mercoledì 7 febbraio 2007

Gianna Preda, la Maga Magò che "fece nere" le femministe

Donne di destra, non solo quote rosa: quando Gianna Preda faceva cadere i governi diccì. Giornalista temutissima, costrinse Fanfani alle dimissioni. Amava battersi controcorrente e senza fare sconti.

Dal Secolo d'Italia del 7 febbraio 2007

Quote rosa o fucsia? Pari opportunità o inopportuni protagonismi? E un bel dibattito sulla valenza rivoluzionaria dei tacchi a spillo in politica vogliamo negarcelo? Quanto sarebbe utile poter leggere anche di questi tempi sui giornali l’opinione di Gianna Preda, il suo stile caustico ed essenziale d'irrompere nell’attualità con la visceralità che le era propria. Lei, femminile, almeno in apparenza, non lo era. Neanche bella. Tanto meno appariscente. Non si può dire che bucasse lo schermo, peraltro in bianco e nero, se non con una prosa corrosiva che non faceva sconti. Ma non se ne è mai fatta un problema. Fu una specie di Maga Magò, pronta a colpire senza guardare in faccia a nessuno. Troppo forte era «la rabbia, l’indignazione, il senso di rivolta o di impotenza per le tante italiche puttanate». Altro che rabbia di Oriana Fallaci, in quegli anni impegnata a scrivere di Vietnam, Grecia e cinema sulle belle pagine patinate. Nel mirino del giornalismo d’assalto della Preda finirono invece tanti potenti: da Sullo a Berlinguer, da Andreotti a Fanfani, per non parlare delle femministe che, sotto la sua penna caustica, diventavano macchiette caricaturali, come ben sa Natalia Aspesi, cui la Preda rivolse ironiche stilettate in un dibattito a distanza sulla verginità perduta. E alle prime femministe e alle radical chic la Preda riservò strali proverbiali...
Una sua intervista a La Pira, combinata da Biancarosa Fanfani, su una ipotesi di compromesso storico ante litteram, costrinse lo stesso Fanfani – alla fine del ’65 – a dimettersi da ministro degli esteri (l’episodio è così riferito ne Le donne italiane. Il chi è del 900, antologia curata da Miriam Mafai nel ’93).
Una giornalista irregolare, mai allineata, sempre tenacemente a destra, aggrappata com’era ai suoi affezionatissimi lettori e alle sue convinzioni ideali. Sì, ideali. Parola che scricchiola come parquet male incollato sotto i passi pesanti della politica, dal retrogusto amaro a metà tra la retorica e il marketing. Ma riconoscibile nei comportamenti di Gianna Preda. Scomoda quanto irragionevole. Poco incline ai compromessi. Incapace di lucrare una qualsivoglia rendita politica di posizione. Nata l’11 febbraio del ’21 a Coriano (Rimini) - 86 anni fa - Maria Giovanna Pazzagli Predassi, sia pure figlia di padre fascistissimo, era rimasta insensibile ai condizionamenti del tempo e alle esaltazioni littorie. «Durante il fascismo io non ho mai fatto parte dei milioni del consenso. Preferivo leggere, scolpire, disegnare, ascoltare musica e fare l’amore con il mio ragazzo». Aveva accettato la marchiatura di fascista solo quando il fascismo era caduto in disgrazia, «per una forma di civetteria selvaggia. Di destra sono diventata dopo, col Msi di Almirante». Schierata, ma senza rinunciare alla sua autonomia di giudizio, che la portò a sostenere attivamente Malagodi nel ’63 salvo poi criticarlo ferocemente sino a farne uno dei suoi bersagli.
Chissà come avrebbe accolto la discesa in campo di Berlusconi e commentato l’era delle soubrette fatte parlamentari. Alle tre “i” berlusconiane (internet, inglese, impresa), Gianna Preda avrebbe risposto a modo suo: impertinente, irascibile e indisciplinata. Intendiamoci: l’avrebbe votato, magari senza lesinargli qualche randellata polemica. Più facile, molto più facile, sarebbe immaginarla maltrattare Prodi, infierire sadicamente sulle gaffes di un primo ministro palesemente inadeguato, malgrado la considerazione, amara quanto attuale, «di non avere più nemici degni di questo nome. Ecco il guaio: non si fa niente, senza nemici che diano il gusto di combatterli e la voglia di vincere».
Spietata, non aveva esitato a sfiorare scaramanticamente con la mano «il cavallo dei pantaloni da cerimonia di un potente governativo» mentre con l’altra stringeva la mano di un Ferruccio Parri «con lo sguardo smarrito». «Qualche minuto prima - ebbe a giustificarsi - Giovanni Gronchi, dopo aver stretto la mano a Parri, inciampò e cadde col sedere sui tappeti quirinalizi». Del resto l’aveva sempre detto: «L’unica ragione per cui oggi non sono antifascista è per non trovarmi con gli ex adoratori del regime fascista. Portano male». Gnam. Avanti un altro. Tenera e accondiscendente non lo era neanche con la sua parte politica. Con Almirante, che ammirava e per il quale aveva scritto l’inno della Destra Nazionale (L'ultima frontiera, quello di "Ci chiamano carogne, ci chiamano fanatici") si era trovata spesso e malvolentieri in disaccordo. Sulla pena di morte, ad esempio: «Non credo allo Stato carnefice». Sul divorzio, anche: «Gli scrissi che era una sciocchezza, perché il divorzio era stata una conquista, soprattutto per la borghesia». Così ruppe e restituì la tessera.
Quelli delle ultime generazioni hanno fatto appena in tempo a conoscerla e apprezzarla leggendola sul Borghese, settimanale la cui storia aveva finito per coincidere con quella della Preda, attraverso gli articoli ma soprattutto la fitta corrispondenza con un pubblico che l’amava incondizionatamente, eccessi compresi. Una seguitissima rubrica di posta, un dialogo ventennale – dal dicembre ’60 al luglio ’81 – portato avanti senza ammiccamenti né compiacimenti, con la schiettezza di chi sapeva che avere delle opinioni significa non poter piacere a tutti.
Che si trattasse del “suo” pubblico, lo riconoscevano tutti coloro che sul Borghese scrivevano, senza eccezioni. «La più cara al nostro pubblico», così Giuseppe Prezzolini le si rivolse in una lettera del ’72, consapevole di esserle «debitore di una buona parte dei lettori, perché molti leggono me soltanto dopo averla letta e parecchi non mi leggono affatto perché sanno di non poter trovare quello stesso calore e quella forza di sentimenti assoluti che desiderano». Come molti, ne apprezzava la sincerità e il coraggio. Già, perché continue erano le minacce che le giungevano in redazione, in tempi molto più pericolosi di oggi per chi faceva politica “a destra”. Ma non volle mai chiedere una scorta, non avrebbe sopportato di sentirsi parte del mondo dei privilegiati. La sua vita era fatta di tanto lavoro e affetti sacrificati: arrivava in redazione prima dell’alba e ne usciva a sera inoltrata. Corteggiatori pochi (anche se la leggenda vuole che Mario Tedeschi fosse innamorato di lei), un solo marito: l’avvocato Amedeo Predassi. Ufficiale della milizia fascista, nel dopoguerra aderì alla Repubblica Sociale, venne arrestato, processato e infine assolto. Certamente non la corteggiarono i salotti buoni né i giornali dell’establishment, nonostante avesse un talento poliedrico di primissima e riconosciuta qualità. Nei primi anni Cinquanta si era misurata con la sceneggiatura cinematografica, togliendosi la soddisfazione di sbancare il botteghino con Il cantante misterioso (’55). Fu anche apprezzata autrice di copioni per cabaret, affidati alla verve di Oreste Lionello e Luciano Cirri, che aiutò e sostenne nella fondazione del teatro del Bagaglino e poi del Giardino dei Supplizi. Ma la passione più autentica fu quella per il giornalismo.
Giovanissima, aveva esordito nel Giornale dell’Emila (che poi tornò a chiamarsi Il Resto del Carlino) e successivamente sul bolognese Cronache, diretto da Enzo Biagi. Quando da Bologna si trasferì a Roma, iniziò a scrivere per Epoca e il Giornale d’Italia. L’incontro che le cambiò la vita (professionale) fu quello con Leo Longanesi, che nel ’54 la volle al Borghese, il periodico che aveva fondato quattro anni prima, ribattezzandola Gianna Preda e lanciandola nel firmamento giornalistico.
Tra i due romagnoli sanguigni e non-conformisti nacque una collaborazione stretta e proficua. Grazie a Longanesi, la Preda poté esprimersi liberamente e senza condizionamenti. Nel ’57, dopo la sua morte, lei e Mario Tedeschi divennero comproprietari della testata, rispettivamente vice direttore e direttore. Insieme scrissero diversi volumi delle mitiche edizioni de Il Borghese: Guardatevi in faccia. Fotografie senza censura dell’Italia democratica (’58); ABC della Repubblica. Tutto ciò che l’italiano perbene deve sapere e non fare (’59); Almanacco dei vecchi fusti (’63) e Il ventennio della pacchia (’71). Altri suoi libri si svilupparono all’interno della sua attività giornalistica: Il fazioso. Almanacco del Borghese (’60); Il “chi è” del Borghese (’61) e Inseguendo la vita. Vent’anni di domande e risposte tra una giornalista famosa e il suo pubblico (’81). Del ’69 è un bel volume realizzato con disegni della figlia Donatella, C’era una volta Gesù. Album di satira cattolica. Ma l’opera più importante rimane Fiori per io (Sperling & Kupfer, ’81), in cui racconta la sua esperienza di donna di destra, «Un viaggio nel tempo – è scritto nel retro di copertina – dal ventennio fascista al trentennio democratico». Il titolo è ispirato ad una frase pronunciata da Rachele Mussolini ad una Preda ancora bambina. «A meno di sette anni, Donna Rachele era in visita a Coriano. La ricordo minuta e frastornata, con un cappellino blu simile a una cuffia calato fin quasi sugli occhi, celesti come l’acqua chiara. Quando le tesi il fascio di fiori, con un sorriso mi disse: “Grazie piccola. Sono per io questi fiori?”». La Preda notò l’errore, ma la maestra «sostenne che se il duce aveva sempre ragione, la moglie del duce aveva diritto di sbagliare». Forse anche per questo non c’è alcuna traccia di nostalgia o di nostalgismo: «Non ho scritto Fiori per io per ricordare, ma per dimenticare e ricominciare di nuovo a vivere in questa realtà. Ho imparato, attraverso gli anni e le esperienze, che ad un certo momento bisogna avere il coraggio di non guardarsi indietro».
Il libro, uscito ai primi di marzo, riscosse un grandissimo successo, ben oltre i confini abituali della destra, ma a fine aprile scoprì «di essere arrivata alla resa dei conti con la mia salute». Un tumore, «il malaccio», la ammazzò senza sconfiggerla. Il 10 maggio ’81, dopo alcune settimane di silenzio, si rivolse al suo pubblico con un articolo che titolò: «Per fatto personale». Nell’annunciare la malattia, si preoccupò di rassicurare tutti: «Continuerò ad arrabbiarmi sempre di più per le tante storture, iniquità e laide faccende, fors’anche per la paura di non aver tempo di vedere andare a posto qualcosa in questo nostro Paese». Si spense il 7 agosto ‘81 a Ronciglione, in provincia di Viterbo. Mario Tedeschi, che successivamente ne raccolse alcuni degli interventi migliori ne Il meglio di Gianna Preda, illustrato da quell’altro controcorrente che era Giovannino Guareschi, la ricorda così: «Gianna non riusciva mai a sentirsi totalmente disimpegnata, non si chiedeva mai se valesse la pena di combattere certe battaglie, addirittura era indifferente al risultato finale. L’importante, per lei come per me e come per tutti noi, era battersi. E così fece sino all’ultimo, senza illudersi sul mondo che ci stava intorno».

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