Dal Secolo d'Italia di venerdì 6 aprile 2007
Dall’ascesa al tonfo in poco più di un lustro, la parabola dei reality show volge al basso. Sembra trascorso un secolo da quando questo format fece la sua trionfale irruzione nei palinsesti, salutato come la strepitosa novità che avrebbe modernizzato la televisione. Una vera e propria rivoluzione annunciata con enfasi. «Alla lunga il cambiamento si vedrà. La tv parruccona anni ’80 è vecchia, non attira nessuno. Si andrà sempre più verso il reality show, c’è bisogno di qualcosa che ci emozioni, che sembri vero». Le parole, gorgoglianti di entusiasmo e risalenti all’ormai lontano 2001, sono di Daria Bignardi, rigorosa conduttrice delle prime due edizioni del “Grande Fratello”.
Il cambiamento, in effetti, si è visto. E non si è fatto neanche attendere troppo. Ma non è stato in meglio. Tanto da far saltare sulla sedia persino un indecisionista come Claudio Petruccioli. Il presidente del cda Rai non ha mostrato dubbi: la causa principale dell’imbarbarimento della nostra televisione, la madre di tutte le volgarità che ne caratterizzano buona parte della programmazione, è proprio il reality. E quel che ne consegue: eserciti di star improvvisate - presunti famosi, nullafacenti, aspiranti veline e selvaggi cowboy della porta accanto - che da anni occupano militarmente ogni spazio televisivo. Rivoluzionario finché si vuole, ma il più delle volte di una noia mortale. La ricetta di Petruccioli è la purga: eliminare i reality per «evitare ricadute anche su altri programmi, con ospiti, riprese e personaggi che ne trasferiscono impronta e stereotipi, diffondendo conformismo e iterazione». La conclusione non lascia scampo: «Se la scelta dell’alt ai reality verrà fatta, sarà possibile migliorare la qualità dei ‘contenitori’, soprattutto quelli pomeridiani». Insomma, se fino ad ora una comparsata non s’è negata a nessuno, popolando i programmi di opinionisti improbabili e starlette spigliate, c’è il rischio di tornare a fare televisione di qualità. O, perlomeno, trasmissioni capaci di fare audience. Perché i numeri parlano chiaro, ammesso che i telespettatori possano essere considerati tali. Salvo eccezioni, i reality fanno flop. Tra uno sbadiglio e l’altro, lo zapping ci ha portato altrove, nonostante la buona volontà di conduttori ipervitaminici dall’apprezzabile energia. Svanita la spontaneità delle prime esperienze, i reality hanno smesso di raccontare la società e il fenomeno sembra destinato a soccombere. Di qui l’amletico dilemma: la fase propulsiva è definitivamente alle spalle o si tratta piuttosto di ridurne dosi e reinventarne contenuti? Sta di fatto che a contendersi gli Oscar del piccolo schermo - in palio nel Rose d’Or Festival, che si terrà a Lucerna dal 5 al 9 maggio - tra le dieci nomination indicate dalla giuria, non c’è un solo prodotto italiano nella categoria reality. Forse perché è più economico adattare format altrui piuttosto che crearne di originali, ma uno sforzo andrebbe fatto, se si vuole offrire una chance al genere.
Reggono solo le corazzate:“GF” e “Isola dei famosi”. E c’è da scommettere che anche “Un, due, tre, stalla”, il nuovo show di canale 5 condotto da Barbara D’Urso, partito con risultati poco incoraggianti, nelle prossime settimane vedrà impennarsi lo share. Perché? E’ stato affidato alle cure di Maria De Filippi, sacerdotessa della televisione italiana, capace di trasformare in oro quel che tocca, l’unica a non essere neanche sfiorata dalla crisi.
Solo una persona, anzi, un “personaggio” potrebbe fare meglio di lei: Alvin Nathan Muggeridge, il trentatreenne anchorman che ha condotto il più grande reality show mai concepito da mente umana, il “Golden Death”, la morte dorata in diretta, lo spettacolo televisivo del secolo, che la sera di Natale ha tenuto inchiodati davanti allo schermo un miliardo di telespettatori in tutto il mondo. No, non l’avete perso. Non l’avete (ancora) letto. Perché Alvin è solo il geniale frutto della fantasia di un giovane scrittore esordiente, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, il cui primo romanzo - in libreria il prossimo 14 aprile (Andai, dentro la notte illuminata, Pequod, euro 15) - racconta senza intellettualismi e moralismi e con una scrittura visionaria, paradossale e godibile, il salto nel vuoto cui sembra destinato in maniera irreversibile il mondo della televisione. Salto nel vuoto, dal traliccio più alto del Golden Gate di San Francisco, che aspetta anche Alex, il giovane protagonista (da VillaFranca, trasposizione letteraria della pugliese Martina Franca), insieme agli altri concorrenti: «Sei prototipi di sconfitti, reclutati tra miliardi di sconfitti, disposti a buttarsi in mare in diretta televisiva interplanetaria ed è questo il miracolo di misticismo postmoderno che sta per realizzarsi nella semitotalità dei salotti intercontinentali». Sei uomini che rimettono il loro destino nelle mani del televoto, pronti a morire per quattrocentomila dollari.
«Questa è gente che vuole passare alla storia» annuncia Alvin presentandoli al pubblico. E l’unico accesso possibile per chi non ha né arte né parte, è la tv. Ne è consapevole anche Alex che - nonostante sia l’unico ad avere una vita e una storia ordinaria, gli altri sono un texano condannato alla sedia elettrica, una coppia di sposi ossessionati dalla tv, un evirato e un malato di aids - è «pronto a morire per rinascere nell’immaginario delle generazioni future. Sarò più alto, sublime, saggio e bello come un dio greco». Perché la tv ha il potere magico di modificare la realtà nel momento stesso in cui dovrebbe testimoniarla, a partire dalle persone che in essa si affacciano.
Testimonial dell’evento tre personaggi “reali” magistralmente ridisegnati da D’Arcangelo: un Saddam Hussein bonario e sornione, applaudito dal pubblico nella sua veste di ospite televisivo normalizzato, una Céline Dion elegantissima e soprattutto lei, Paris Hilton, che fingerà di suicidarsi lanciandosi per prima dal Golden Gate. «Il salto della Hilton doveva servire per convogliare sullo show l’attenzione del pianeta. Sarebbe stata l’apriscatole dell’interesse mondiale».
Su tutti campeggiano la figura e il pensiero di Alvin, «il figlio di Dio o forse Dio in persona» e la sua incrollabile fede nel potere della televisione:«La telecrazia è la vera forma di governo delle società avanzate. Niente è più democratico della tv. Raggiunge chiunque, nessuno escluso. Tutela le minoranze. Più un nucleo sociale è indifeso, più la televisione offre protezione. Parifica ricchi e poveri. In tv tutti fanno le stesse cose e hanno gli stessi desideri. Uguaglianza nei diritti, equa distribuzione e welfare. Non sono questi i capisaldi della democrazia?»
Alvin, a modo suo, è un patriota, un soldato catodico: «La guerra fredda è stata vinta non grazie alla bomba atomica. Che stronzata. Ce l’avevano anche i russi e la Cina. Il socialismo reale su questo pianeta è stato debellato da Fonzi. I telefilm hanno demolito il comunismo. Sul piano del sex appeal non c’era paragone. Ricordi meglio l’approccio storico-materialista di Marx o i telefilm? Sono stati distribuiti in tutto il mondo. Si è creato una specie di effetto domino. Hanno divulgato un modello culturale comprensibile a tutti. Niente progresso o cazzate varie come grandi sistemi. A tutti è stata venduta l’illusione che fosse semplicissimo conseguire il minimo indispensabile per essere felici. Persino un ciccione ributtante, proprietario di una misera ferramenta, come papà Cunningham poteva permettersi una moglie graziosa e devota, un benessere decoroso, dei figli responsabili e una familiare da quindicimila dollari».
E anche il razzismo è stato sconfitto dalla televisione: «E’ stato abbattuto quando si è capito che i negri erano un bel mercato per beni di prima e seconda necessità. Erano già addomesticati a desiderare lo stile di vita dei bianchi. Lasciarli poveri era del tutto antieconomico. Il boom dell’integrazione razziale è Arnold. Negri che potevano vivere come califfi con bianchi straricchi che li adottavano come figli propri. E tutto grazie al liberalismo occidentale, alla solidarietà che consegue alla ricchezza generalizzata e ai benefici del libero mercato». L’ultima grande potenza mondiale – sentenzia Alvin - sono gli States, ma non per le ragioni comunemente addotte. «Perché hanno Elvis Presley e Marilyn Monroe. Con la loro morte hanno creato la percezione ipersimbolica dell’eterna giovinezza, la stessa che cercate voi concorrenti».
Scansiamo un equivoco, quello di D’Arcangelo non è un “instant book” sui reality, scritto frettolosamente per cavalcare l’onda dell’attualità, ma rappresenta, semmai, una divertente quanto mirata allegoria del mondo della televisione nel suo complesso, un lavoro lungo e meticoloso. Classe ’77, Giancarlo, oltre a dimostrarsi un romanziere di talento, è un addetto ai lavori. Studioso di mass media, ha lavorato a lungo in tv.
A Giancarlo chiediamo quanto ci sia di autobiografico nel libro? E ci spiega: «Molto, ma non in senso stretto, è la biografia delle mie piccole ossessioni, c’è soprattutto il mio punto di vista sul materialismo della realtà e il rapporto con l’irrealtà indotta dei reality, determinata da scelte di casting studiate affinché i partecipanti possano interagire e sviluppare dinamiche precostituite. Quello che è più preoccupante, però, è l’omologazione verso il basso del linguaggio televisivo in senso lato».
E, spontaneamente, ci viene anche da chiedere se è davvero così terribile vivere a Martina Franca, tanto da votarsi al suicidio televisivo?
«Se è per questo Martina - spiega D'Arcangelo - è una delle prime città nella classifica europea dei suicidi – ride – ma è l’amore per il mio territorio e il dispiacere per le occasioni perse, e non sto parlando della mancata apertura di un McDonalds, ad avermi fatto scrivere questo libro».
Il cambiamento, in effetti, si è visto. E non si è fatto neanche attendere troppo. Ma non è stato in meglio. Tanto da far saltare sulla sedia persino un indecisionista come Claudio Petruccioli. Il presidente del cda Rai non ha mostrato dubbi: la causa principale dell’imbarbarimento della nostra televisione, la madre di tutte le volgarità che ne caratterizzano buona parte della programmazione, è proprio il reality. E quel che ne consegue: eserciti di star improvvisate - presunti famosi, nullafacenti, aspiranti veline e selvaggi cowboy della porta accanto - che da anni occupano militarmente ogni spazio televisivo. Rivoluzionario finché si vuole, ma il più delle volte di una noia mortale. La ricetta di Petruccioli è la purga: eliminare i reality per «evitare ricadute anche su altri programmi, con ospiti, riprese e personaggi che ne trasferiscono impronta e stereotipi, diffondendo conformismo e iterazione». La conclusione non lascia scampo: «Se la scelta dell’alt ai reality verrà fatta, sarà possibile migliorare la qualità dei ‘contenitori’, soprattutto quelli pomeridiani». Insomma, se fino ad ora una comparsata non s’è negata a nessuno, popolando i programmi di opinionisti improbabili e starlette spigliate, c’è il rischio di tornare a fare televisione di qualità. O, perlomeno, trasmissioni capaci di fare audience. Perché i numeri parlano chiaro, ammesso che i telespettatori possano essere considerati tali. Salvo eccezioni, i reality fanno flop. Tra uno sbadiglio e l’altro, lo zapping ci ha portato altrove, nonostante la buona volontà di conduttori ipervitaminici dall’apprezzabile energia. Svanita la spontaneità delle prime esperienze, i reality hanno smesso di raccontare la società e il fenomeno sembra destinato a soccombere. Di qui l’amletico dilemma: la fase propulsiva è definitivamente alle spalle o si tratta piuttosto di ridurne dosi e reinventarne contenuti? Sta di fatto che a contendersi gli Oscar del piccolo schermo - in palio nel Rose d’Or Festival, che si terrà a Lucerna dal 5 al 9 maggio - tra le dieci nomination indicate dalla giuria, non c’è un solo prodotto italiano nella categoria reality. Forse perché è più economico adattare format altrui piuttosto che crearne di originali, ma uno sforzo andrebbe fatto, se si vuole offrire una chance al genere.
Reggono solo le corazzate:“GF” e “Isola dei famosi”. E c’è da scommettere che anche “Un, due, tre, stalla”, il nuovo show di canale 5 condotto da Barbara D’Urso, partito con risultati poco incoraggianti, nelle prossime settimane vedrà impennarsi lo share. Perché? E’ stato affidato alle cure di Maria De Filippi, sacerdotessa della televisione italiana, capace di trasformare in oro quel che tocca, l’unica a non essere neanche sfiorata dalla crisi.
Solo una persona, anzi, un “personaggio” potrebbe fare meglio di lei: Alvin Nathan Muggeridge, il trentatreenne anchorman che ha condotto il più grande reality show mai concepito da mente umana, il “Golden Death”, la morte dorata in diretta, lo spettacolo televisivo del secolo, che la sera di Natale ha tenuto inchiodati davanti allo schermo un miliardo di telespettatori in tutto il mondo. No, non l’avete perso. Non l’avete (ancora) letto. Perché Alvin è solo il geniale frutto della fantasia di un giovane scrittore esordiente, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, il cui primo romanzo - in libreria il prossimo 14 aprile (Andai, dentro la notte illuminata, Pequod, euro 15) - racconta senza intellettualismi e moralismi e con una scrittura visionaria, paradossale e godibile, il salto nel vuoto cui sembra destinato in maniera irreversibile il mondo della televisione. Salto nel vuoto, dal traliccio più alto del Golden Gate di San Francisco, che aspetta anche Alex, il giovane protagonista (da VillaFranca, trasposizione letteraria della pugliese Martina Franca), insieme agli altri concorrenti: «Sei prototipi di sconfitti, reclutati tra miliardi di sconfitti, disposti a buttarsi in mare in diretta televisiva interplanetaria ed è questo il miracolo di misticismo postmoderno che sta per realizzarsi nella semitotalità dei salotti intercontinentali». Sei uomini che rimettono il loro destino nelle mani del televoto, pronti a morire per quattrocentomila dollari.
«Questa è gente che vuole passare alla storia» annuncia Alvin presentandoli al pubblico. E l’unico accesso possibile per chi non ha né arte né parte, è la tv. Ne è consapevole anche Alex che - nonostante sia l’unico ad avere una vita e una storia ordinaria, gli altri sono un texano condannato alla sedia elettrica, una coppia di sposi ossessionati dalla tv, un evirato e un malato di aids - è «pronto a morire per rinascere nell’immaginario delle generazioni future. Sarò più alto, sublime, saggio e bello come un dio greco». Perché la tv ha il potere magico di modificare la realtà nel momento stesso in cui dovrebbe testimoniarla, a partire dalle persone che in essa si affacciano.
Testimonial dell’evento tre personaggi “reali” magistralmente ridisegnati da D’Arcangelo: un Saddam Hussein bonario e sornione, applaudito dal pubblico nella sua veste di ospite televisivo normalizzato, una Céline Dion elegantissima e soprattutto lei, Paris Hilton, che fingerà di suicidarsi lanciandosi per prima dal Golden Gate. «Il salto della Hilton doveva servire per convogliare sullo show l’attenzione del pianeta. Sarebbe stata l’apriscatole dell’interesse mondiale».
Su tutti campeggiano la figura e il pensiero di Alvin, «il figlio di Dio o forse Dio in persona» e la sua incrollabile fede nel potere della televisione:«La telecrazia è la vera forma di governo delle società avanzate. Niente è più democratico della tv. Raggiunge chiunque, nessuno escluso. Tutela le minoranze. Più un nucleo sociale è indifeso, più la televisione offre protezione. Parifica ricchi e poveri. In tv tutti fanno le stesse cose e hanno gli stessi desideri. Uguaglianza nei diritti, equa distribuzione e welfare. Non sono questi i capisaldi della democrazia?»
Alvin, a modo suo, è un patriota, un soldato catodico: «La guerra fredda è stata vinta non grazie alla bomba atomica. Che stronzata. Ce l’avevano anche i russi e la Cina. Il socialismo reale su questo pianeta è stato debellato da Fonzi. I telefilm hanno demolito il comunismo. Sul piano del sex appeal non c’era paragone. Ricordi meglio l’approccio storico-materialista di Marx o i telefilm? Sono stati distribuiti in tutto il mondo. Si è creato una specie di effetto domino. Hanno divulgato un modello culturale comprensibile a tutti. Niente progresso o cazzate varie come grandi sistemi. A tutti è stata venduta l’illusione che fosse semplicissimo conseguire il minimo indispensabile per essere felici. Persino un ciccione ributtante, proprietario di una misera ferramenta, come papà Cunningham poteva permettersi una moglie graziosa e devota, un benessere decoroso, dei figli responsabili e una familiare da quindicimila dollari».
E anche il razzismo è stato sconfitto dalla televisione: «E’ stato abbattuto quando si è capito che i negri erano un bel mercato per beni di prima e seconda necessità. Erano già addomesticati a desiderare lo stile di vita dei bianchi. Lasciarli poveri era del tutto antieconomico. Il boom dell’integrazione razziale è Arnold. Negri che potevano vivere come califfi con bianchi straricchi che li adottavano come figli propri. E tutto grazie al liberalismo occidentale, alla solidarietà che consegue alla ricchezza generalizzata e ai benefici del libero mercato». L’ultima grande potenza mondiale – sentenzia Alvin - sono gli States, ma non per le ragioni comunemente addotte. «Perché hanno Elvis Presley e Marilyn Monroe. Con la loro morte hanno creato la percezione ipersimbolica dell’eterna giovinezza, la stessa che cercate voi concorrenti».
Scansiamo un equivoco, quello di D’Arcangelo non è un “instant book” sui reality, scritto frettolosamente per cavalcare l’onda dell’attualità, ma rappresenta, semmai, una divertente quanto mirata allegoria del mondo della televisione nel suo complesso, un lavoro lungo e meticoloso. Classe ’77, Giancarlo, oltre a dimostrarsi un romanziere di talento, è un addetto ai lavori. Studioso di mass media, ha lavorato a lungo in tv.
A Giancarlo chiediamo quanto ci sia di autobiografico nel libro? E ci spiega: «Molto, ma non in senso stretto, è la biografia delle mie piccole ossessioni, c’è soprattutto il mio punto di vista sul materialismo della realtà e il rapporto con l’irrealtà indotta dei reality, determinata da scelte di casting studiate affinché i partecipanti possano interagire e sviluppare dinamiche precostituite. Quello che è più preoccupante, però, è l’omologazione verso il basso del linguaggio televisivo in senso lato».
E, spontaneamente, ci viene anche da chiedere se è davvero così terribile vivere a Martina Franca, tanto da votarsi al suicidio televisivo?
«Se è per questo Martina - spiega D'Arcangelo - è una delle prime città nella classifica europea dei suicidi – ride – ma è l’amore per il mio territorio e il dispiacere per le occasioni perse, e non sto parlando della mancata apertura di un McDonalds, ad avermi fatto scrivere questo libro».
Ma c'è anche qualcos'altro da chiedergli: ti senti uno scrittore impegnato o un narratore puro? Te lo chiedo perché sembra una questione di importanza fondamentale per la maggior parte dei critici…
Lui confessa: «Vorrei essere un corsaro. Non è importante se le storie sono inventate o nascono dal vissuto degli autori, il più delle volte sono un mix, l’importante è non perdere di vista l’attualità».
Lui confessa: «Vorrei essere un corsaro. Non è importante se le storie sono inventate o nascono dal vissuto degli autori, il più delle volte sono un mix, l’importante è non perdere di vista l’attualità».
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