Intervista a Gaetano Cappelli, uno scrittore che fa discutere
«Quelli che dicono di avere nostalgia degli anni Settanta mi fanno venire il latte alle ginocchia. C’è persino chi ha il coraggio di riproporre i terroristi come antidoto alla leggerezza dei giovani d’oggi, ma per favore… L’ala libertario-creativa, cui io appartenevo, venne spazzata via dalla violenza proletaria e ci ritrovammo all’improvviso nelle mani dei talebani». Di quegli «indimenticabili scontri» Gaetano Cappelli – scrittore tra i più originali e raffinati del nostro panorama letterario, dandy potentino di cinquantatre anni dalla prosa accattivante quanto spietata, recentemente ospite del Caffeina Viterbo cultura organizzato da Filippo Rossi e presente questa sera al Festival letterario di Avezzano – non conserva ricordi piacevoli, anzi, parlando con noi del Secolo d’Italia si toglie volentieri qualche sassolino dalle scarpe.
L’occasione ci è offerta dall’uscita del suo ultimo romanzo, il cui titolo – Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo (2007, Marsilio, pagg. 194 € 15,00) – è deliberatamente depistante, coerente con lo stile eccentrico del suo autore. Chi non lo conosce – e farebbe bene a rimediare al più presto andandosi a leggere le sue opere precedenti – da un titolo così enigmatico e dalla bellissima Citroën DS blu cabriolet che appare in copertina non saprebbe cosa aspettarsi. Men che meno potevamo immaginarlo noi, che ne apprezziamo – per l’appunto – l’imprevedibilità, quel suo andare controcorrente, ben attento a tenersi fuori dal coro. Diciamolo subito: aspettative anche stavolta tutt’altro che deluse. Il romanzo si legge d’un fiato, fa ridere e riflettere. Cappelli non si limita a irridere – con la caratteristica ironia, che non eccede mai nel sarcasmo né tanto meno in facile moralismo – i tic e le manie della fauna umana del jet set, umanizzata e resa persino simpatica da una scrittura empatica e disincantata, ma si spinge sino a mettere in discussione proprio i Settanta, procurando, c’è da esserne sicuri, qualche mal di pancia alle vestali che religiosamente si ostinano ad alimentarne il mito.
Tratteggiando i tragicomici colpi di scena e gli intrecci tra passato e presente che scuotono la galleria di personaggi che abita il libro – il cinquantenne Riccardo Fusco, sfaccendato ricercatore universitario in fuga dalla moglie Eleonora e dalle quattro figlie, e i suoi ritrovati amici Giacinto Cenere, «o Giàcenere come firmava i suoi quadri, il più fenomenale dissipatore di talento vivente», e Graziantonio Dell’Arco, il «dodicesimo uomo più ricco d’Italia», ossessionato dal non essere abbastanza cool al punto di incaricare Fusco di trovare il nome giusto per lanciare il suo Aglianico («perché farsi il vino è la nuova mania dei ricchi») e vendicarsi così di chi l’aveva fatto passare per “neocafone” – la penna dissacrante di Cappelli demolisce i formidabili Settanta della mitologia sinistrese, presenti e vivi nei ricordi dei protagonisti. Soprattutto di Graziantonio, al quale, oltre al nome, il look d’ordinanza aveva reso complicata la vita: «Barba, capelli lunghi e jeans sformati andavano bene per il leaderino di turno, ma per un tracagnotto di quel genere, munito inoltre di culo basso, erano un disastro». Problemi che lo scrittore potentino non ha mai avuto. Il suo amico e collega Giancarlo Tramutoli ne ha fatto addirittura un personaggio del suo romanzo Uno che conta (Manni): «Negli anni hippy andava in giro vestito di bianco con ’ste camicie indiane e pantaloni larghi di lino, gli occhialini tondi alla John Lennon, magro e alto come lui, un vero snob maschilista reazionario».
Chiediamo a Cappelli se si riconosce nella descrizione. «Ma quale John Lennon… Semmai alla Robert Fripp, chitarrista dei mitici King Crimson». Già, perché il nostro scrittore di musica se ne intende. Ha iniziato scrivendo recensioni musicali su Re Nudo, «rivista che raccoglieva la zona mistico-underground di quegli anni. Lì pubblicai il mio primo racconto, di ispirazione esoterica, con un tizio alla ricerca di uno spartito che dava la possibilità di eseguire l’armonia delle sfere citata da Platone. Naturalmente la partitura non esisteva, anche se ricevetti varie lettere di persone che me ne chiedevano notizie». In queste sue esperienze “creative” è nata e si è sviluppata la capacità di esplorare e raccontare con freschezza il mondo giovanile – dal di dentro – più di quanto non riescano a fare i fin troppo consacrati giovanilisti di professione. E nella Storia controversa il suo amore per la musica si fa sentire. Non a caso l’amicizia dei tre studenti lucani fuori sede si rinsalda in occasione del concerto romano di Frank Zappa (’73), a cui partecipò «un’umanità variopinta che non era certamente la stessa di quella ben più conformista che sfilava militarmente nei cortei».
Dicevamo dei sassolini: «In un’occasione analoga, stavo andando ad un altro concerto al Palasport, mi trovai nel bel mezzo di una sparatoria. Si trattò di uno degli ultimi concerti, perché da un certo punto in poi gli artisti smisero di venire in Italia. I “compagni” si erano messi in testa che non si dovesse pagare la musica, entravano, davano fastidio, una minoranza riusciva a dominare la scena. Io frequentavo filosofia orientale e questo era sufficiente per essere considerato un fascista. Ricordo che un giorno tenne una lezione Baba Bedy, padre di Kabir, il famoso attore di Sandokan. Era un guru di grande carisma e noi eravamo lì a godercelo quando arrivano gli autonomi e interrompono la lezione. Uno di loro salta sulla cattedra e con fare rivoluzionario si mette a recitare i suoi sloganetti beceri. Figuriamoci se Baba, che aveva combattuto contro gli inglesi, poteva farsi impressionare da quattro ragazzini. Iniziò a far roteare il suo bastone finché non se ne andarono con la coda tra le gambe. La lezione era saltata ma l’episodio è stato istruttivo».
Nel romanzo sottolinei come gli estremisti fossero diversi dalla gioventù «colorata» che avevi visto a Londra ed anche a Roma fino a qualche mese prima, scrivi che la vera «avanguardia che sarebbe risultata vincente» era rappresentata da quei ragazzi che invece di «sprecare le proprie giornate a confezionare molotov trovava più proficuo e dilettevole studiare e lavoricchiare il giorno per incontrarsi la sera a sentire un po’ di musica, bersi un paio di birrette e tentare di accoppiarsi con qualcuna delle ragazze presenti in gran numero in quei nuovi locali» .
«Sì, la violenza politica e il grigiore che ne seguì guastarono l’incantesimo dei Sessanta. Le cose migliori realizzate nel decennio successivo si devono proprio alla coda degli anni Sessanta, allo slancio di quella stagione meravigliosa e piena di vita. E poi parliamoci chiaro: cosa hanno prodotto di buono gli anni Settanta? Guardiamo ai romanzi… Porci con le ali? Una cazzata pazzesca, scritta con uno stile Harmony spinto. Mi fanno ridere gli scrittori che si definiscono impegnati. Cercare di scrivere bene dovrebbe essere il primo impegno e chissà perché, invece, quasi sempre sono loro a non tenerne conto». Altri sono i modelli di Cappelli: «Il primo Philip Roth, Saul Bellow e Mordecai Richler». Gli inizi sono difficili. «Pubblicava solo chi faceva parte di determinate conventicole e i giornalisti. Il fenomeno del giovane scrittore è più recente e lo si deve a due grandi talenti, Pier Vittorio Tondelli e Andrea De Carlo. E chi riusciva a esordire proponeva romanzi iperletterari. Iniziavano ad uscire i primi videoclip e io volevo fare qualcosa di più veloce, ritmico, moderno. Così scrissi Floppy Disk (Marsilio ‘88), uno dei primi romanzi, se non il primo, ad avere per protagonista questo strano oggetto che adesso fa già parte del passato remoto». Il libro venne recensito ovunque e riscosse un buon successo. Da allora di romanzi ne ha scritti diversi, tra cui Parenti lontani (Mondadori), giudicato tra i migliori cinque libri del 2000, il più bel romanzo sul sogno americano visto da un giovane meridionale, Carlo, diviso tra l’amore per le radici e il richiamo di quel grande continente.
«Mio padre – ci racconta Cappelli – aveva fatto di una celebre frase di D’Annunzio il suo motto personale: “Ama il tuo sogno se pure ti tormenta”. I sogni vanno coltivati e quello americano rimane, senza dubbio, il più grande di tutti». Ben diversa è l’opinione sull’incubo marxista-leninista. Nella Storia controversa Cappelli non manca di soffermarsi sul triste destino degli italiani fuggiti nella Russia comunista. Due personaggi del ricchissimo repertorio cappelliano – Carmine Addario e Ernesto Dell’Arco, zio di Graziantonio – per sfuggire alla chiamata in armi della seconda guerra mondiale scappano in Russia, «fiduciosi di veder brillare il sol dell’avvenire». Vengono accolti dai dirigenti del Pci «lì esiliati». Ma i nostri eroi preferiscono «fumare ampollosamente i loro sigari e snobbare l’iscrizione alla Scuola internazionale leninista» piuttosto che sorbirsi le celebrazioni della riforma agraria del compagno Stalin «che aveva già provocato qualche milione di morti per fame». Fuggire dalla Russia si dimostra meno facile che arrivarvi. «L’ultima speranza per sottrarsi al Grande Terrore staliniano, nel frattempo giunto alla sua massima espressione criminale, era prendere parte alla guerra di Spagna». Si offrono di partire, mossi naturalmente da altri intenti: «Combattere per il comunismo dopo aver visto di cosa si trattava? Bisognava essere coglioni solo a pensarci: appena fuori da quel posto infernale si sarebbero rifugiati in uno dei paesi liberi che ancora c’erano». C’è un ma. «Per ottenere l’arruolamento era necessario che i dirigenti comunisti italiani, e in particolare gli avevano detto un certo Ercoli, attestassero i requisiti di fedeltà alla linea leninista dei candidati». Giudizio che non è favorevole per Ernesto «come per molti altri italiani e presto se ne perse ogni traccia». Cappelli sottolinea come il compagno Ercoli, «al secolo Palmiro Togliatti anche detto il Migliore, fosse stato a bocce ferme, in tempo di pace, responsabile della morte di molti più comunisti italiani che non Mussolini». Niente che gli storici non abbiano già ampiamente accertato, ma chissà perché i nostri romanzieri preferiscono, al riguardo, tacere e parlare d’altro. Lo scrittore potentino, invece, non ha il timore di esporsi, tanto da aggiungere – a conclusione dell’intervista, pur in assenza di domanda – un apprezzamento inaspettato: «Fini è il politico che stimo di più, scrivilo! Mi piace la sua idea di destra moderna e occidentale. Almeno quanto trovo insopportabile Bassolino, un demagogo al cubo… dopo quello che ha combinato è ancora là».
6 commenti:
Bravissimo!
D'Orrico me lo aveva reso odioso. Tu l'hai riabilitato.
Ciao.
Questo non significa che mi piacciano le sue opinioni: se scrivesse e basta sarebbe meglio.
Non capisco tutta 'sta ammirazione per Fini. E poi 'sta storia del sogno americano proprio non la digerisco. Come se uno dovesse per forza scegliere tra gli USA e l'URSS. C'è un'America che mi piace, ed è quella letteraria e musicale (a leggere gli scrittori attuali non si capisce come possa governare Bush), mentre dell'URSS non mi è mai piaciuto nulla. Però io sono europeo, e l'Europa è il mio grande sogno. Mi tocca: il resto no.
D'Orrico procede per innamoramenti: da Faletti a Piperno, da Vitali a Cappelli. Ed ogni volta parla di "migliore scrittore italiano". Stavolta ha scomodato persino Philip Roth. Un entusiasmo spesso imbarazzante. Una cosa è certa: le sue recensioni sul magazine del Corsera provocheranno - come anche per gli autori citati - un'impennata di vendite anche per il libro dello scrittore potentino, i cui libri sono godibilissimi. E mi fa piacere che possa "allargare" la cerchia dei suoi lettori, per lui ma anche per chi lo leggerà.
Parenti lontani merita di essere letto, io l'ho liquidato giornalisticamente come romanzo sul sogno americano. E' ingeneroso, in realtà è un rigoglioso romanzo di formazione, come non se ne leggono più molti purtroppo. Cappelli è una persona estremamente originale, piacevole. Mi ha fatto un'ottima impressione, confermata dalla conoscenza personale.
Spero davvero che non sia come Roth, perché non lo reggo. Sarà pure un grande, ma non è come Bellow che mi diverte. Roth mi deprime, e di Bellow non ha neppure la grazia.
Comunque Cappelli lo provo. Un po' di tempo durante le ferie dovrei trovarlo.
PS: comunque, di Cappelli, condivido la sua opinione su certi idioti militanti che pretendono di rappresentare il popolo e la società. Qualche bastonata in più non guasterebbe. :)
Fammi sapere, dopo che l'avrai letto. Come sai, mi interessa il tuo parere. L'ultimo di Philip Roth non sono riuscito a finirlo, i primi romanzi mi piacevano di più. E comunque anche io gli preferisco Bellow.
Letture agostane: per quello che mi riguarda, da domani potrò finalmente dedicarmi alla lettura di Una falciola di terra, opera prima di un promettente scrittore piemontese.
PS. Ho letto solo ieri sera - sul tuo sito - il notevole saggio su Ken Parker. Mi piacerebbe postarlo anche qui, posso?
L'ultimo di Roth mi tentava per il tema (sono come Woody Allen, quando in un romanzo, in un film o in un saggio si parla di morte io devo comprarlo!), però so che non ce la farei.
Il promettente scrittore piemontese ti ringrazia per l'attenzione. Finora i giudizi sono stati discordanti: chi apprezza, senza commentare, e chi invece apprezza ma sostiene che si tratta di una roba esagerata.
Per il momento in Nostro sta lavorando a un thriller psicologico che con "Una falciola di Terra" non ha nulla a che vedere. Assomiglia piuttosto, come scrittura, a uno dei suoi autori preferiti: Ian McEwan, senza azzardare paragoni, naturalmente.
Sono contento che ti sia piaciuto il saggio su "Ken Parker", e se lo metterai qui ne sarò onorato.
Grazie.
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