Dal Secolo d'Italia di giovedì 19 aprile 2007
Da domani Svalvolati on the road sarà in tutte le sale italiane. Il film, con il titolo originale di Wild Hogs, negli Usa ha registrato e continua a registrare al box office un successo strepitoso: solo nel primo mese di proiezioni ha incassato ben 130 milioni di dollari, risultando il più visto dagli americani. La critica lo ha stroncato: “Trash”. Ma, come il più delle volte accade, il pubblico la pensa diversamente ed accorre in massa a seguire le esilaranti performance sulle due ruote di un John Travolta in bandana, giubbotto di pelle e maglietta nera degli AC/DC. L’attore, nel ruolo di un uomo di «mezza età» che ha appena perso tutto, moglie e lavoro, insieme ai tre amici della “Hogs” di Cincinnati, interpretati da Tim Allen, William H. Macy e Martin Lawrence, inforca la mitica Harley Davidson e si lancia in un viaggio alla “Easy Rider” verso la libertà, alla ricerca di se stesso. Sì, perché il film è dichiaratamente l’esilarante parodia della pellicola del ’69, impreziosita e certificata come tale dal cammeo dell’immarcescibile Peter Fonda, protagonista insieme ad un giovane Jack Nicholson proprio del cult movie diretto da Dennis Hopper, il più famoso film on the road della storia del cinema.
«Amo Easy Rider. L’ho visto al cinema a 14 anni, all’epoca fu un vero fenomeno culturale, rimasi colpito, impressionato, è stato un film di grande impatto, ha detto moltissimo a tante generazioni», John Travolta rivendica la sua passionaccia: «E’ una vita che vado in moto. Ho sposato la mia prima moto nel ’72. In Florida, dove vivo, c’è una grande comunità di motociclisti della domenica, gruppetti di appassionati che nel resto della settimana fanno i lavori più diversi, come i protagonisti del film sono dentisti, tecnici di computer, operai». Per l’attore americano, attento spiritualista ma anche grande appassionato di aeronautica e pilota impenitente (pochi giorni fa, durante uno dei suoi voli, è stato costretto ad un atterraggio di fortuna in Irlanda) l’amore per la velocità non rappresenta una novità, più imbranati si sono dimostrati i suoi colleghi. «Ero quello con più esperienza, tutti gli altri hanno dovuto fare pratica, anch’io mi sono esercitato con loro, ma solo per imparare a viaggiare in formazione». I quattro finiranno per imbattersi in una banda ben più ruvida di motociclisti ipertatuati, i “Des Fuegos”, guidati da un cattivo quanto comico Ray Liotta, e sarà proprio il vecchio Fonda, in perfetta tenuta da motociclista e carismatico come sempre, a tirarli fuori dai guai.
«Peter Fonda è un’icona, sta ai film e al mondo dei motociclisti come io sto alla febbre del sabato sera, con il completo bianco e la camicia nera. Quando compare alla fine del film è come se vent’anni fa fossi comparso io nell’ultima scena di un film sul ballo». Quasi trent’anni fa, ormai. Era il dicembre ’77 quando negli States uscì Saturday night fever, la febbre del sabato sera, film accolto dalla critica come una pellicola di serie B e invece destinato a diventare il manifesto vitalista di una gioventù sempre più insofferente nei confronti del materialismo di sinistra e ormai determinata ad uscire dal decennio dell’ubriacatura ideologica. Venuta meno la velleitaria voglia di cambiare il mondo, si riscopriva il valore dell’individualismo e la voglia di divertirsi, anche ballando, soprattutto ballando. La colonna sonora del film - le melodie dei Bee Gees, che segneranno l’avvento della disco music - diventerà in breve la colonna sonora di tutta una generazione. Canzoni come Night fever, giudicate con distacco e sufficienza dagli esegeti del rock, daranno vita e linfa al popolo delle discoteche. Si sviluppò un vero e proprio fenomeno di massa: il travoltismo e, con esso, i travoltini, neologismi che indicavano tra i giovani la diffusione del modello Tony Manero, per di più italoamericano: scarpe con i tacchi, pantaloni a zampa di elefante, camicia con colletto a punta, rigorosamente sbottonata. Maria Luisa Agnese, in un articolo pubblicato su Panorama del 6 marzo ’79, Freud, Evola e Travolta, fu tra i primi giornalisti a sottolineare la valenza politica di destra del “fenomeno”. Feeling, quello tra Travolta e il pubblico giovanile, che si rafforzò con il film successivo, il romantico Grease (brillantina, ’78) commedia anch’essa destinata a incidere nell’immaginario collettivo più di quanto non abbiano saputo fare i film “impegnati” dell’epoca. Basti pensare come ancora oggi nei teatri di tutto il mondo vadano in scena musical ispirati proprio a Grease. Paradossalmente la carriera di Travolta subì un (lungo) periodo di difficoltà proprio in quegli anni Ottanta il cui spirito libertario era stato alimentato significativamente dai suoi film. L’Italia, come ha detto Giampiero Mughini «voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. Tutti volevano dimenticare i giorni lividi dell’orrore; tutti volevano prendere quel che c’era e prenderlo subito e ne volevano tanto. Tutti volevano indossare delle belle giacche, fare lunghe vacanze, incontrare ragazze che non avessero più l’aria minacciosa dei ’70, ascoltare della musica la più assordante possibile». A sinistra il terrorismo sparava gli ultimi colpi, a destra si avvertiva in maniera definitiva l’esigenza di “uscire dal tunnel del neofascismo”, la nuova destra faceva la sua irruzione sulla scena degli Ottanta, guardando alla letteratura, al cinema e alla musica. Un libro che ha colto efficacemente lo spirito degli anni Ottanta è Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, cult book di Robert M. Pirsig uscito nel ’74 negli Stati Uniti e successivamente in Italia (Adelphi, ‘81). Un tomo di quattrocento pagine che si è fatto leggere da oltre tre milioni di lettori. Nel romanzo, che racconta il viaggio in motocicletta dal Minnesota verso Occidente di un padre con il figlio undicenne, la via della motocicletta rappresenta la via d’uscita ad un modernismo senz’anima: «Abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito. Ci preoccupiamo più di come passiamo il tempo che non di quanto ne impieghiamo per arrivare». Pirsig rigetta alternative di vita neo-bucoliche o derive hippie, e a differenza di certa sinistra reazionaria non rifiuta la tecnologia ma la cavalca senza rinunciare alle peculiarità dello spirito, affrontando la sfida con la modernità come un’avventura, con la stessa incoscienza con cui il motociclista affronta la curva sfiorando l’asfalto con il ginocchio.
E il successo degli Svalvolati conferma - a distanza di tanti anni - la presa sul pubblico di una fascinazione, quella per le due ruote, tanto “antica” da nascere con il futurismo, che fece della sintesi tra macchina e velocità e dell’ansia di modernità la propria ragione di essere. Rimanendo al grande schermo, non a caso, altrettanto successo ha avuto, nelle scorse settimane, il film Ghost Rider, nel quale Nicolas Cage interpreta uno stuntman di motociclette. «Non è solo una tendenza – ha sottolineato Travolta – quello dei motociclisti è uno stile di vita che non ti lascia mai. I ragazzi preferiscono rivedere i film di James Dean, Marlon Brando o, soprattutto Steve McQueen in moto che non quelli con gli eroi western a cavallo. Libertà, spazi, velocità, sogni e motociclette nutrono da sempre la vita Usa e noi volevamo ridere anche del pessimismo di Easy rider». E non si può fare a meno di pensare, in quanto ad icone hard to die, al Marlon Brando de Il Selvaggio (’54), in cui interpreta Johnny, il capobanda dei “Black Rebels”, primo film di successo sul mondo dei motociclisti. La pellicola, firmata da Laszlo Benedek, fece epoca per la rappresentazione di un mondo giovanile insofferente ai valori piccolo borghesi e, ritenuta trasgressiva, venne addirittura proibita - per oltre dieci anni – in Inghilterra. Ma i film nei quali le moto sono protagoniste, né più né meno degli attori, sono tantissimi e i più diversi, da Vacanze romane di William Wyler al Vigile del grandissimo Alberto Sordi. Come cantava Lucio Battisti ne Il tempo di morire: «Motocicletta/dieci HP/tutta cromata/è tua se dici sì/mi costa una vita/per niente la darei/ma ho il cuore malato/e so che guarirei».
«Amo Easy Rider. L’ho visto al cinema a 14 anni, all’epoca fu un vero fenomeno culturale, rimasi colpito, impressionato, è stato un film di grande impatto, ha detto moltissimo a tante generazioni», John Travolta rivendica la sua passionaccia: «E’ una vita che vado in moto. Ho sposato la mia prima moto nel ’72. In Florida, dove vivo, c’è una grande comunità di motociclisti della domenica, gruppetti di appassionati che nel resto della settimana fanno i lavori più diversi, come i protagonisti del film sono dentisti, tecnici di computer, operai». Per l’attore americano, attento spiritualista ma anche grande appassionato di aeronautica e pilota impenitente (pochi giorni fa, durante uno dei suoi voli, è stato costretto ad un atterraggio di fortuna in Irlanda) l’amore per la velocità non rappresenta una novità, più imbranati si sono dimostrati i suoi colleghi. «Ero quello con più esperienza, tutti gli altri hanno dovuto fare pratica, anch’io mi sono esercitato con loro, ma solo per imparare a viaggiare in formazione». I quattro finiranno per imbattersi in una banda ben più ruvida di motociclisti ipertatuati, i “Des Fuegos”, guidati da un cattivo quanto comico Ray Liotta, e sarà proprio il vecchio Fonda, in perfetta tenuta da motociclista e carismatico come sempre, a tirarli fuori dai guai.
«Peter Fonda è un’icona, sta ai film e al mondo dei motociclisti come io sto alla febbre del sabato sera, con il completo bianco e la camicia nera. Quando compare alla fine del film è come se vent’anni fa fossi comparso io nell’ultima scena di un film sul ballo». Quasi trent’anni fa, ormai. Era il dicembre ’77 quando negli States uscì Saturday night fever, la febbre del sabato sera, film accolto dalla critica come una pellicola di serie B e invece destinato a diventare il manifesto vitalista di una gioventù sempre più insofferente nei confronti del materialismo di sinistra e ormai determinata ad uscire dal decennio dell’ubriacatura ideologica. Venuta meno la velleitaria voglia di cambiare il mondo, si riscopriva il valore dell’individualismo e la voglia di divertirsi, anche ballando, soprattutto ballando. La colonna sonora del film - le melodie dei Bee Gees, che segneranno l’avvento della disco music - diventerà in breve la colonna sonora di tutta una generazione. Canzoni come Night fever, giudicate con distacco e sufficienza dagli esegeti del rock, daranno vita e linfa al popolo delle discoteche. Si sviluppò un vero e proprio fenomeno di massa: il travoltismo e, con esso, i travoltini, neologismi che indicavano tra i giovani la diffusione del modello Tony Manero, per di più italoamericano: scarpe con i tacchi, pantaloni a zampa di elefante, camicia con colletto a punta, rigorosamente sbottonata. Maria Luisa Agnese, in un articolo pubblicato su Panorama del 6 marzo ’79, Freud, Evola e Travolta, fu tra i primi giornalisti a sottolineare la valenza politica di destra del “fenomeno”. Feeling, quello tra Travolta e il pubblico giovanile, che si rafforzò con il film successivo, il romantico Grease (brillantina, ’78) commedia anch’essa destinata a incidere nell’immaginario collettivo più di quanto non abbiano saputo fare i film “impegnati” dell’epoca. Basti pensare come ancora oggi nei teatri di tutto il mondo vadano in scena musical ispirati proprio a Grease. Paradossalmente la carriera di Travolta subì un (lungo) periodo di difficoltà proprio in quegli anni Ottanta il cui spirito libertario era stato alimentato significativamente dai suoi film. L’Italia, come ha detto Giampiero Mughini «voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. Tutti volevano dimenticare i giorni lividi dell’orrore; tutti volevano prendere quel che c’era e prenderlo subito e ne volevano tanto. Tutti volevano indossare delle belle giacche, fare lunghe vacanze, incontrare ragazze che non avessero più l’aria minacciosa dei ’70, ascoltare della musica la più assordante possibile». A sinistra il terrorismo sparava gli ultimi colpi, a destra si avvertiva in maniera definitiva l’esigenza di “uscire dal tunnel del neofascismo”, la nuova destra faceva la sua irruzione sulla scena degli Ottanta, guardando alla letteratura, al cinema e alla musica. Un libro che ha colto efficacemente lo spirito degli anni Ottanta è Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, cult book di Robert M. Pirsig uscito nel ’74 negli Stati Uniti e successivamente in Italia (Adelphi, ‘81). Un tomo di quattrocento pagine che si è fatto leggere da oltre tre milioni di lettori. Nel romanzo, che racconta il viaggio in motocicletta dal Minnesota verso Occidente di un padre con il figlio undicenne, la via della motocicletta rappresenta la via d’uscita ad un modernismo senz’anima: «Abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito. Ci preoccupiamo più di come passiamo il tempo che non di quanto ne impieghiamo per arrivare». Pirsig rigetta alternative di vita neo-bucoliche o derive hippie, e a differenza di certa sinistra reazionaria non rifiuta la tecnologia ma la cavalca senza rinunciare alle peculiarità dello spirito, affrontando la sfida con la modernità come un’avventura, con la stessa incoscienza con cui il motociclista affronta la curva sfiorando l’asfalto con il ginocchio.
E il successo degli Svalvolati conferma - a distanza di tanti anni - la presa sul pubblico di una fascinazione, quella per le due ruote, tanto “antica” da nascere con il futurismo, che fece della sintesi tra macchina e velocità e dell’ansia di modernità la propria ragione di essere. Rimanendo al grande schermo, non a caso, altrettanto successo ha avuto, nelle scorse settimane, il film Ghost Rider, nel quale Nicolas Cage interpreta uno stuntman di motociclette. «Non è solo una tendenza – ha sottolineato Travolta – quello dei motociclisti è uno stile di vita che non ti lascia mai. I ragazzi preferiscono rivedere i film di James Dean, Marlon Brando o, soprattutto Steve McQueen in moto che non quelli con gli eroi western a cavallo. Libertà, spazi, velocità, sogni e motociclette nutrono da sempre la vita Usa e noi volevamo ridere anche del pessimismo di Easy rider». E non si può fare a meno di pensare, in quanto ad icone hard to die, al Marlon Brando de Il Selvaggio (’54), in cui interpreta Johnny, il capobanda dei “Black Rebels”, primo film di successo sul mondo dei motociclisti. La pellicola, firmata da Laszlo Benedek, fece epoca per la rappresentazione di un mondo giovanile insofferente ai valori piccolo borghesi e, ritenuta trasgressiva, venne addirittura proibita - per oltre dieci anni – in Inghilterra. Ma i film nei quali le moto sono protagoniste, né più né meno degli attori, sono tantissimi e i più diversi, da Vacanze romane di William Wyler al Vigile del grandissimo Alberto Sordi. Come cantava Lucio Battisti ne Il tempo di morire: «Motocicletta/dieci HP/tutta cromata/è tua se dici sì/mi costa una vita/per niente la darei/ma ho il cuore malato/e so che guarirei».
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