Dal mensile Area, settembre 2003
«Il giornalismo è un appassionante illudente e deludente rincorsa alle ombre. Ma è anche l’unica forma di poesia rimasta al nostro tempo». Questa frase di Guido Gerosa (1933-1999), inviato di guerra e scrittore ingenerosamente dimenticato, sembra essere scritta proprio per descrivere il giornalismo poetico di cui fu magistrale interprete Gian Carlo Fusco (1915-1984), geniale ritrattista, popolarissimo reporter negli anni Cinquanta e Sessanta, scrittore sopraffino, ma anche personaggio leggendario.
«Sopra-le-righe per antonomasia», lo ha tratteggiato Beppe Benvenuto, curatore delle recenti riedizioni Sellerio, che ha ricordato anche la definizione che ne dette Giovanni Arpino: «un pedone hors catégorie, non catalogabile sulla scacchiera delle testimonianze letterarie italiane».
Il prossimo 17 settembre saranno trascorsi diciannove anni dalla morte di questo giornalista, che sempre per imanere alle parole di Arpino era «estraneo ad ogni molle snobismo elitario», talmente atipico e anticonformista al punto di non iscriversi all’albo.
La sua è stata una vita burrascosa, persino avventurosa, romanzesca, fatta di mille stravaganti e forse immaginari mestieri, come il ballerino di tip tap, il cantante e l’attore cinematografico, e condita da fantasiose bugie ed equivoci, spesso coltivati dallo stesso Fusco, vero principe dell’intrattenimento e mentitore per vocazione, rimpianto mattatore delle redazioni cui ha collaborato, dal Mondo all’Europeo, dal Giorno a Cronache, sino ad ABC, che diresse.
Fusco era ligure di nascita, “sprugolino” per l’esattezza, essendo nato a La Spezia il 18 giugno 1915 e meridionale di ascendenze paterne: «mio padre, Carlo Vittorio Fusco, nato tra i monti del Sannio, era arrivato alla Marina da Guerra percorrendo, come tanti giovani meridionali di buona volontà, la strada, spesso miracolosa, indicata da un cartello segnaletico che dice: arrivate, il più presto possibile, al primo stipendio».
Il giovane Gian Carlo, a differenza dell’ammiraglio, si mostra subito irrequieto e insofferente alla vita scolastica, «ai voti maledetti e senza senso», alle sue coercizioni e ai suoi rituali: «Gli esami, ostacoli atroci, non già per la loro intrinseca difficoltà, ma per il sigillo di ebetitudine sociale, umana, su di essi marcato».
L’ammirazione per Dino Segre, in arte Pitigrilli, gli costa due sonori sganassoni da parte del padre. Più di qualche ceffone dev’essergli costata anche la fuga dal collegio di Lucca, prima di diverse diserzioni.
Gli amici lo ricordano «piccolo, tarchiato […] brutto come pochi altri, un collo della stessa dimensione della testa», ma nonostante non possa fare affidamento su un fisico adeguato si inventa boxeur. Intraprende questa attività sportiva per passione, «ma molto di più per dispetto ai miei familiari: buoni borghesi, che mi avrebbero preferito di gran lunga tennista, spadaccino o, magari, brillante zompatore di ostacoli ai concorsi ippici patrocinati da Jolanda Calvi di Bergolo, nata Savoia».
E’ umorale, sregolato, curioso fino all’ossessione, ed è un vivace conversatore, caratteristiche conciliabili con pochi mestieri, se non con quello di giornalista. Quando, chiamato da Arrigo Benedetti, arriva all’Europeo, la redazione rimane sconcertata trovandosi di fronte un clochard che, stando a quanto si diceva, dormiva sotto le barche di Viareggio, in spiaggia. L’aspetto è quello del pugile suonato. E Fusco lo è davvero, perché nella sua breve carriera puglistica le aveva prese regolarmente, e a furia di combattere incontri che si erano rivelavati ogni volta perdenti e disastrosi, era finito con il rimanere con il naso rotto ed un solo dente in bocca.
I colleghi dovettero tassarsi per fargli rifare la dentiera e renderlo presentabile. Camilla Cederna lo ricorda così: «sandali sfasciati, pantaloni con un fil di ferro per cintura e una cordicina più sotto dove era necessaria una chiusura, quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli disordinati».
Per sapere qualcosa di più sulla vita e sulle opere di Fusco bisogna necessariamente affidarsi alla memoria degli amici, che negli anni ne hanno alimentato affettuosamente il ricordo, perché – come ha recentemente lamentato Oreste Del Buono - Fusco è colpevolmente ignorato anche dal «dizionario bio-bibliografico degli autori de La letteratura italiana di Alberto Asor Rosa», oltre che da tutti i manuali letterari, e non c’è motore di ricerca su internet che possa sostituirsi con compiutezza al compito di storici della letteratura distratti e superficiali.
Vittorio Emiliani, nel libro Gli anni del Giorno, il quotidiano del signor Mattei (Baldini &Castoldi, 1998), tra i diversi gustosi aneddoti ivi raccontati, ricorda il Fusco grande bevitore di grappa, uno da «trenta bicchierazzi al giorno», e di come per nascondere quest’insano abuso avesse preso ad ordinarne ingenti quantitativi ad uno stabilimento Nardini, trincerandosi dietro un fantomatico Bar Fusco, con tanto di carta intestata falsificata, ritenendo così di non dare nell’occhio. Molti degli episodi sono naturalmente improbabili e da verificare, alcuni dei quali, peraltro, sono creati ad arte da Fusco per semplice gusto di provocazione.
Lo spezzino asseriva, ad esempio, di essere parente di un omonimo boss italoamericano e di aver fatto parte, negli anni giovanili, tra le due guerre, della malavita marsigliese. Una storia apparentemente inverosimile, ma basta poi leggere Duri a Marsiglia (Bietti 1974, Einaudi 1987), uno dei suoi piccoli gioielli letterari, unica opera noir della sua produzione, per riconoscere nel protagonista Charles Fiori, «giovanotto poco raccomandabile ma serio», nella sua arditezza, lealtà e strafottente voglia di esibire la muscolatura, alcune qualità tipicamente fuschiane. Per non parlare dell’accurata descrizione del milieu criminale della città transalpina, delle bische clandestine e dei «caffè dove donne tenebrose aspettano il ritorno dei loro uomini», efficace al punto da sembrare, più che reale, persino vissuta.
Del resto il suo modus vivendi era di per sé letterario. Non si alzava mai prima del pomeriggio inoltrato, ed era un tiratardi per eccellenza. Quand’era a Roma faceva la spola tra Piazza del Popolo e via Veneto, mentre a Milano trascorreva notti brave al Sir Anthony, un night vicino a Lambrate. Era eccessivo e trasgressivo nella vita privata almeno quanto era serio e rigoroso in quella professionale. E dietro l’esuberanza sapeva celare con discrezione la generosità. Sempre Emiliani riferisce che, quando andò via dal Giorno, ricevuta la liquidazione, si fece pagare in assegni di diverso taglio e in buona parte li distribuì la sera stessa alle ragazze del night, alle prese con vite difficili, figli da mantenere e protettori violenti.
Eppure, nonostante il suo disordine esistenziale, Fusco è stato un narratore di gran talento, un acuto osservatore del costume, con una particolare predisposizione a condividere il racconto con il lettore, ottenendone la complicità, criticando, senza supponenza e ricorso all’invettiva o al sarcasmo, i difetti nazionali. Il suo è un umorismo sottile, lieve e intelligente, coinvolgente, irriguardoso ma mai sgradevole.
Oltre agli articoli giornalistici, rimangono dei deliziosi libri, come La lunga marcia (Longanesi 1961), ed altri recentemente ristampati: Quando l’Italia tollerava (Neri Pozza 1995); La Guerra d’Albania (Sellerio 2001); Le rose del ventennio (Sellerio 2000); Gli indesiderabili (Sellerio 2003).
Beppe Benvenuto, curatore delle note alle nuove edizioni Sellerio, tra cui quella all’inedito L’Italia al dente (2002), ha sottolineato come Fusco «scrive con ironia, grazia e commozione della Storia intima dell’Italia mussoliniana […] storie anomale nel panorama letterario del secondo dopoguerra. Un pregio che può presto trasformarsi in stonatura […] in un periodo di cascami neorealistici e di incipienti neoavanguardie». Per l’intellighentia militante, infatti, l’imperdonabile difetto delle opere fuschiane consiste proprio nella mancanza di una presa di distanza netta dal fascismo, nella «leggerezza pacata e disinvolta» con la quale l’autore affronta temi intorno ai quali invece ritiene di poter discutere «senza malanimi» che finiscono per trasformare il periodo di guerra in un’epoca «quasi gioiosa».
Quando l’Italia tollerava (Canesi Editrice 1965) è la rievocazione agrodolce del mondo delle case chiuse, arricchita dalle testimonianze di intellettuali come Dino Buzzati, Giovanni Comisso, Mino Maccari e Cesare Zavattini; Le rose del ventennio, pubblicato da Einaudi nel 1959, è invece dedicato alle camicie nere in gonnella; La guerra d’Albania (Feltrinelli 1961) racconta con stile asciutto l’epopea, politically uncorrect per Benvenuto, «cominciata col delittuoso sacrificio della Julia il 28 ottobre 1940 e chiusa definitivamente, dopo tre anni, con l’assassinio della Acqui». E’ un lungo pezzo di guerra, da lui vissuta in prima linea come militare del genio telegrafisti della Julia nel 1941, nel quale l’autore si astiene dall’esprimere giudizi. Si avverte piuttosto tra le righe un sincero sentimento patriottico, seppur stemperato dall’autoironia, un sincero affetto per i soldati, cui riconosce le capacità di tenacia, sopportazione e buon senso in un mondo che sembrava averlo smarrito. Fusco è sempre stato sensibile ai temi della nostra storia nazionale, affrontandoli senza pregiudizi e velleità storiografiche, in aperta controtendenza rispetto al reiterato tentativo, per tornare alle parole di Benvenuto nella postfazione del libro, della «pubblicistica, egemonizzata dalla sinistra […] di sottodimensionare ogni atto, soprattutto di eroismo, che testimoni la sopravvivenza di fedeltà altre. A cominciare da quella verso le vecchie istituzioni, monarchia in primis».
A ricordare questo grande affabulatore che, per dirla con Manlio Cancogni, l’amico che nel 1949 lo spinse a scrivere per il Mondo, «quando parlava era grande come Tolstoi scrittore», è arrivata da poche settimane in libreria una seconda antologia fuschiana, (dopo quella curata da Natalia Aspesi nel 1985, Il gusto di vivere).
Si tratta della raccolta di pezzi, scritti sul Giorno in piena libertà, nel periodo che va dal ’58 al ’63, La Colonna, la rubrica più caustica e umoristica di un’Italia che cambia (Baldini e Castoldi, 2003). Sfogliandolo, invece, la sensazione che ci assale, è che l’Italietta non sia poi cambiata troppo e che «i tic, le mode, le pacchianerie», in una parola il conformismo, che Fusco abilmente sbeffeggiava, sia ancora duro a morire e noi possiamo sorriderne ancora insieme a Gian Carlo.
«Sopra-le-righe per antonomasia», lo ha tratteggiato Beppe Benvenuto, curatore delle recenti riedizioni Sellerio, che ha ricordato anche la definizione che ne dette Giovanni Arpino: «un pedone hors catégorie, non catalogabile sulla scacchiera delle testimonianze letterarie italiane».
Il prossimo 17 settembre saranno trascorsi diciannove anni dalla morte di questo giornalista, che sempre per imanere alle parole di Arpino era «estraneo ad ogni molle snobismo elitario», talmente atipico e anticonformista al punto di non iscriversi all’albo.
La sua è stata una vita burrascosa, persino avventurosa, romanzesca, fatta di mille stravaganti e forse immaginari mestieri, come il ballerino di tip tap, il cantante e l’attore cinematografico, e condita da fantasiose bugie ed equivoci, spesso coltivati dallo stesso Fusco, vero principe dell’intrattenimento e mentitore per vocazione, rimpianto mattatore delle redazioni cui ha collaborato, dal Mondo all’Europeo, dal Giorno a Cronache, sino ad ABC, che diresse.
Fusco era ligure di nascita, “sprugolino” per l’esattezza, essendo nato a La Spezia il 18 giugno 1915 e meridionale di ascendenze paterne: «mio padre, Carlo Vittorio Fusco, nato tra i monti del Sannio, era arrivato alla Marina da Guerra percorrendo, come tanti giovani meridionali di buona volontà, la strada, spesso miracolosa, indicata da un cartello segnaletico che dice: arrivate, il più presto possibile, al primo stipendio».
Il giovane Gian Carlo, a differenza dell’ammiraglio, si mostra subito irrequieto e insofferente alla vita scolastica, «ai voti maledetti e senza senso», alle sue coercizioni e ai suoi rituali: «Gli esami, ostacoli atroci, non già per la loro intrinseca difficoltà, ma per il sigillo di ebetitudine sociale, umana, su di essi marcato».
L’ammirazione per Dino Segre, in arte Pitigrilli, gli costa due sonori sganassoni da parte del padre. Più di qualche ceffone dev’essergli costata anche la fuga dal collegio di Lucca, prima di diverse diserzioni.
Gli amici lo ricordano «piccolo, tarchiato […] brutto come pochi altri, un collo della stessa dimensione della testa», ma nonostante non possa fare affidamento su un fisico adeguato si inventa boxeur. Intraprende questa attività sportiva per passione, «ma molto di più per dispetto ai miei familiari: buoni borghesi, che mi avrebbero preferito di gran lunga tennista, spadaccino o, magari, brillante zompatore di ostacoli ai concorsi ippici patrocinati da Jolanda Calvi di Bergolo, nata Savoia».
E’ umorale, sregolato, curioso fino all’ossessione, ed è un vivace conversatore, caratteristiche conciliabili con pochi mestieri, se non con quello di giornalista. Quando, chiamato da Arrigo Benedetti, arriva all’Europeo, la redazione rimane sconcertata trovandosi di fronte un clochard che, stando a quanto si diceva, dormiva sotto le barche di Viareggio, in spiaggia. L’aspetto è quello del pugile suonato. E Fusco lo è davvero, perché nella sua breve carriera puglistica le aveva prese regolarmente, e a furia di combattere incontri che si erano rivelavati ogni volta perdenti e disastrosi, era finito con il rimanere con il naso rotto ed un solo dente in bocca.
I colleghi dovettero tassarsi per fargli rifare la dentiera e renderlo presentabile. Camilla Cederna lo ricorda così: «sandali sfasciati, pantaloni con un fil di ferro per cintura e una cordicina più sotto dove era necessaria una chiusura, quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli disordinati».
Per sapere qualcosa di più sulla vita e sulle opere di Fusco bisogna necessariamente affidarsi alla memoria degli amici, che negli anni ne hanno alimentato affettuosamente il ricordo, perché – come ha recentemente lamentato Oreste Del Buono - Fusco è colpevolmente ignorato anche dal «dizionario bio-bibliografico degli autori de La letteratura italiana di Alberto Asor Rosa», oltre che da tutti i manuali letterari, e non c’è motore di ricerca su internet che possa sostituirsi con compiutezza al compito di storici della letteratura distratti e superficiali.
Vittorio Emiliani, nel libro Gli anni del Giorno, il quotidiano del signor Mattei (Baldini &Castoldi, 1998), tra i diversi gustosi aneddoti ivi raccontati, ricorda il Fusco grande bevitore di grappa, uno da «trenta bicchierazzi al giorno», e di come per nascondere quest’insano abuso avesse preso ad ordinarne ingenti quantitativi ad uno stabilimento Nardini, trincerandosi dietro un fantomatico Bar Fusco, con tanto di carta intestata falsificata, ritenendo così di non dare nell’occhio. Molti degli episodi sono naturalmente improbabili e da verificare, alcuni dei quali, peraltro, sono creati ad arte da Fusco per semplice gusto di provocazione.
Lo spezzino asseriva, ad esempio, di essere parente di un omonimo boss italoamericano e di aver fatto parte, negli anni giovanili, tra le due guerre, della malavita marsigliese. Una storia apparentemente inverosimile, ma basta poi leggere Duri a Marsiglia (Bietti 1974, Einaudi 1987), uno dei suoi piccoli gioielli letterari, unica opera noir della sua produzione, per riconoscere nel protagonista Charles Fiori, «giovanotto poco raccomandabile ma serio», nella sua arditezza, lealtà e strafottente voglia di esibire la muscolatura, alcune qualità tipicamente fuschiane. Per non parlare dell’accurata descrizione del milieu criminale della città transalpina, delle bische clandestine e dei «caffè dove donne tenebrose aspettano il ritorno dei loro uomini», efficace al punto da sembrare, più che reale, persino vissuta.
Del resto il suo modus vivendi era di per sé letterario. Non si alzava mai prima del pomeriggio inoltrato, ed era un tiratardi per eccellenza. Quand’era a Roma faceva la spola tra Piazza del Popolo e via Veneto, mentre a Milano trascorreva notti brave al Sir Anthony, un night vicino a Lambrate. Era eccessivo e trasgressivo nella vita privata almeno quanto era serio e rigoroso in quella professionale. E dietro l’esuberanza sapeva celare con discrezione la generosità. Sempre Emiliani riferisce che, quando andò via dal Giorno, ricevuta la liquidazione, si fece pagare in assegni di diverso taglio e in buona parte li distribuì la sera stessa alle ragazze del night, alle prese con vite difficili, figli da mantenere e protettori violenti.
Eppure, nonostante il suo disordine esistenziale, Fusco è stato un narratore di gran talento, un acuto osservatore del costume, con una particolare predisposizione a condividere il racconto con il lettore, ottenendone la complicità, criticando, senza supponenza e ricorso all’invettiva o al sarcasmo, i difetti nazionali. Il suo è un umorismo sottile, lieve e intelligente, coinvolgente, irriguardoso ma mai sgradevole.
Oltre agli articoli giornalistici, rimangono dei deliziosi libri, come La lunga marcia (Longanesi 1961), ed altri recentemente ristampati: Quando l’Italia tollerava (Neri Pozza 1995); La Guerra d’Albania (Sellerio 2001); Le rose del ventennio (Sellerio 2000); Gli indesiderabili (Sellerio 2003).
Beppe Benvenuto, curatore delle note alle nuove edizioni Sellerio, tra cui quella all’inedito L’Italia al dente (2002), ha sottolineato come Fusco «scrive con ironia, grazia e commozione della Storia intima dell’Italia mussoliniana […] storie anomale nel panorama letterario del secondo dopoguerra. Un pregio che può presto trasformarsi in stonatura […] in un periodo di cascami neorealistici e di incipienti neoavanguardie». Per l’intellighentia militante, infatti, l’imperdonabile difetto delle opere fuschiane consiste proprio nella mancanza di una presa di distanza netta dal fascismo, nella «leggerezza pacata e disinvolta» con la quale l’autore affronta temi intorno ai quali invece ritiene di poter discutere «senza malanimi» che finiscono per trasformare il periodo di guerra in un’epoca «quasi gioiosa».
Quando l’Italia tollerava (Canesi Editrice 1965) è la rievocazione agrodolce del mondo delle case chiuse, arricchita dalle testimonianze di intellettuali come Dino Buzzati, Giovanni Comisso, Mino Maccari e Cesare Zavattini; Le rose del ventennio, pubblicato da Einaudi nel 1959, è invece dedicato alle camicie nere in gonnella; La guerra d’Albania (Feltrinelli 1961) racconta con stile asciutto l’epopea, politically uncorrect per Benvenuto, «cominciata col delittuoso sacrificio della Julia il 28 ottobre 1940 e chiusa definitivamente, dopo tre anni, con l’assassinio della Acqui». E’ un lungo pezzo di guerra, da lui vissuta in prima linea come militare del genio telegrafisti della Julia nel 1941, nel quale l’autore si astiene dall’esprimere giudizi. Si avverte piuttosto tra le righe un sincero sentimento patriottico, seppur stemperato dall’autoironia, un sincero affetto per i soldati, cui riconosce le capacità di tenacia, sopportazione e buon senso in un mondo che sembrava averlo smarrito. Fusco è sempre stato sensibile ai temi della nostra storia nazionale, affrontandoli senza pregiudizi e velleità storiografiche, in aperta controtendenza rispetto al reiterato tentativo, per tornare alle parole di Benvenuto nella postfazione del libro, della «pubblicistica, egemonizzata dalla sinistra […] di sottodimensionare ogni atto, soprattutto di eroismo, che testimoni la sopravvivenza di fedeltà altre. A cominciare da quella verso le vecchie istituzioni, monarchia in primis».
A ricordare questo grande affabulatore che, per dirla con Manlio Cancogni, l’amico che nel 1949 lo spinse a scrivere per il Mondo, «quando parlava era grande come Tolstoi scrittore», è arrivata da poche settimane in libreria una seconda antologia fuschiana, (dopo quella curata da Natalia Aspesi nel 1985, Il gusto di vivere).
Si tratta della raccolta di pezzi, scritti sul Giorno in piena libertà, nel periodo che va dal ’58 al ’63, La Colonna, la rubrica più caustica e umoristica di un’Italia che cambia (Baldini e Castoldi, 2003). Sfogliandolo, invece, la sensazione che ci assale, è che l’Italietta non sia poi cambiata troppo e che «i tic, le mode, le pacchianerie», in una parola il conformismo, che Fusco abilmente sbeffeggiava, sia ancora duro a morire e noi possiamo sorriderne ancora insieme a Gian Carlo.
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