Dal Secolo d'Italia dell'11 aprile 2006 (paginone)
Gian Carlo Fusco, Ennio Flaiano, Luciano Bianciardi, Nino Longobardi, Stefano Vanzina, Gualtiero Jacopetti... Cosa hanno in comune queste e altre grandi firme del giornalismo italiano del secondo dopoguerra da un po' di tempo riscoperte sotto l'etichetta di "irregolari"? Apparentemente nulla. Una critica ingenerosa, per iniziare, che li ha considerati troppo a lungo scrittori minori, di poca o trascurabile importanza nel panorama delle lettere italiane. Caratteri forti e affatto inclini a compiacere il potere, insofferenti nei confronti di un giornalismo che, per usare le parole di Longobardi, «sembra vivere di piccoli annunci». Intellettuali versatili e spudoratamente controcorrente che scrivevano, come diceva Flaiano, «per non essere inclusi». E non è un caso che alcuni di loro collaborassero con il Mondo di Mario Pannunzio ma spesso in condominio (e solo in apparente contraddizione) con Il Borghese di Leo Longanesi. Raccontava lo stesso Flaiano: «Lo sforzo, lo snobismo di Pannunzio era di fare un giornale che respingesse l’attualità. Io dicevo che stavamo facendo sempre il numero precedente». Pannunzio era stato caporedattore di Omnibus. Come ha scritto Cesare De Michelis ne L’estremista moderato (Marsilio), «per Pannunzio l’incontro con il rotocalco e il suo profeta italiano fu davvero decisivo. Con Longanesi si impara a fare la fronda, a svelare l’inganno e l’imbroglio, senza tuttavia schierarsi all’opposizione». E Pannunzio la lezione la fa subito sua, si identifica con quegli scrittori trentenni che «guardavano altrove per guardare meglio dentro», come li ha definiti Leonardo Sciascia. Vite straordinarie, romanzesche, leggendarie e, soprattutto, vite intrecciate. E’ Pannunzio ad invitare il più giovane Flaiano a collaborare con lui, mentre nel 1946 Longanesi, impressionato dal talento dell’abruzzese, lo esorta a scrivere un romanzo. Tempo di uccidere vince lo Strega. E per Longanesi significa battere, in un premio prestigioso, la produzione narrativa neorealista di sinistra. Ancora similitudini: Longobardi, considerato anch’egli solo un umorista, come Flaiano è stato narratore per una sola stagione. Il suo romanzo, l’autobiografico Il figlio del podestà, pubblicato nella mitica collana degli Umorlibri della Rusconi, ebbe un clamoroso successo, superò le centomila copie vendute e venne acclamato quale “libro per l’estate” nel 1976. E’ passato poco più di un lustro dalla morte di Longobardi, libero battitore di destra, ma sembra trascorso un secolo. Le sue opere, purtroppo, sono irreperibili da anni, e non c’è editore che ne abbia in programmazione una ristampa. E scomodo era anche Bianciardi, tanto da essere licenziato da Feltrinelli. Anarchico con un passato nel PCI, dopo il grande successo avuto nel 1962 con La vita agra, avrebbe potuto battere cassa in un ambiente, quale quello letterario, amministrato da burocrati progressisti, ma aveva finito per trasformare la sua protesta in una alzata di spalle, collaborando con giornali sportivi, come Brera e Arpino, e attirandosi lo snobistico disprezzo degli ambienti culturali radical-chic. Somiglianze esistenziali di scrittori che non si schierarono mai a favor di vento e, ognuno nel proprio personalissimo modo, si fecero frondisti nelle rispettive famiglie culturali. Altro outsider è Fusco, «un pedone hors catégorie, non catalogabile sulla scacchiera delle testimonianze letterarie italiane» lo definì Giovanni Arpino. O, per dirla con Brera: «Un dispari, che in lombardo vuol dire diverso, uno scapigliato romantico tardivo, un maudit talvolta fastidioso, troppo pronto a fare a pugni». La sua vita, raccontata recentemente da Dario Biagi ne L’incantatore. Storia di Gian Carlo Fusco (Avagliano Editore, € 14,50) è stata burrascosa, avventurosa, persino troppo. «Inammissibile, per uno scrittore italiano, avere una vita così romanzesca» commenta Biagi. Fatta di mille stravaganti e forse immaginari mestieri, come il ballerino di tip tap, il boxer, il gangster, il cantante e l’attore cinematografico. Condita da fantasiose bugie ed equivoci, spesso coltivati dallo stesso Fusco, vero principe dell’intrattenimento e mentitore per vocazione, rimpianto mattatore delle redazioni cui ha collaborato, dal Mondo all’Europeo, dal Giorno a Cronache, diretto da Gualtiero Jacopetti, che darà scandalo nel cinema con Mondo cane, sino ad ABC, che diresse. Biagi lo descrive come un «incantatore di salotti bene, che si diverte molto di più nei night frequentati da balordi, malviventi e donne di facili costumi, in cui può appagare la sua passione per gli irregolari».E proprio per la sua condotta amorale venne cacciato giovanissimo dal PCI e, come non fosse bastata l’espulsione, pestato nel retro di un locale. Grande amico del non allineato per antonomasia, Giovannino Guareschi, Fusco è stato “riscoperto” solo negli ultimi anni e con lui i suoi magnifici articoli. Sono due le antologie di suoi scritti tornate in libreria: La colonna. La rubrica giornalistica più caustica e umoristica dell’Italia che cambia 1958-1963 (Baldini & Castaldi) e Il gusto di vivere (Laterza). E da poche settimane è nuovamente sugli scaffali il suo Mussolini e le donne (Sellerio, € 9,00), una divertente ed ironica storia del fascismo raccontata come storia erotica, con al centro «il duce playboy e i tanti epigoni playgerarchi, come i pendagli di una collana che prendono la luce dal medaglione centrale e la riflettono». Fusco tratteggia da par suo un Mussolini «illusionista illuso, numero uno dell’italica seduzione». E lo fa con uno stile che Pannunzio, suo direttore al Mondo, aveva definito «molto semplice e diretto, che va benissimo!». Beppe Benvenuto, nelle note di presentazione dei testi ripubblicati da Sellerio, tra cui Le rose del ventennio, L’Italia al dente, La lunga marcia, Guerra d’Albania, ha sottolineato come Fusco scriva «con ironia, grazia e commozione della Storia intima dell’Italia mussoliniana, storie anomale nel panorama letterario del secondo dopoguerra. Un pregio che può presto trasformarsi in stonatura in un periodo di cascami neorealistici e di incipienti neoavanguardie». Per l’intellighentia militante, infatti, l’imperdonabile difetto delle opere fuschiane consiste proprio nella mancanza di una presa di distanza netta dal fascismo, nella «leggerezza pacata e disinvolta» con la quale l’autore affronta temi intorno ai quali, invece, ritiene di poter discutere «senza malanimi». Finendo per trasformare il periodo di guerra in un’epoca «quasi gioiosa» e dando una rappresentazione del fascismo come di «un totalitarismo da vitelloni di provincia, cresciuti con l’idea fissa della femmina da domare». Vitelloni. Come ha scritto Tullio Kezich, nello «straordinario libretto» Mussolini e le donne, Fusco fa riferimento proprio ai Vitelloni di Fellini per «connotare l’orda di giovinastri (ex arditi di guerra, legionari fiumani o bulli di paese) della quale si servì il futuro dittatore per la scalata al potere». «Equiparato all’inglese playboy - precisa Fusco – il vitellonismo era un modello umano che il ‘socialista’ Mussolini poteva utilizzare, ma non apprezzare». Kezich conclude che «non era illegittimo immaginare Sordi con il fez e il manganello». E non è un caso che lo sceneggiatore del celebre film fu proprio Flaiano, anche se Fellini fece di tutto per ridimensionarne a posteriori il ruolo avuto nella scrittura del film. La paternità della storia, invece, è in buona parte di Flaiano, che la pensò ambientandola a Pescara e non a Rimini, ed è Flaiano stesso il personaggio di Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi, che parte e va in città, così come lo scrittore decise di andare a Roma, in tempo per accorgersi che la sua generazione «lo sta prendendo due volte nel culo: da una parte i preti, dall’altra i comunisti». Ed è nel loro essere vitelloni, animali notturni, eterni scontenti e in parte rinunciatari, apparentemente «sfaccendati», come gli amici del caffè Aragno chiamano il giovanissimo Pannunzio, che questi grandi scrittori si assomigliano e si cercano l’un l’altro. Individualità eccezionali ma unite dal filo rosso dell’anticonformismo. Dissipatori del proprio talento, svogliati ma brillanti osservatori del costume nazionale, distanti dalla politica politicante, tesi ad inseguire tra le notizie quel dettaglio capace di restituire poesia ad un’attualità che ne era assolutamente priva in un’epoca nella quale il giornalista non poteva che essere impegnato e schierato, ovviamente a sinistra, pena la derisione se non l’esclusione. Quale migliore metafora dei Vitelloni può riassumerli tutti? Cosa esprimevano, in fondo, i cinque sognatori disincantati di Fellini? Nel 1953, l’anno del film, il loro ostinato rifiuto dall’età adulta non è altro che il rifiuto altrettanto netto delle false promesse del dopoguerra e del progresso. Indifferenti alle retoriche democratiche, quello che a loro manca è la fiducia nella ricostruzione, e non è certo lo spirito della Resistenza ad animarli. Intuiscono che il boom economico, ormai dietro l’angolo, è una fregatura che merita il gestaccio del gomito che Alberto Sordi rivolge ai contadini intenti a lavorare nei campi, il celeberrimo sfottò: lavoratoriiiiiiiiiii. C’è in questo gesto una sorta di me ne frego post bellico. All’alba, dopo il veglione chiave del film, Alberto, il vitellone interpretato da Sordi, trascinandosi verso casa con i postumi di una sbronza solenne, si ribella agli amici: “Ma che credete di essere? Voi non siete nessuno”. Nel bel saggio Italia senza eroe, Ludovico Incisa di Camerana scrive: «La frase è l’emblema di una generazione italiana che s’integra nell’alba opaca della risacca, tra i torbidi detriti dei sogni infranti e delle vocazioni rigettate. Qual è il problema dei vitelloni? Il loro problema, l’unico che abbiano in comune, è quello di riuscire a non essere quello che sono». E ancora: «Il vitellone non si sente incalzato dalla vita. La sua esistenza è priva di affanno e anzi acquisisce uno smalto dorato nel dissolvimento languido della vecchia Italia. I vitelloni si sistemeranno dove capita, dove li portano le prime onde del miracolo economico. Cosa unisce questa generazione? Il ricordo infantile dell’Italia che sarà poi rimpianta anche da Pasolini, non ancora omologata, ancora incerta tra civiltà contadina e rivoluzione industriale, ancora orgogliosa delle sue cento città, di tessuti provinciali ancora saldi, di un’Italia in cui i medici condotti declamavano D’Annunzio e nelle fiere di paese si vendevano i Reali di Francia e il Guerin Meschino». E Flaiano, Longanesi, Longobardi, Guareschi, Pannunzio, Bianciardi, lo stesso Fusco, ma in parte anche Brancati, Buzzati, Saviane, Maccari, Brera ed altri, non sono che vitelloni postfascisti e afascisti, giornalisti irregolari votati all’isolamento se non alla sconfitta. Vitelloni che hanno scelto di rimanere terzi, ad offrire al lettore un giornalismo artistico, poetico ed affabulatorio che, «scrivendo d’altro», ha saputo incidere nell’immaginario collettivo molto più a fondo di quanto non siano riusciti a fare i giornalisti militanti di gramsciana memoria.
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