva esserci posto per la gioia schietta». Lì poteva vivere a contatto con la natura, cavalcare e soprattutto seguire religiosamente l’irrinunciabile vocazione: scrivere.
Se Morselli, scrittore raffinato, colto, originale, versatile e uomo discreto, coerente, antiprogressista ed antimaterialista, intransigente soprattutto con se stesso, avesse rinunciato appena un po’ alla sua libertà per lusingare le consorterie culturali, la sua vicenda personale si sarebbe conclusa ben diversamente. Invece Morselli, per non voler subire alcun tipo di condizionamento, non cercò mai scorciatoie, preferendo andare con ostinata dignità incontro alla sua rovina. «Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi», si lamentava sempre Leo Longanesi. «La categoria, quasi inesistente, dei liberi scrittori, è da sempre inaffidabile e invisa ai politici di tutti i partiti. Ma in particolar modo a quelli di sinistra», ha affermato in un’intervista di qualche tempo fa Sebastiano Vassalli. E Morselli agli occhi della sinistra era da ritenersi particolarmente scomodo, perché nei suoi romanzi proprio di quel mondo comunista, che attraverso un funzionariato militante gestiva a proprio piacimento buona parte del potere letterario, lo scrittore denunciava, con lucidità e con lungimirante anticipo, l’irreversibile crisi morale e politica.
Ne Il Comunista, in particolare, racconta l’emblematica vicenda di Walter Ferrandini, un personaggio schivo, modesto, che nel carattere austero, nel rigore morale e nell’isolamento, assomiglia molto al suo creatore: «onestissimo, d’un pezzo solo, ma non si sa come prenderlo; e così tanti gli stavano alla larga». Ferrandini è un militante comunista in buona fede, che non vuole fare altro che «dare una mano a della povera gente che soffre» e che, diventato deputato e conoscendo da vicino la realtà del partito, ne rimane profondamente deluso. «Inutili e oziosi» gli sembrano i centoquaranta compagni del suo gruppo. «Dunque siamo qui a perdere tempo», è la sua indispettita quanto amara considerazione. Non lo convince più «l’ottimismo messianico che ispira la dottrina marxiana e comunistica», generatrice di «illusioni», colpevole a suo dire di alimentare l’aspettativa di una felicità che il materialismo non può dare.
Convinzioni che si rafforzano di fronte ad una prassi politica avvilente, caratterizzata dal “carrierismo” dei singoli, appena mascherato da fatue affermazioni di principio sempre più stridenti con il sostanziale disimpegno sui temi concreti. La goccia che fa traboccare il vaso è il rifiuto dei parlamentari del partito di sostenere un suo progetto sulla riforma della legislazione infortunistica. Trova patetiche le giustificazioni che gli offrono i vertici: «i comunisti non devono partecipare alla vita parlamentare, devono stare a vedere, restare estranei».
Ferrandini mette su carta il suo pensiero di «marxista in crisi» in un articolo che viene pubblicato da una rivista culturale, ma subito dopo si pente di aver scelto per il dibattito «una tribuna borghese». Nell’articolo sostiene che «la teoria è smentita dalla realtà, è irrealizzabile, è assurda e falsa è la promessa di un cambiamento nell’insieme della vita, cambiamento positivo».
Mentre già si prepara, da una parte, ad una dura reprimenda, e, dall’altra, a ricevere serie argomentazioni in risposta, sperando in cuor suo che «gli altri avessero più ragione di lui e glielo dimostrassero», a mortificarlo definitivamente arriva l’indulgenza dei vertici, che lo trattano «mezzo da parolaio, mezzo da scolaro zuccone» perché ha scritto quella che ritengono semplicemente «un’incauta e inconsistente presa di posizione», poco di più di un piccolo incidente di percorso, da superare con una tempestiva ritrattazione.
Si accorge che non c’è alcuna volontà di mettersi in discussione, che la nomenklatura del partito è troppo occupata a «tenere su la baracca, a mandare avanti il tesseramento, l’organizzazione, la stampa, le ispezioni […] la continuazione dello stato delle cose, uno stato delle cose redditizio, sicuro e riposante, così gradevole».
Ferrandini, umiliato da cotanta supponenza, si trasforma. Da «buon comunista che si sottomette anzitutto alla disciplina» diventa un eretico, un ribelle. Cogliendo l’opportunità che gli viene offerta da un invito della ex moglie Nancy, gravemente malata, si reca negli Stati Uniti, cominciando a quarantasei anni una nuova vita, liberata dal vincolo ideologico e riscoprendo quella capacità di dubitare di se stessi che, diceva Ugo Ojetti, è «il primo segno d’intelligenza».
Il Comunista, proposto nel 1965 all’Einaudi, venne bocciato da Italo Calvino, direttore editoriale dell’importante casa editrice, con il quale Morselli intrattenne una corrispondenza dai contenuti significativi.
Calvino in una lettera del 5 ottobre contesta all’autore la rappresentazione del PCI fatta nel romanzo: «ogni accento di verità si perde quando ci si trova all’interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco».
Morselli, in una parola, ha scritto il falso, il mito del grande partito democratico di massa non può essere intaccato. Il tono di Calvino è cortese, ma fermo, così come lo è nella risposta di Morselli. Gratificato dall’attenzione che gli dedica l’illustre scrittore, preferisce prendere la bocciatura come «la lunga articolata recensione di uno dei dieci o quindici italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei manuali di lettere del 2000». Così gli risponde Morselli, lusingato, non sapendo che in quelle antologie entrerà prepotentemente e a pieno titolo anche lui, post mortem e senza raccomandazioni.
Certo non poteva immaginare che, dopo essersi visto costantemente opporre «pareti scoscese, invalicabili, contro le quali è stato inutile farsi sanguinare e piedi e mani e ginocchia», a distanza di un solo anno dalla morte, nel 1974 (anno di pubblicazione del romanzo “fantareligioso” Roma senza Papa, scritto tra il 1965 ed il 1966), si sarebbero spalancate improvvisamente le porte della popolarità facendo di lui un caso letterario.
L’Adelphi, cui va il merito della “scoperta” di questo grande autore, ha pubblicato le sue opere con un ritmo incalzante; Divertimento 1889 e Contro-passato prossimo nel 1975, Il Comunista nel 1976, Dissipatio H.G. nel 1977, Un dramma borghese nel 1978, Incontro col comunista nel 1980, Diario nel 1988 e La felicità non è un lusso nel 1994.
Giulio Nascimbeni fu tra i primi a salutare in Morselli un grande scrittore, tanto da scrivere sul Corriere della Sera che si era di fronte ad un «Gattopardo del Nord». Paragone più che mai appropriato, soprattutto perché con Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva condiviso l’analoga sorte di scrittore che in vita si è visto a lungo rifiutare ogni tipo di lavoro da quasi tutte le case editrici. E anche nei confronti del siciliano la cosiddetta critica militante aveva parlato sprezzantemente di narrativa decadente e fatalista, in una parola rinunciataria, disfattista, disimpegnata.
Un inspiegabile caso letterario è il titolo opportunamente scelto da Marina Lessona Fasano per il suo libro, la cui seconda edizione è tornata in libreria da poche settimane per l’editore Liguori. Nel libro vengono affrontate efficacemente le tematiche espresse nei romanzi e nei saggi di Morselli, e ricostruito «il mondo sentimentale e esistenziale e le caratteristiche dei suoi personaggi».
Oggi Morselli è finalmente un “classico” e come tale l’Adelphi ha pubblicato nel 2002 il primo volume delle opere complete nella prestigiosa collana dei classici moderni, La nave Argo. La raccolta, Romanzi I, è impreziosita dalla presenza di un romanzo inedito, Brave borghesi ed è curata da Elena Borsa e Sara D’Arienzo, mentre l’introduzione e la cronologia sono dell’attivissima Valentina Fortichiari, alla quale si devono, tra l’altro, anche l’Invito alla lettura di Morselli (Mursia, 1984) ed il recente Morselli: immagini di una vita (Rizzoli 2001).
Contributi importanti, che a trent’anni dalla sua morte, risarciscono, almeno in parte, una «monade intellettuale», un artista che si tolse la vita, ma senza perdere mai la coscienza di essere uno scrittore autentico.
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