giovedì 14 dicembre 2006

Oriente e Occidente secondo Vicky Alliata, la signora degli anelli

Dal Secolo d'Italia di giovedì 14 dicembre 2006
rubrica settimanale "Alto gradimento"
Cercasi Vittoria Alliata disperatamente. Il web, prodigo di notizie su chiunque, pronto ad informarci dettagliatamente sul numero degli starnuti e sulla consistenza filosofica dei mal di pancia dell’ultimo dei blogger, diventa insolitamente avaro se gli chiediamo di questa scrittrice dall’inconscio saraceno, autrice di libri di successo come InDigest, il meglio dell’America per un mondo migliore (Ed. La Pietra ’75), Harem, memorie d’Arabia di una nobildonna siciliana (Garzanti ’80), Baraka, dal Tamigi alle Piramidi (Mondatori ’84) e Rajah, in Malesia alla ricerca dell’incenso perduto tra sultani, maghe e poeti (Garzanti ’87) - solo per citarne alcuni tra i più importanti.
Diremmo di più: è stata una scrittrice cult e da alto gradimento per tutti gli anni Ottanta. Si potrebbe anzi definirla l'anti-Fallaci, per la stessa vena letteraria di Oriana ma per la diversa - contrapposta - visione delle cose in tema di rapporti Oriente-Occidente e di multiculturalismo. E oggi del coraggio di Vittoria Alliata di Villafranca, detta Vicky, ce ne sarebbe un gran bisogno. Peccato che da un quindicennio non appaiano più suoi scritti. Sicuramente una voce anticonformista come la sua manca ad un dibattito sull’Islam e soprattutto sulla condizione femminile nel mondo arabo che sembra basarsi esclusivamente su sospetti e pregiudizi, sulla non conoscenza – se non aperto rifiuto - del diverso da sé. Niente di più lontano da lei, ricercatrice scrupolosa quanto rispettosa delle altrui identità, come conferma la determinazione nel respingere le richieste di vendere i diritti cinematografici di Harem e InDigest (un esilarante e raffinato pamphlet di critica all'americanismo di massa), «nella consapevolezza di non poterne controllare l’esito», temendo le semplificazioni del grande schermo, la sopraffazione banalizzante dello spettacolo a tutti i costi.
Oggi, che con una certa irresponsabilità c’è chi agita lo spettro dello "scontro di civiltà" e vengono rappresentati con toni drammatici e ultimativi scenari da fortezza assediata, ci accorgiamo di quanto fossero profetiche le sue riflessioni sul vero Occidente e il rapporto con l'Oriente e come ponessero con lungimiranza una questione ineludibile: la necessità di un confronto sereno e costruttivo tra culture diverse, al di là di reciproche demonizzazioni e giustificazionismi strumentali, affermando le proprie identità con orgoglio ma "senza rabbia", rendendole polifoniche e civili. Le risposte, Vicky, era andate a cercarle direttamente alla fonte, rinunciando alle comodità della sua condizione di ricca principessa per scoprire tradizioni antiche e luoghi inesplorati, spesso rischiando l’incolumità. Per voler vedere con i propri occhi. Per spingersi laddove altri, uomini, non avrebbero osato. Per capire in profondità, oltre l’apparenza. «Per affannarmi a spiegare il Medio Oriente visto dalla parte degli arabi, la posizione della donna nel Corano». Per raccontare, con stile piacevolmente affabulatorio, ma mai superficiale, «mondi in cui l’uguaglianza non era uniformità, la saggezza non era morale, la forza non era dominio, la civiltà non era progresso e il progresso non era sfruttamento».
Ha collaborato con prestigiosi periodici e quotidiani italiani e stranieri, scrivendo decine e decine di articoli, ha pubblicato libri istruttivi, documentati quanto affascinanti, reportages preziosi, ha allestito mostre e happenings, accumulato e filtrato esperienze sul campo, tenuto conferenze, eppure il logorroico web tace. Nel ’91, anno della “Tempesta nel deserto”, si schierò con il fronte del no alla guerra con Paolo Liguori (direttore del Sabato, di cui era collaboratrice), Franco Cardini, Massimo Borghesi ed altri intellettuali “dialoganti”. Poi, a novembre dello stesso anno, partecipò al seminario “Oriente e Occidente: conflitti e attraversamenti”, organizzato all’università romana di Tor Vergata da Viceversa, l’associazione culturale animata da Umberto Croppi, Stefano Lanna e Mauro Verro. In quell’occasione Vittoria Alliata si confrontò con Giano Accame, Marco Tarchi, Elemire Zolla, Massimo Di Nunzio, Adolfo Moranti, Mario Perniola, Giacomo Marramao e Marcello Veneziani. Da allora, salvo interventi estemporanei, sembrerebbe aver scelto il silenzio. Del resto, dopo lunghi anni di permanenza in Medio Oriente, così aveva scritto ad un’amica: «Ero partita per scrivere sulle donne arabe, solo ora che sono una donna araba, intravedo i vantaggi del silenzio. Continuate pure ad immaginarci stupide, oppresse e ignoranti».
«Gli arabi non sono quel popolo selvaggio che abita terre incolte, rutta dopo i pasti, produce solo bambini e vagheggia un paradiso pieno di puttane», protestava ogni volta che si scontrava con questo luogo comune. Si è arresa? Difficile crederlo in una donna di carattere, abituata a non curarsi delle difficoltà per l’affermazione delle sue idee. E motivi ne avrebbe avuti, per arrendersi. A cominciare dallo scetticismo generale che l’aveva circondata sin da ragazzina, giovanissima studentessa di lingua araba: «In Europa la gente rideva quando dicevo di studiare l’arabo». I suoi scritti sono stati spesso trattati con ingenerosa sufficienza, alla stregua di pittoreschi rotocalchi di costume. «A una superficiale lettura maschile il libro potrebbe apparire complice di un esotismo da vecchia cartolina coloniale» scrive Francesco Castro (suo professore di islamistica, ndr) nella prefazione di Harem, che non è un libro di mere memorie di viaggio – come ammicca il sottotitolo con evidente intento commerciale – ma la testimonianza autentica di un itinerario di vita attraverso le vicende storiche e politiche del popolo arabo e, ancor di più, un viaggio interiore alla ricerca di se stessi. Harem in arabo significa luogo proibito, sacro, santuario. La donna è sacra, inviolabile e per questo la zona riservata a lei prende il nome di harem. Il libro altro non è che la chiave di lettura per immedesimarsi nella mentalità delle donne orientali, imperscrutabili dietro un velo che non è necessariamente un segno di sottomissione: «Per una donna di fede musulmana, portare lo hedjab non è un obbligo, ma una scelta. Il Corano dice “la ikraha fi ad-din”, non può esserci costrizione nella fede». La condizione delle donne è tutt’altro che secondaria nel mondo arabo: «La donna di ogni ceto sociale, nei paesi islamici, dispone in assoluta autonomia dei propri beni patrimoniali. E poiché anche in Arabia il denaro è potere, non è esagerato sostenere che le donne detengono di fatto il 50 per cento del potere economico del paese. Lo esercitano direttamente come mercantesse, speculatrici fondiarie, finanziere o tramite agenti che operano per loro conto sia in patria che all’estero».
Opinioni che non si era certo formata limitandosi a sfogliare i polverosi testi consigliati dai professori, ma frutto di ricerche frenetiche, confrontandosi non con i grandi della terra, ma con emiri, sceicchi, donne d’affari, latifondiste e semplici contadine, sino ad imbattersi in sconosciute tribù di beduini accampate in pieno deserto, lasciandosi travolgere dalla guerra in Libano, dal conflitto siriano, dalla lotta palestinese di Arafat e dai mille avvenimenti che infiammavano e continuano a infiammare quella inquieta regione. Le sue motivazioni rimangono ben distanti dall’orientalismo pret à porter che nutriva il facile terzomondismo di certa sinistra in perenne crisi di identità. Del resto la scrittrice si sentiva quanto più possibile estranea ai sedicenti rivoluzionari che nel ’68 andavano erigendo nuovi intolleranti dogmi: «La mia contestazione l’avevo fatta, da sola, a 13 anni. Da allora avevo perso l’illusione di un nuovo Diluvio Universale. La furia dei miei ribelli coetanei non mi sembrava ormai che un mare immenso di giulebbe nel quale mi affannavo a galleggiare».
Già diplomata alla scuola interpreti della capitale, studentessa all’ultimo anno dell’elitario liceo francese di Roma, cercava una traduzione impegnativa con cui misurarsi e che soprattutto le consentisse di trasferirsi in Libano per preparare la ricerca in diritto islamico che poi diverrà la sua tesi di laurea. E l’occasione arrivò presto, quando l’editore Ubaldini le propose di tradurre per Astrolabio (’67) i primi due libri del Signore degli anelli, ancora sconosciuto in Italia. E sconosciuta - oltre che appena quindicenne, sia pure di buona volontà - era Vicky, che non aveva mai letto Tolkien, preferendo cimentarsi con la letteratura magica di William Butler Yeats. «Feci la prova di traduzione che il puntiglioso glottologo Tolkien approvò con entusiasmo» sino a definirla – a lavoro completato - «la migliore traduzione mai scritta». La Rusconi, dopo essersi assicurata i diritti, le affidò il completamento dell’opera, con reciproca soddisfazione. «Il merito straordinario che ha avuto la Rusconi, soprattutto per l’iniziativa di Alfredo Cattabiani – ha detto in un’intervista di qualche anno fa Vittoria Alliata – è stato di pubblicare opere considerate “reazionarie” di cui molti oggi scoprono l’importanza fondamentale. Io stessa ne sono stata profondamente influenzata, proprio nella scelta di studiare la metafisica islamica, il sufismo, i cui maestri ci insegnano fra l’altro che proprio le donne hanno nel proprio sviluppo spirituale e in quello dell’umanità un compito essenziale, quello di praticare la disciplina dell’amore. Un ruolo impegnativo come quello politico, occultato dalle rivendicazioni femministe». E non è un caso se le donne hanno un ruolo determinante nel sufismo: molti dei maestri più illuminati sono state donne.
Così partì, sia pure in compagnia del jet-set internazionale. «Viaggiavo come un pacco di Gucci, anzi di Cartier, con il più natalizio degli imballi, lustrini e fiocchetti compresi, in apposite limousine tra principi napoleonici, miliardari boliviani e baronetti inglesi». Non restava che la fuga dal suo stesso ambiente e da quel «colonialismo che non si camuffava neanche più di romanticismo: se c’erano dollari bene, per il resto bastava un’occhiata alla guida Michelin». Trovava insopportabile certo snobismo: «Cos’è una moschea? Una simpatica combinazione di maioliche colorate, ma che noia doversi togliere ogni volta le scarpe». Del resto, prima della crisi petrolifera del ’73, l’Occidente si limitava a manifestare «l’indifferenza o l’ostilità di chi era convinto di avere ragione. Tutti in California s’inalberavano per la decimazione delle balene, ma ciò che accadeva laggiù, in Africa, in Arabia, in Asia, non faceva parte del mondo se non sui dépliant di viaggio».
«L’11 giugno ’67 – ci ricorda l’Alliata – l’Occidente, per voce della BBC, si rallegrava della vittoria della democrazia sul fanatismo religioso musulmano. Eppure attraverso i secoli era stato proprio l’Islam ad offrire agli ebrei un rifugio quando l’Occidente li perseguitava».
Semplici verità che forse, oggi più di prima, nessuno vuole ascoltare.

4 commenti:

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oh, interessante lettura.

grazie mille

bye, massi+

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