Dal Secolo d'Italia di giovedì 12 luglio 2007
Per analizzarne la psicologia hanno scomodato Aristotele e Kant. Per doppiarli si sono rivolti a star del calibro di Danny De Vito e Liz Taylor, Meryl Streep e Donald Sutherland. La loro stella brilla nella Walk of Fame di Hollywood dedicata alle leggende dello spettacolo. Sono un fenomeno di costume che da venti anni entra nelle case dei cittadini di oltre 90 paesi con un pubblico di 100 milioni di spettatori. Hanno influenzato lo slang giovanile, e non solo, con le esclamazioni “D’oh!”, “Mitico!”, “Ciucciati il calzino!”. Stiamo parlando dei Simpson, la famiglia americana più conosciuta al mondo. Più dei Clinton e dei Kennedy. L’idea di realizzare un film sulla sgangherata compagine di Springfield era nell’aria da tempo ed era stata annunciata e rinviata varie volte. Finalmente l’ora è scoccata: il 27 luglio i Simpson sbarcheranno anche al cinema con un lungometraggio tutto dedicato a loro. Nelle sale italiane arriverà il 21 settembre ma, nell’attesa, i fan stanno facendo a gara per scaricare da internet il trailer di The Simpson Movie, di cui una parte domenica viene presentata in anteprima al Giffoni Film Festival. Creati nell’87 dalla matita di Matt Groening, con 400 episodi sono la serie statunitense di prima serata più longeva del piccolo schermo. Le strisce inizialmente trovarono ospitalità nel Tracey Ullman Show, finché – grazie al crescente successo di pubblico – si guadagnarono un proprio spazio. Nel 1991 Canale 5 li accolse per la prima volta e, da allora, Mediaset se li è tenuti ben stretti, così come la Fox del tycoon Rupert Murdoch che ne deteniene i diritti e ne cura la messa in onda. Nel frattempo negli Usa cominciavano ad arrivare i primi successi sotto forma degli Emmy Awards, gli Oscar della televisione, e assieme ai premi si assisteva ad una vera e propria mania su scala internazionale.
Per i pochi e sfortunati che non ne siano stati contagiati, riassumiamo le caratteristiche dei protagonisti del cartone animato (cui Groening ha dato i nomi dei propri parenti). Homer, il capofamiglia, è addetto alla sicurezza nella centrale termonucleare di proprietà del perfido signor Burns. I suoi passatempi preferiti sono stare sdraiato sul divano a vedere programmi trash ingozzandosi delle peggiori schifezze e fare il pieno di birra Duff nel locale di Boe in compagnia dei suoi amici, tra cui lo sfaccendato ubriacone Barney che si esprime quasi esclusivamente a rumori corporei. La sua filosofia l’ha riassunta Groening in un’intervista: «he wants what he wants», vuole ciò che vuole, e tanto gli basta. È autore delle famigerate “homerate” che, nel linguaggio del dizionario di Springfield, sono quelle azioni fortunose «che vengono praticate con assoluta inconsapevolezza e si concretizzano con un risultato vincente». Marge, la premurosa moglie casalinga, ha una caratteristica chioma blu elettrico alta un metro e due velenose sorelle, zitellone e incallite fumatrici, in guerra con tutto il mondo, a cominciare da Homer. Lisa, la primogenita, è una scolara modello: intelligente e sensibile, ha innate doti artistiche che coltiva suonando il suo adorato sassofono. Ha provato ad istituire, in città, un “governo dei migliori” ma si è dovuta arrendere perché si è resa conto che talvolta «i più intelligenti possono essere i più infantili». Il figlio maschio Bart – anagramma del termine brat, monello, l’unico nome frutto della fantasia del disegnatore di Portland – è un discolo impenitente che ad ogni puntata ne combina una (ed anche qualcuna in più). Perennemente a rischio espulsione dalla scuola che frequenta – i suoi scherzi diabolici colpiscono, democraticamente, tanto i suoi compagni quanto il preside Skinner – è il classico esempio di bullo per il quale in Italia si scomoderebbero sociologi e associazioni di genitori. Ma poiché Springfield non è Palermo – e lì la giustizia è assicurata non da zelanti pubblici ministeri ma dal superficiale commissario Winchester – sconta le sue colpe scrivendo sulla lavagna cento volte le frasi che gli assegna l’insegnante. Ad ogni occasione diverse, aprono la sigla dell’episodio, paradossali e divertenti come tutto il cartoon: «Non istigherò alla rivoluzione», «non sono autorizzato a licenziare i supplenti» compila Bart diligentemente ed apparentemente contrito ma, al suono della campanella, fa volare per aria il gessetto e fugge a tutto gas sul suo skateboard creando il panico in mezzo al traffico. Neanche stavolta la lezione è servita. E poi c’è Maggie, l’ultima arrivata: un anno appena, tutta ciuccio, coccole e tv.
Ma attorno alla famiglia si muovono anche altri personaggi singolari: dal reverendo Lovejoy, un sacerdote più incline a dare consigli dettati dal buonsenso che a dispensare penitenze, ai Flanders, i puritani bacchettoni vicini di casa che accettano con remissiva pazienza gli scherni di Homer e Bart; da Krusty il clown, che sorridente e brillante conduce uno spettacolo seguitissimo dai bambini ma che, a riflettori spenti, torna alle sue manie depressive e al gioco d’azzardo, a Smithers, l’assistente di mr. Burns, servizievole a tal punto da generare sospetti circa i suoi gusti sessuali; da Milhouse, l’occhialuto ed imbranato compagno di classe di Bart, a Nelson, ras manesco e terrore dell’intera scuola elementare. Come è facile notare, quindi, non ci sono supereroi a Springfield, né esempi di particolare virtù, c’è solo il mondo così come è intorno a noi, dove nessuno è perfetto. I Simpson, infatti, sono una rappresentazione – caustica ma molto vicina alla realtà – della complessa e variopinta società americana (ma potremmo dire occidentale), dei suoi vizi, dei suoi perbenismi, delle sue contraddizioni. Una critica a trecentosessanta gradi che non ha fa sconti: Claudio Borgognoni, sul sito Left Wing, ha sostenuto che «nella Springfield del duemila, in cui esistono anche i sentimenti e la solidarietà, non c’è posto per la retorica buonista – no, non vedremo mai Bart aiutare una vecchietta ad attraversare la strada». Allo stesso modo non vengono risparmiati il rutilante e subdolo mondo della pubblicità (che genera i peggiori consumi con messaggi subliminali), le lobby delle armi, la politica, la religione, l’impegno sociale, l’etica del lavoro. Però c’è anche tanto affetto e una massiccia dose di complicità familiare in casa-Simpson, come fa rilevare Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e leader di Azione Giovani, la quale ritiene che «nonostante tutto il loro è un esempio positivo: parlano la lingua della gente comune e non si fanno scrupoli di mettere in ridicolo i feticci del politicamente corretto». Anche Ignazio La Russa – unico politico italiano invitato a dare la propria voce ad un protagonista della sit-com (il diabolico Garth della puntata «Dolce e amara Marge») – ha confessato la propria passione per gli omini gialli: «Sono cattivi, ma simpatici ed intelligenti». La Simpson-mania ha dato luogo anche ad una ampia produzione saggistica: da segnalare, tra i tanti, il curioso I Simpson e la filosofia (isbn edizioni, 2005, pp. 336, euro 17) a cura di William Irwin, Mark T. Conrad e Aeon J. Skoble, tre docenti universitari che si sono divertiti a fare parallelismi tra i membri della famiglia e i maggiori pensatori della storia: se Lisa ha virtù socratiche, Bart – manco a dirlo – incarna il perfetto esempio del tipo nietzscheano, nichilista e distruttore di certezze. Vent’anni dopo il “camerata Linus” di Gianfranco de Turris, quindi, ecco a voi il “camerata Bart”, una nuova icona per il non-conformista irriverente. E sì, perché proprio i Simpson sembrano in grado di riempire il vuoto lasciato dai Peanuts di Charles Schultz, scomparsi assieme al loro ideatore sul finire del Novecento. L’ironico disincanto nei confronti della modernità di Charlie Brown e soci rivive, riveduto e (s)corretto, a Springfield. Se solo avessero incrociato le loro strade – anche in una sola strip, anche per un solo fotogramma – si sarebbero riconosciuti, salutati, voluti bene. Avrebbero stretto amicizia tra di loro e avrebbero coinvolto nella loro scomoda, inattuale, insolita compagnia anche i Griffin e persino quei ragazzacci di South Park. Perché loro lo sanno. Sanno che – tra intellettuali aggrappati alle gonnelle del potere di turno e mezzi di comunicazione embadded – se non moriremo omologati, alla fine, lo dovremo agli ultimi irriducibili paladini della cultura popolare: i cartoni animati.
Per i pochi e sfortunati che non ne siano stati contagiati, riassumiamo le caratteristiche dei protagonisti del cartone animato (cui Groening ha dato i nomi dei propri parenti). Homer, il capofamiglia, è addetto alla sicurezza nella centrale termonucleare di proprietà del perfido signor Burns. I suoi passatempi preferiti sono stare sdraiato sul divano a vedere programmi trash ingozzandosi delle peggiori schifezze e fare il pieno di birra Duff nel locale di Boe in compagnia dei suoi amici, tra cui lo sfaccendato ubriacone Barney che si esprime quasi esclusivamente a rumori corporei. La sua filosofia l’ha riassunta Groening in un’intervista: «he wants what he wants», vuole ciò che vuole, e tanto gli basta. È autore delle famigerate “homerate” che, nel linguaggio del dizionario di Springfield, sono quelle azioni fortunose «che vengono praticate con assoluta inconsapevolezza e si concretizzano con un risultato vincente». Marge, la premurosa moglie casalinga, ha una caratteristica chioma blu elettrico alta un metro e due velenose sorelle, zitellone e incallite fumatrici, in guerra con tutto il mondo, a cominciare da Homer. Lisa, la primogenita, è una scolara modello: intelligente e sensibile, ha innate doti artistiche che coltiva suonando il suo adorato sassofono. Ha provato ad istituire, in città, un “governo dei migliori” ma si è dovuta arrendere perché si è resa conto che talvolta «i più intelligenti possono essere i più infantili». Il figlio maschio Bart – anagramma del termine brat, monello, l’unico nome frutto della fantasia del disegnatore di Portland – è un discolo impenitente che ad ogni puntata ne combina una (ed anche qualcuna in più). Perennemente a rischio espulsione dalla scuola che frequenta – i suoi scherzi diabolici colpiscono, democraticamente, tanto i suoi compagni quanto il preside Skinner – è il classico esempio di bullo per il quale in Italia si scomoderebbero sociologi e associazioni di genitori. Ma poiché Springfield non è Palermo – e lì la giustizia è assicurata non da zelanti pubblici ministeri ma dal superficiale commissario Winchester – sconta le sue colpe scrivendo sulla lavagna cento volte le frasi che gli assegna l’insegnante. Ad ogni occasione diverse, aprono la sigla dell’episodio, paradossali e divertenti come tutto il cartoon: «Non istigherò alla rivoluzione», «non sono autorizzato a licenziare i supplenti» compila Bart diligentemente ed apparentemente contrito ma, al suono della campanella, fa volare per aria il gessetto e fugge a tutto gas sul suo skateboard creando il panico in mezzo al traffico. Neanche stavolta la lezione è servita. E poi c’è Maggie, l’ultima arrivata: un anno appena, tutta ciuccio, coccole e tv.
Ma attorno alla famiglia si muovono anche altri personaggi singolari: dal reverendo Lovejoy, un sacerdote più incline a dare consigli dettati dal buonsenso che a dispensare penitenze, ai Flanders, i puritani bacchettoni vicini di casa che accettano con remissiva pazienza gli scherni di Homer e Bart; da Krusty il clown, che sorridente e brillante conduce uno spettacolo seguitissimo dai bambini ma che, a riflettori spenti, torna alle sue manie depressive e al gioco d’azzardo, a Smithers, l’assistente di mr. Burns, servizievole a tal punto da generare sospetti circa i suoi gusti sessuali; da Milhouse, l’occhialuto ed imbranato compagno di classe di Bart, a Nelson, ras manesco e terrore dell’intera scuola elementare. Come è facile notare, quindi, non ci sono supereroi a Springfield, né esempi di particolare virtù, c’è solo il mondo così come è intorno a noi, dove nessuno è perfetto. I Simpson, infatti, sono una rappresentazione – caustica ma molto vicina alla realtà – della complessa e variopinta società americana (ma potremmo dire occidentale), dei suoi vizi, dei suoi perbenismi, delle sue contraddizioni. Una critica a trecentosessanta gradi che non ha fa sconti: Claudio Borgognoni, sul sito Left Wing, ha sostenuto che «nella Springfield del duemila, in cui esistono anche i sentimenti e la solidarietà, non c’è posto per la retorica buonista – no, non vedremo mai Bart aiutare una vecchietta ad attraversare la strada». Allo stesso modo non vengono risparmiati il rutilante e subdolo mondo della pubblicità (che genera i peggiori consumi con messaggi subliminali), le lobby delle armi, la politica, la religione, l’impegno sociale, l’etica del lavoro. Però c’è anche tanto affetto e una massiccia dose di complicità familiare in casa-Simpson, come fa rilevare Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e leader di Azione Giovani, la quale ritiene che «nonostante tutto il loro è un esempio positivo: parlano la lingua della gente comune e non si fanno scrupoli di mettere in ridicolo i feticci del politicamente corretto». Anche Ignazio La Russa – unico politico italiano invitato a dare la propria voce ad un protagonista della sit-com (il diabolico Garth della puntata «Dolce e amara Marge») – ha confessato la propria passione per gli omini gialli: «Sono cattivi, ma simpatici ed intelligenti». La Simpson-mania ha dato luogo anche ad una ampia produzione saggistica: da segnalare, tra i tanti, il curioso I Simpson e la filosofia (isbn edizioni, 2005, pp. 336, euro 17) a cura di William Irwin, Mark T. Conrad e Aeon J. Skoble, tre docenti universitari che si sono divertiti a fare parallelismi tra i membri della famiglia e i maggiori pensatori della storia: se Lisa ha virtù socratiche, Bart – manco a dirlo – incarna il perfetto esempio del tipo nietzscheano, nichilista e distruttore di certezze. Vent’anni dopo il “camerata Linus” di Gianfranco de Turris, quindi, ecco a voi il “camerata Bart”, una nuova icona per il non-conformista irriverente. E sì, perché proprio i Simpson sembrano in grado di riempire il vuoto lasciato dai Peanuts di Charles Schultz, scomparsi assieme al loro ideatore sul finire del Novecento. L’ironico disincanto nei confronti della modernità di Charlie Brown e soci rivive, riveduto e (s)corretto, a Springfield. Se solo avessero incrociato le loro strade – anche in una sola strip, anche per un solo fotogramma – si sarebbero riconosciuti, salutati, voluti bene. Avrebbero stretto amicizia tra di loro e avrebbero coinvolto nella loro scomoda, inattuale, insolita compagnia anche i Griffin e persino quei ragazzacci di South Park. Perché loro lo sanno. Sanno che – tra intellettuali aggrappati alle gonnelle del potere di turno e mezzi di comunicazione embadded – se non moriremo omologati, alla fine, lo dovremo agli ultimi irriducibili paladini della cultura popolare: i cartoni animati.
Pierluigi Biondi, 33 anni (L'Aquila), giornalista, collaboratore dell'Ufficio Stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, sindaco di Villa Sant'Angelo (Aq) dal 2004.
1 commento:
Good post.
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