Dal Secolo d'Italia di venerdì 30 marzo 2007
«Life is now». Parola di “ringhio” Gattuso e “pupone” Totti. Chissà se ad Ann Moore, direttore esecutivo del gruppo Time, lo spot tormentone della Vodafone è mai passato davanti agli occhi. Ci auguriamo di no. Oltre al danno anche la beffa, avrebbe pensato prima di annunciare la chiusura - stavolta definitiva - della mitica testata a stelle e strisce, sconfitta dall’insostenibile pesantezza dei costi della carta e dall’invadenza onnivora della televisione. Una resa che non sorprende più di tanto. Non gli addetti ai lavori, alle prese con la crisi che investe l’intero mondo della stampa. Sulla base delle stesse considerazioni, non molto tempo fa, persino Arthur Sulzberger, editore del New York Times, ha paventato la possibilità che il più prestigioso quotidiano statunitense rinunci entro cinque anni alla costosa edizione cartacea per puntare su quella online, sottolineando come il numero dei “contatti” aumenti progressivamente rispetto al numero (meno confortante) dei lettori tradizionali. Ritirata - dall’edicola al web - che Life, invece, ha già fissato per il prossimo 20 aprile, data in cui uscirà l’ultimo numero della storica rivista. Dopodichè continuerà a pubblicare, ma solo come casa editrice. Nella versione rinnovata del sito, in allestimento, rimarrà accessibile lo sterminato quanto prezioso patrimonio fotografico: settant’anni di scatti, un archivio da dieci milioni di fotografie, in larga parte inedite.
Fondata da Henry Luce come settimanale nel novembre ’36, Life subì una prima battuta d’arresto nel ’72. Un lungo “stop and go” durato sino al ’78, quando riprese le pubblicazioni con periodicità mensile. Nel 2000 un’altra interruzione, sintomatica di un declino irreversibile culminato nel 2004 con la trasformazione in allegato senza particolari pretese, una ventina di pagine infarcite soprattutto da interviste glamour alle celebrità. Da allora il destino dello storico magazine era legato alle sorti (alle vendite, per essere chiari) di 103 quotidiani americani. Un’onta per la rivista illustrata che ha raccontato meglio di chiunque altro oltre mezzo secolo d’America, dall’uscita dalla depressione sino e oltre gli eventi tragici dell’11 settembre. Sicuramente la più rivoluzionaria del Novecento per l’uso assolutamente innovativo della fotografia, della comunicazione per immagini, capace di segnare il primo passo, in un’accelerazione che non conosce soste, verso una globalizzazione dell’informazione che in quel lontano periodo era semplicemente impensabile.
Se c’è un aggettivo per definire la Life degli inizi è soprattutto la grandezza: grandi disponibilità economiche, grandi firme (su tutti il grande Ernst Hemingway), grandi fotografi e soprattutto grandi ambizioni. «Raccontare il volto dei poveri e i gesti dei potenti; vedere la vita, vedere il mondo; sempre in prima linea», questo il manifesto programmatico - ampiamente realizzato - di quel geniaccio di Luce. E soprattutto farlo in maniera nuova, come nessuno aveva mai fatto, affiancando alla fragilità e alla retorica spesso vuota delle parole la forza dirompente delle immagini raccolte direttamente sul campo, nella consapevolezza che una singola immagine può dire molto di più di tante parole. Una scelta che cambierà il modo stesso di fare reportage giornalistici e risulterà vincente. Se la vita di un quotidiano si esaurisce in un solo giorno e le notizie che contiene invecchiano ancor prima, le immagini di Life - prima in bianco e nero e poi a colori - rimangono immortali e a distanza di decine di anni continuano a incantare il mondo con la stessa magia. Tantissime quelle memorabili: dallo sbarco in Normandia fotografato da Robert Capa - che morirà nel ‘54, quarantenne, mettendo il piede su una mina in Vietnam - alla Corea di David Douglas Duncan, dall’appassionato bacio in Times Square nel ’45 tra un’infermiera e un marinaio colto da Alfred Eisenstaedt agli austronauti di Ralph Morse. Life ha accompagnato per mano il lettore in luoghi lontanissimi e prima di allora sconosciuti, addirittura sulla luna, ha portato l’atrocità dei conflitti nelle case di tutti. Ma ha anche documentato la cultura e il costume dell’occidente, passando con disinvoltura dal Vietnam ai ritratti dei personaggi famosi, dai miti di ieri, Liz Taylor, Greta Garbo, Fred Astaire e Marilyn Monroe su tutti, a quelli più recenti, dalla bellissima Gwynet Paltrow all’anticonformista Lady Diana sino al maghetto più amato dagli adolescenti: Harry Potter. Il tutto senza trascurare le vicende meno “patinate”, la gente qualunque, le persone semplici, l’America sommersa e contadina: veri e propri “saggi fotografici” come quello sul medico di campagna di Eugene Smith.
Life ebbe il suo maggior successo negli anni ’50 e ‘60, contagiando di sé il giornalismo mondiale. Leo Longanesi, da curioso esploratore dell’immaginario qual era, ne trasse l’ispirazione per tratteggiare le sue magnifiche creature: Omnibus e il Borghese. Parliamo di un’epoca diversa da quella attuale, quando i fotografi usavano la macchina fotografica per rappresentare la storia, talora per incidere sull’attualità, non per ricattare il politico di turno. Robert Capa amava ripetere: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, è perché non sei abbastanza vicino». Non acquattato dentro l’auto come un guardone molesto per alimentare la gossiperia più trash. Life ha cominciato a perdere colpi (e lettori) proprio con il proliferare incontrollato dei canali televisivi, delle pay tv che “sfornano” informazione a ciclo continuato, e il conseguente bombardamento di immagini indiscriminate. La rivista patinata per eccellenza si ricongiunge così al secolo cui appartiene, il Novecento, e dal quale non le è stato possibile separare il proprio destino. Del resto era irriconoscibile nell’attuale versione dimessa, nell’imbarazzante veste a “panino” nei quotidiani e surclassata da riviste, come Parade e Usa weekend, di minore qualità ma più rispondenti alle esigenze di mercato. Un “mercato” che guarda altrove. Oggi la novità è rappresentata - semmai - da Second Life, la comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana Lindeb Lab, nella quale non c’è spazio per la realtà ma solo per l’evasione, un mondo nel quale gli utenti - cinque milioni, ma in crescita esponenziale - si dotano di una nuova identità completa e di un look personalizzati, si scelgono un lavoro, vendono e comprano terreni e sviluppano attività.
E anche l’informazione - fuori dagli studi di parrucchiere e dentisti, dove prendono polvere rivistine d’ogni genere - corre con l’alta velocità. Chiunque può produrne e condividerla in un istante, in un click. Basti pensare al successo planetario di YouTube: 20 milioni di visitatori al mese, 65 mila video inseriti ogni giorno online, con estrema facilità, da chiunque voglia comunicare qualcosa o semplicemente farsi pubblicità. Il sito, ideato dallo statunitense Chad Hurley - classe ’77 - è arrivato a valere ben 1,23 miliardi di euro e, da fenomeno di massa qual è, sta costringendo persino i leader politici a ripensare il proprio modo di comunicare, tanto da spingerli a “concorrere” su YouTube con video che documentano il loro lavoro, i risultati prodotti dalle amministrazioni che dirigono, i loro progetti per il futuro e anche il “personale”, capace di sviluppare empatia e calamitare consensi. Il futuro è nella interattività, nel dialogo in tempo reale con il pubblico, decisamente più affidabile - oltre che veloce - di ogni sondaggio.
«Life is yesterday», purtroppo. Il Novecento è tramontato, con le sue luci e le sue ombre. E a noi non rimane che andarlo a “rileggere” sul http://www.life.com/, per ora accontentandoci delle mitiche copertine.
Fondata da Henry Luce come settimanale nel novembre ’36, Life subì una prima battuta d’arresto nel ’72. Un lungo “stop and go” durato sino al ’78, quando riprese le pubblicazioni con periodicità mensile. Nel 2000 un’altra interruzione, sintomatica di un declino irreversibile culminato nel 2004 con la trasformazione in allegato senza particolari pretese, una ventina di pagine infarcite soprattutto da interviste glamour alle celebrità. Da allora il destino dello storico magazine era legato alle sorti (alle vendite, per essere chiari) di 103 quotidiani americani. Un’onta per la rivista illustrata che ha raccontato meglio di chiunque altro oltre mezzo secolo d’America, dall’uscita dalla depressione sino e oltre gli eventi tragici dell’11 settembre. Sicuramente la più rivoluzionaria del Novecento per l’uso assolutamente innovativo della fotografia, della comunicazione per immagini, capace di segnare il primo passo, in un’accelerazione che non conosce soste, verso una globalizzazione dell’informazione che in quel lontano periodo era semplicemente impensabile.
Se c’è un aggettivo per definire la Life degli inizi è soprattutto la grandezza: grandi disponibilità economiche, grandi firme (su tutti il grande Ernst Hemingway), grandi fotografi e soprattutto grandi ambizioni. «Raccontare il volto dei poveri e i gesti dei potenti; vedere la vita, vedere il mondo; sempre in prima linea», questo il manifesto programmatico - ampiamente realizzato - di quel geniaccio di Luce. E soprattutto farlo in maniera nuova, come nessuno aveva mai fatto, affiancando alla fragilità e alla retorica spesso vuota delle parole la forza dirompente delle immagini raccolte direttamente sul campo, nella consapevolezza che una singola immagine può dire molto di più di tante parole. Una scelta che cambierà il modo stesso di fare reportage giornalistici e risulterà vincente. Se la vita di un quotidiano si esaurisce in un solo giorno e le notizie che contiene invecchiano ancor prima, le immagini di Life - prima in bianco e nero e poi a colori - rimangono immortali e a distanza di decine di anni continuano a incantare il mondo con la stessa magia. Tantissime quelle memorabili: dallo sbarco in Normandia fotografato da Robert Capa - che morirà nel ‘54, quarantenne, mettendo il piede su una mina in Vietnam - alla Corea di David Douglas Duncan, dall’appassionato bacio in Times Square nel ’45 tra un’infermiera e un marinaio colto da Alfred Eisenstaedt agli austronauti di Ralph Morse. Life ha accompagnato per mano il lettore in luoghi lontanissimi e prima di allora sconosciuti, addirittura sulla luna, ha portato l’atrocità dei conflitti nelle case di tutti. Ma ha anche documentato la cultura e il costume dell’occidente, passando con disinvoltura dal Vietnam ai ritratti dei personaggi famosi, dai miti di ieri, Liz Taylor, Greta Garbo, Fred Astaire e Marilyn Monroe su tutti, a quelli più recenti, dalla bellissima Gwynet Paltrow all’anticonformista Lady Diana sino al maghetto più amato dagli adolescenti: Harry Potter. Il tutto senza trascurare le vicende meno “patinate”, la gente qualunque, le persone semplici, l’America sommersa e contadina: veri e propri “saggi fotografici” come quello sul medico di campagna di Eugene Smith.
Life ebbe il suo maggior successo negli anni ’50 e ‘60, contagiando di sé il giornalismo mondiale. Leo Longanesi, da curioso esploratore dell’immaginario qual era, ne trasse l’ispirazione per tratteggiare le sue magnifiche creature: Omnibus e il Borghese. Parliamo di un’epoca diversa da quella attuale, quando i fotografi usavano la macchina fotografica per rappresentare la storia, talora per incidere sull’attualità, non per ricattare il politico di turno. Robert Capa amava ripetere: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, è perché non sei abbastanza vicino». Non acquattato dentro l’auto come un guardone molesto per alimentare la gossiperia più trash. Life ha cominciato a perdere colpi (e lettori) proprio con il proliferare incontrollato dei canali televisivi, delle pay tv che “sfornano” informazione a ciclo continuato, e il conseguente bombardamento di immagini indiscriminate. La rivista patinata per eccellenza si ricongiunge così al secolo cui appartiene, il Novecento, e dal quale non le è stato possibile separare il proprio destino. Del resto era irriconoscibile nell’attuale versione dimessa, nell’imbarazzante veste a “panino” nei quotidiani e surclassata da riviste, come Parade e Usa weekend, di minore qualità ma più rispondenti alle esigenze di mercato. Un “mercato” che guarda altrove. Oggi la novità è rappresentata - semmai - da Second Life, la comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana Lindeb Lab, nella quale non c’è spazio per la realtà ma solo per l’evasione, un mondo nel quale gli utenti - cinque milioni, ma in crescita esponenziale - si dotano di una nuova identità completa e di un look personalizzati, si scelgono un lavoro, vendono e comprano terreni e sviluppano attività.
E anche l’informazione - fuori dagli studi di parrucchiere e dentisti, dove prendono polvere rivistine d’ogni genere - corre con l’alta velocità. Chiunque può produrne e condividerla in un istante, in un click. Basti pensare al successo planetario di YouTube: 20 milioni di visitatori al mese, 65 mila video inseriti ogni giorno online, con estrema facilità, da chiunque voglia comunicare qualcosa o semplicemente farsi pubblicità. Il sito, ideato dallo statunitense Chad Hurley - classe ’77 - è arrivato a valere ben 1,23 miliardi di euro e, da fenomeno di massa qual è, sta costringendo persino i leader politici a ripensare il proprio modo di comunicare, tanto da spingerli a “concorrere” su YouTube con video che documentano il loro lavoro, i risultati prodotti dalle amministrazioni che dirigono, i loro progetti per il futuro e anche il “personale”, capace di sviluppare empatia e calamitare consensi. Il futuro è nella interattività, nel dialogo in tempo reale con il pubblico, decisamente più affidabile - oltre che veloce - di ogni sondaggio.
«Life is yesterday», purtroppo. Il Novecento è tramontato, con le sue luci e le sue ombre. E a noi non rimane che andarlo a “rileggere” sul http://www.life.com/, per ora accontentandoci delle mitiche copertine.
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