sabato 9 dicembre 2006

Dante Virgili, il ritorno del distruttore


Articolo di Roberto Alfatti Appetiti
Dal mensile Area, novembre 2003
Se n’era andato in silenzio. Il 20 giugno 1992. Portandosi dietro i suoi incubi. Le sue imprecazioni. I suoi manoscritti inediti. Le lettere di rifiuto degli editori. E tutto il suo odio. Non lasciava altro. Non un amico, non una donna. Gli unici parenti, rintracciati nelle Marche, fecero sapere che non desideravano saperne niente. Il riconoscimento all’obitorio dovette farlo uno scrittore che gli era stato vicino, Ferruccio Parazzoli, uno dei pochi contatti con una realtà cui Virgili si sentiva estraneo. E lo era. «Ho scelto la parte sbagliata. Sbagliato tutto. La mia inutile vicenda umana […] Le esperienze giovanili mi hanno costretto là, mio padre mi portò in Germania. Morto senza lasciarmi una lira, carogna. Mi ha trasmesso solo la sua libidine».
La fine solitaria di una vita miserabile, iniziata a Bologna il 21 marzo 1928. Parazzoli lo trovò «orribile, gonfio, enorme, color vinaccia, non molto diverso da come l’aveva lasciato vivo». Bello non era stato mai. «Quella puttana di mia madre, m’ha costruito male». Si alimentava mangiando prosciutto e pezzetti di carne cruda. Era ossessionato dal sesso. Odiava le donne. Nonostante fosse quasi indigente era disposto a pagare per sfogare il suo sadismo. Le ebree deportate, avviate nude alle docce, lo eccitavano: «mai come in un lager l’orgoglio delle donne fu infranto. E gratis». «Io pago per arrivare dove gli altri arrivano gratis», era il suo motto.
Era un mostro, un infelice. Non a caso, per un suo romanzo rimasto ineditato, Metodo della Sopravvivenza, aveva scelto come epigrafe queste parole di Goethe nel Faust: «Colui che in pace/ auspica la guerra/ è estraneo a ogni speranza/ di felicità». E nel suo angosciante delirio si augurava la fine del mondo. Aveva avuto un’adolescenza felice a Berlino, ripeteva che i tedeschi erano stati gli unici ad averlo trattato «con umanità». Raccontava di essere stato a Vienna il giorno dell’Anschluss, di aver visto Hitler entrare tra la folla esultante. «L’ho visto che ero un bambino, insieme con mio padre, e la vita, dopo, non è mai stata eguale a quel momento».
Antonio Franchini, che a Virgili ha dedicato una coraggiosa biografia (Cronaca della fine, Marsilio, aprile 2003) lo descrive come «un uomo solo, senza figli, senza moglie, senza nessuno, orfano di un’Europa germanizzata […] collaborazionista fino all’ultimo, fedele ad un’idea di grandezza». Ne ricorda l’aspetto ripugnante: «Che fosse un mostro anche fisicamente non era un’esagerazione […] Era basso […] con una dentatura ridotta ai soli incisivi, e portava pantaloni a vita talmente alta che la cinta, non potendo stringersi, se non dove terminava la prominenza del ventre, risaliva fin poco al di sotto del petto».
Altre fonti non ce ne sono. Di foto neanche a parlarne. Virgili le detestava. Neanche sul piccolo sepolcro al cimitero milanese di Musocco c’è un’immagine che lo ritragga. Di lui rimaneva solo un libro, La distruzione. Un romanzo scritto in lode di Hitler, l’unico libro dichiaratamente nazista scritto da un italiano. La Mondadori lo ricevette nel 1968 e, dopo due anni di discussioni interne sull’opportunità di dare alle stampe un’opera simile, decise di pubblicarlo nella primavera del 1970. Il libro era da tempo introvabile, ammesso e non concesso che a qualcuno fosse venuto in mente di cercarlo. Una citazione virgiliana di Dostoevskij motivava la scelta del titolo. «Noi proclamiamo la distruzione. Perché, ancora una volta, questa piccola idea è così affascinante? Verrà un tale sconquasso, come il mondo non l’ha finora veduto». Il brano è tratto dai Demoni, e proprio Demoni è il titolo di un romanzo-omaggio dedicato a Virgili, scritto a tre mani da Ferruccio Parazzoli, Michele Monina e Giuseppe Genna (PeQuod, marzo 2003).
Ed è grazie a questa piccola casa editrice marchigiana, diretta da Marco Monina, che La distruzione tornerà in libreria nei primissimi giorni di ottobre. Il protagonista del libro, che già si presenta come un clamoroso caso editoriale, altri non è che l’alter ego del “piccolo demone” Virgili, un quarantenne frustrato, ex interprete delle SS in Italia ed ora correttore di bozze presso un giornale governativo, un uomo che sogna la fine della specie: «E’ dura a scomparire la fottuta umanità». Che auspica «una bella guerra assoluta termonucleare con cancellazione della vita nel globo». Ad illuderlo è la crisi di Suez nell’estate del 1956. Nasser ha appena nazionalizzato il canale, Inghilterra e Francia si oppongono con la forza, America e Russia sono sul punto di intervenire, è il momento di massima tensione nella guerra fredda. Il nostro non ha niente da perdere: «Ho evitato la mediocrità. Moglie scialba male allevata. Accettando la pura sopravvivenza non mi sono compromesso […] Più irriducibile e coerente che mai. L’orgoglio della mia integrità». L’attualità non gli appartiene: «E’ di moda il martirologio ebraico. Tant’è, non si può andare contro il proprio tempo. Come se fossero vittime solo i morti gassati non quelli arsi con le bombe al fosforo. E gli atomizzati in Giappone. Già, non fu un crimine. Ma quei lanci si ritorceranno presto su loro, eh eh ALTRE Enola Gay».
Nel romanzo Virgili dà sfogo al suo feroce antiamericanismo, vissuto in funzione antimaterialista, «la spada trionferà sul denaro». Sono impressionanti le pagine nelle quali prefigura con stile dirompente ed inquietante veggenza l’attacco alle Torri gemelle di New York: «Mi lecco le labbra pensando all’ammasso di pietre cui si ridurranno le loro città. Colonne di fuoco alte come grattacieli torri crollanti in un orizzonte sconvolto il cielo brucia sopra New York […] Non saranno eterni santuari le città yankees combuste dilaniate. VEDO i grattacieli di acciaio sotto un diluvio di fiamme».
La trama si consuma in tre giornate, trascorse in una città che va svuotandosi per le ferie estive. Il protagonista è solo, alle prese con i suoi lamenti, l’ossessione sadomasochista e l’insana speranza in un ultimo devastante conflitto mondiale. Fino a quando l’io narrante cessa di essere il nazista frustato e anonimo per trasformarsi - con lirica progressione - in Adolf Hitler in persona. Il libro divise i lettori della Mondadori tra favorevoli e contrari alla pubblicazione.
I temi trattati da Virgili erano stridenti rispetto al contesto storico, mentre fuori i giovani inneggiano a “pace e amore”, un oscuro “impiegato delle tenebre” teorizzava la guerra «giusta dispensiera di vendetta». Ma alla fine prevalgono i favorevoli. Perché? Non si trattava solo di una testimonianza del nazismo raccontata “dal di dentro”, ma di un libro provocatorio che, come era scritto nel risvolto di copertina, «emana originalità, intelligenza e fascino sinistro». Il tutto tenuto insieme da «una coerenza interna allucinante e ossessiva» e da una scrittura innovativa, sperimentale, moderna, con un uso creativo della punteggiatura, per certi versi céliniana, e di un bilinguismo italotedesco che conferiscono alla narrazione un ritmo vorticoso dal quale per chi legge è difficile uscire.
In una parola si era di fronte ad un capolavoro che finiva per rendere tollerabile persino l’autore. Del libro non si accorse nessuno, o quasi. Virgili fu inghiottito nuovamente dai suoi incubi disperati. Del resto era un asociale, che all’occorrenza sapeva essere gentile, ma che non amava la gente. Apprezzava pochi, tra i quali Guido Piovene, con cui collaborò nella reciproca soddisfazione, ma solo perché era nobile e aveva fama d’essere malvagio. Un po’ come si sentiva lui. Amava trascorrere le sue giornate all’ippodromo, «gli anni andavano, amici, donne sparivano, ma i cavalli ogni giorno correvano».
Nonostante le idee stravaganti, la vita dissoluta e le ostentate perversioni sessuali, era trattato con rispetto e persino con affetto dai funzionari editoriali e solo la loro solidarietà e quella di pochi scrittori lo salvò dal ricovero permanente in una clinica psichiatrica. Gli venivano versati compensi fittizi (mascherati sotto forma di anticipi su libri da scrivere o dietro generici incarichi editoriali, l’unico lavoro – peraltro - che era capace di fare e che aveva esercitato a lungo presso la Fondazione Garzanti di Bologna) dietro i quali si nascondevano in realtà delle “collette”. I suoi amici si rivolsero anche alla cassa scrittori, di cui era presidente Ignazio Silone, ma per poterne beneficiare occorreva aver pubblicato due romanzi e lui ne aveva solo uno all’attivo. Dovettero faticare per convincere Silone che i ventiquattro romanzi western per ragazzi scritti da Virgili con lo pseudonimo di Dean Blackmoore (Capitol e Mursia ), di cui l’autore andava fiero, potevano valere quanto un libro firmato.
La Mondadori gli procurò persino delle occupazioni, un part time alla Mursia e un impiego da correttore di bozze al quotidiano napoletano Roma, all’epoca di proprietà di Achille Lauro. Durò poco, finì per litigare con il direttore, il musicologo di destra Piero Buscaroli, che più tardi ebbe a lamentarsene con chi gliel’aveva raccomandato, raccontando che aveva dovuto far allontanare le figlie da Napoli per le continue molestie di Virgili.
Dopo un silenzio di vent’anni il “piccolo demone” tornò a scrivere. Verso la fine degli anni Ottanta consegnò in Mondadori un racconto autoironico intitolato L’idiota, «la storia di un villeggiante che non sa approfittare della disponibilità della giovane cameriera» e l’anno dopo fu la volta del Memoriale. Una lunga comunicazione ad un avvocato, nella quale denuncia i raggiri subiti da una ricchissima nobildonna milanese: «l’arraffatrice». Personaggio che tornerà nella successiva opera, Metodo della Sopravvivenza.
Quest’ultimo romanzo, ambientato nell’estate milanese del 1990, l’anno dei mondiali di calcio italiani ma soprattutto della guerra del Golfo, narra le ambigue vicissitudini di un professore di tedesco in pensione, un «misero Ulisse corrotto» lo definisce Franchini, che, quando non è davanti alla televisione ad esultare - allo stesso modo - per la nazionale tedesca e per «il mio amico Saddam Hussein», si diverte a «tendere insidie a commesse e garzoni, portinaie e baristi». A raccontarcelo è Antonio Franchini, all’epoca già responsabile della narrativa italiana della Mondadori, che nel 1991 bocciò il libro, che sarà pubblicato quasi sicuramente da PeQuod nel 2004. Oggi Franchini forse a riparazione di quello che lui stesso ritiene un torto, (ma non lo ammetterà mai), ci regala questa onesta biografia di Virgili, riconoscimento postumo ad uno scrittore impresentabile ma di talento. Che ritorna. Con il suo esplosivo bagaglio di invettive. Per scandalizzare i benpensanti. Di ieri e di sempre.

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