Dal Secolo d'Italia di sabato 14 aprile 2007
Non c’è redazione giornalistica che, all’occorrenza, non l’abbia pronto: l’articolo commemorativo. Sonnecchia nel cassetto o nella non meno polverosa memoria del computer. Giusto il tempo di restituirgli un po’ di colore e il pezzo è in tipografia. Se poi la ricorrenza è di quelle importanti, come i quarant’anni dalla morte di Totò - sopravvenuta il 15 aprile ’67 - l’articolo diventa paginata celebrativa, costringendo gli estensori ad un sforzo supplementare. Non certo per la scarsa quantità delle informazioni. Nel caso dell’immaginifico attore napoletano, semmai, c’è la necessità di sforbiciare, a partire dal nome e dai titoli nobiliari, dal nostro difesi con piglio e determinazione in tribunale. La difficoltà è estrarre una sintesi delle infinite esperienze artistiche di attore, compositore (Malafemmena è sua) e persino poeta (A livella) e ricostruirne il percorso da scugnizzo del rione Sanità - dov’era nato il 15 febbraio del 1898 – a icona della commedia dell’arte e impareggiabile trionfatore del botteghino. Ma soprattutto è impossibile rendere con efficacia l’incredibile presa che il principe della risata aveva e continua ad avere sul pubblico. L’inimitabile mimica di burattino snodabile, la capacità di cogliere meglio di chiunque altro gli umori e i sentimenti della platea, lo hanno reso più che popolare, addirittura familiare per intere generazioni di italiani.
Il rischio, paradossalmente, è che tutti gli articoli, nel riconoscerne la genialità e nel rendergli i dovuti onori, finiscano per assomigliarsi, sorvolando (distrattamente?) sulle diffidenze, se non sull’aperto ostracismo, che buona parte del mondo intellettuale gli riservò ostinatamente per l’intero corso della sua carriera. Non molto tempo fa, quando la serietà era al potere, la critica militante non perdeva occasione per liquidarlo sprezzantemente, negandogli spessore artistico e relegandolo al ruolo di macchiettista, di fenomeno d’avanspettacolo. Ad indispettire, evidentemente, era la popolarità di un attore non catalogabile, dal carattere fieramente irriverente, insofferente nei confronti delle sovrastrutture ideologiche e dei clan culturali, pronto a distinguere con altezzosa ironia tra uomini e “caporali”: «Li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità e l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce di bronzo, pronti a vessare l’uomo qualunque».
L’accusa più ricorrente che gli veniva rivolta era proprio quella di essere un qualunquista, cui rispondeva, a mo’ di pernacchia, con le sue fulminanti battute: «Democrazia vuol dire che ognuno può dire e fare tutte le fesserie che vuole. Siccome sono un democratico, comando io!» Ma ancora più imperdonabile era l’aver messo il suo talento al servizio di un genere, quale la commedia all’italiana, reo di aver seppellito sotto una valanga di risate - sono oltre 270 milioni gli spettatori che hanno riso con i suoi film - le pretese pedagogiche del neorealismo.
«In fondo, bisogna dirlo, per anni la critica di sinistra ha avuto paura del cinema che faceva ridere, lo riteneva superficiale, poco impegnato, quasi fosse un mezzo per fuggire la realtà». E’ quanto affermano Christian Uva e Michele Picchi nel loro Destra e Sinistra nel cinema italiano, film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio (Edizioni Interculturali, 2006). Il libro inizia proprio raccontando, al riguardo, un episodio sintomatico del rapporto, tutt’altro che facile, di Totò con registi di sinistra come Nanny Loy. Giancarlo Governi, totologo per eccellenza, ha raccontato così uno scambio tra l’attore e il regista sardo, che gli aveva affidato un ruolo in un suo film: «Loy si mise a descrivere il personaggio che avrebbe dovuto interpretare con il suo linguaggio, con il sinistrese di allora: “E’ un uomo che vive in maniera conflittuale le contraddizioni del suo tempo, che cerca di prendere coscienza della propria condizione”. “Sì, ma come è vestito?, lo interruppe Totò. Loy continuò: “E’ inserito nel quadro complessivo della lotta di classe…”. “Ma tiene fame o non tiene fame?”, tagliò corto ancora una volta Totò».
Lo stesso Loy ebbe a confessare: «A quel tempo ero imbevuto di tutta la cultura di sinistra dell’epoca, che considerava il comico un genere minore». L’intellettuale - “a prescindere”, parafrasando Totò - era prevenuto verso tutto ciò che è nazionalpopolare e la comicità ne era l’espressione più genuina e universale. Luigi Comencini, il grande regista scomparso lo scorso 6 aprile, se ne era fatto una ragione: «Se i film non sono intellettuali, non sono di sinistra… Ai film popolari, ai film comici, i critici riservano sempre una cattiva accoglienza».
Ciò nonostante, la commedia all’italiana conquistò sul campo il diritto a rappresentare il Paese e di quella stagione lunga, felice e probabilmente irripetibile del cinema italiano, «la cui magia di leggerezza umoristica - ha detto Enrico Vanzina, figlio di Steno - agì nella società italiana come un vaccino contro il malefico germe di un certo tipo di intellettualismo», Totò è stato uno dei protagonisti principali, se non il capostipite ante litteram.
Una comicità dirompente, la sua, difficile da conciliare con il grigiore di una tv in bianco in nero. Il fidanzamento tra il piccolo schermo e Totò finì ancora prima di cominciare, al primo approccio. Il pasticciaccio avvenne nel ’58, in una delle sue primissime apparizioni, ospite de “Il Musichiere”. La popolarissima trasmissione musicale di Garinei & Giovannini, condotta da Mario Riva, rappresentava un vero e proprio avvenimento, da seguire necessariamente nei locali pubblici, giacchè poche erano le famiglie che si erano dotate di quel rivoluzionario elettrodomestico. In quell’occasione Totò, incurante delle possibili conseguenze, si lasciò sfuggire un sincero quanto incauto plauso nei confronti dell’armatore Achille Lauro, all’epoca sindaco di Napoli: «Viva Lauro!»
Parole che lasciarono di stucco il conduttore, mentre l’attore, nient’affatto intimidito, insisteva: «A me piace Lauro…». Totò non poteva scegliere momento peggiore, le elezioni politiche erano quanto mai prossime e la reazione dei dirigenti democristiani della Rai non si fece attendere. Come potevano tollerare che un personaggio famoso come Totò inneggiasse all’esponente monarchico? Così non ci pensarono due volte e lo estromisero fino alla metà degli anni ’60. Ma se oggi per chiunque voglia entrare nel mondo dello spettacolo, improvvisarsi attore di soap o di fiction, la televisione sembra rappresentare - per l’immediata popolarità che offre - la strada obbligata, in quell’Italia ad uno solo canale, al contrario, era la tv di Stato ad avere bisogno del credito popolare di Totò, della sua magneticità nei confronti del pubblico. Nel ’65 venne invitato a Studio Uno, trasmissione scritta da Castellano e Pipolo, accanto a Mina. Ma le cose non andarono meglio: «Non c’è libertà nella nostra televisione. Mi hanno tolto una battuta perché ironizzavo sugli onorevoli». Solo dopo la morte, si scatenò il florilegio di programmi e speciali. E non c’è palinsesto televisivo che non proponga qualche sua celebre pellicola. La 7 propone per l’intera giornata una no-stop di suoi film e l’onnivora festa ottobrina del cinema di Roma si appresta a celebrarlo.
La sua, tuttavia, non fu un’esistenza facile: la lunga gavetta, i dispiaceri familiari, la morte del figlio maschio poche ore dopo la nascita, lo indussero a gettarsi nel lavoro, accettando qulsiasi copione, diventando una vera e propria gallina d’oro per registi e produttori cinematografici. E continuò a lavorare anche quando la grave malattia agli occhi lo rese progressivamente quasi cieco.
Tanto sapeva essere travolgente e incontenibile sul palcoscenico, autentico mattatore, vero maestro del buonumore in scena, tanto era misurato e riservato nella vita privata: «L’attore deve far ridere, ma l’uomo Totò, anzi il principe De Curtis mai, è una persona seria».
Paradossalmente fu proprio un intellettuale di sinistra a “sdoganarlo” e a valorizzarne le capacità di attore drammatico: Pier Paolo Pasolini, tra i primi a rivalutare la cultura “bassa” e popolare, avvalendosi della collaborazione di Totò, ma anche degli “impresentabili” Ciccio e Franco e persino di Tomas Milian. Per l’interpretazione in Uccellacci e uccellini, Totò vinse nel ’66 una Palma d’Oro speciale al Festival di Cannes e un Nastro d’Argento come migliore attore di quell’anno e soprattutto si conquistò definitivamente la stima dei registi più affermati o snob che dir si voglia. Malgrado i riconoscimenti degli ultimi anni, però, non si prese mai troppo sul serio, non salì in cattedra e rimase sempre fedele a se stesso. In una delle ultime interviste, riferendosi al proprio mestiere, disse: «Noi attori siamo venditori di chiacchiere, un falegname vale certo più di noi. Almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui. Se abbiamo successo, al massimo, duriamo una generazione». Sbagliava, ancora oggi sono decine e decine le pizzerie, i ristoranti e soprattutto le scuole e i teatri a lui intitolati: l’ultimo vero gigante della scena.
Il rischio, paradossalmente, è che tutti gli articoli, nel riconoscerne la genialità e nel rendergli i dovuti onori, finiscano per assomigliarsi, sorvolando (distrattamente?) sulle diffidenze, se non sull’aperto ostracismo, che buona parte del mondo intellettuale gli riservò ostinatamente per l’intero corso della sua carriera. Non molto tempo fa, quando la serietà era al potere, la critica militante non perdeva occasione per liquidarlo sprezzantemente, negandogli spessore artistico e relegandolo al ruolo di macchiettista, di fenomeno d’avanspettacolo. Ad indispettire, evidentemente, era la popolarità di un attore non catalogabile, dal carattere fieramente irriverente, insofferente nei confronti delle sovrastrutture ideologiche e dei clan culturali, pronto a distinguere con altezzosa ironia tra uomini e “caporali”: «Li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità e l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce di bronzo, pronti a vessare l’uomo qualunque».
L’accusa più ricorrente che gli veniva rivolta era proprio quella di essere un qualunquista, cui rispondeva, a mo’ di pernacchia, con le sue fulminanti battute: «Democrazia vuol dire che ognuno può dire e fare tutte le fesserie che vuole. Siccome sono un democratico, comando io!» Ma ancora più imperdonabile era l’aver messo il suo talento al servizio di un genere, quale la commedia all’italiana, reo di aver seppellito sotto una valanga di risate - sono oltre 270 milioni gli spettatori che hanno riso con i suoi film - le pretese pedagogiche del neorealismo.
«In fondo, bisogna dirlo, per anni la critica di sinistra ha avuto paura del cinema che faceva ridere, lo riteneva superficiale, poco impegnato, quasi fosse un mezzo per fuggire la realtà». E’ quanto affermano Christian Uva e Michele Picchi nel loro Destra e Sinistra nel cinema italiano, film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio (Edizioni Interculturali, 2006). Il libro inizia proprio raccontando, al riguardo, un episodio sintomatico del rapporto, tutt’altro che facile, di Totò con registi di sinistra come Nanny Loy. Giancarlo Governi, totologo per eccellenza, ha raccontato così uno scambio tra l’attore e il regista sardo, che gli aveva affidato un ruolo in un suo film: «Loy si mise a descrivere il personaggio che avrebbe dovuto interpretare con il suo linguaggio, con il sinistrese di allora: “E’ un uomo che vive in maniera conflittuale le contraddizioni del suo tempo, che cerca di prendere coscienza della propria condizione”. “Sì, ma come è vestito?, lo interruppe Totò. Loy continuò: “E’ inserito nel quadro complessivo della lotta di classe…”. “Ma tiene fame o non tiene fame?”, tagliò corto ancora una volta Totò».
Lo stesso Loy ebbe a confessare: «A quel tempo ero imbevuto di tutta la cultura di sinistra dell’epoca, che considerava il comico un genere minore». L’intellettuale - “a prescindere”, parafrasando Totò - era prevenuto verso tutto ciò che è nazionalpopolare e la comicità ne era l’espressione più genuina e universale. Luigi Comencini, il grande regista scomparso lo scorso 6 aprile, se ne era fatto una ragione: «Se i film non sono intellettuali, non sono di sinistra… Ai film popolari, ai film comici, i critici riservano sempre una cattiva accoglienza».
Ciò nonostante, la commedia all’italiana conquistò sul campo il diritto a rappresentare il Paese e di quella stagione lunga, felice e probabilmente irripetibile del cinema italiano, «la cui magia di leggerezza umoristica - ha detto Enrico Vanzina, figlio di Steno - agì nella società italiana come un vaccino contro il malefico germe di un certo tipo di intellettualismo», Totò è stato uno dei protagonisti principali, se non il capostipite ante litteram.
Una comicità dirompente, la sua, difficile da conciliare con il grigiore di una tv in bianco in nero. Il fidanzamento tra il piccolo schermo e Totò finì ancora prima di cominciare, al primo approccio. Il pasticciaccio avvenne nel ’58, in una delle sue primissime apparizioni, ospite de “Il Musichiere”. La popolarissima trasmissione musicale di Garinei & Giovannini, condotta da Mario Riva, rappresentava un vero e proprio avvenimento, da seguire necessariamente nei locali pubblici, giacchè poche erano le famiglie che si erano dotate di quel rivoluzionario elettrodomestico. In quell’occasione Totò, incurante delle possibili conseguenze, si lasciò sfuggire un sincero quanto incauto plauso nei confronti dell’armatore Achille Lauro, all’epoca sindaco di Napoli: «Viva Lauro!»
Parole che lasciarono di stucco il conduttore, mentre l’attore, nient’affatto intimidito, insisteva: «A me piace Lauro…». Totò non poteva scegliere momento peggiore, le elezioni politiche erano quanto mai prossime e la reazione dei dirigenti democristiani della Rai non si fece attendere. Come potevano tollerare che un personaggio famoso come Totò inneggiasse all’esponente monarchico? Così non ci pensarono due volte e lo estromisero fino alla metà degli anni ’60. Ma se oggi per chiunque voglia entrare nel mondo dello spettacolo, improvvisarsi attore di soap o di fiction, la televisione sembra rappresentare - per l’immediata popolarità che offre - la strada obbligata, in quell’Italia ad uno solo canale, al contrario, era la tv di Stato ad avere bisogno del credito popolare di Totò, della sua magneticità nei confronti del pubblico. Nel ’65 venne invitato a Studio Uno, trasmissione scritta da Castellano e Pipolo, accanto a Mina. Ma le cose non andarono meglio: «Non c’è libertà nella nostra televisione. Mi hanno tolto una battuta perché ironizzavo sugli onorevoli». Solo dopo la morte, si scatenò il florilegio di programmi e speciali. E non c’è palinsesto televisivo che non proponga qualche sua celebre pellicola. La 7 propone per l’intera giornata una no-stop di suoi film e l’onnivora festa ottobrina del cinema di Roma si appresta a celebrarlo.
La sua, tuttavia, non fu un’esistenza facile: la lunga gavetta, i dispiaceri familiari, la morte del figlio maschio poche ore dopo la nascita, lo indussero a gettarsi nel lavoro, accettando qulsiasi copione, diventando una vera e propria gallina d’oro per registi e produttori cinematografici. E continuò a lavorare anche quando la grave malattia agli occhi lo rese progressivamente quasi cieco.
Tanto sapeva essere travolgente e incontenibile sul palcoscenico, autentico mattatore, vero maestro del buonumore in scena, tanto era misurato e riservato nella vita privata: «L’attore deve far ridere, ma l’uomo Totò, anzi il principe De Curtis mai, è una persona seria».
Paradossalmente fu proprio un intellettuale di sinistra a “sdoganarlo” e a valorizzarne le capacità di attore drammatico: Pier Paolo Pasolini, tra i primi a rivalutare la cultura “bassa” e popolare, avvalendosi della collaborazione di Totò, ma anche degli “impresentabili” Ciccio e Franco e persino di Tomas Milian. Per l’interpretazione in Uccellacci e uccellini, Totò vinse nel ’66 una Palma d’Oro speciale al Festival di Cannes e un Nastro d’Argento come migliore attore di quell’anno e soprattutto si conquistò definitivamente la stima dei registi più affermati o snob che dir si voglia. Malgrado i riconoscimenti degli ultimi anni, però, non si prese mai troppo sul serio, non salì in cattedra e rimase sempre fedele a se stesso. In una delle ultime interviste, riferendosi al proprio mestiere, disse: «Noi attori siamo venditori di chiacchiere, un falegname vale certo più di noi. Almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui. Se abbiamo successo, al massimo, duriamo una generazione». Sbagliava, ancora oggi sono decine e decine le pizzerie, i ristoranti e soprattutto le scuole e i teatri a lui intitolati: l’ultimo vero gigante della scena.
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