Rubrica settimanale "Appropriazioni (In)debite"
Gli anniversari, troppo spesso, si trasformano in epitaffi. Sia nel bene che nel male. Si trasformano in autopsie. Quello che a suo tempo era vivo, e in quanto vivo pulsante, pieno di forza e di potenzialità, finisce sul tavolo di marmo del medico di turno e ne sconta le terribili pratiche, la brutalità del macellaio & il sussiego dello scienziato.
Figurati il Settantasette, allora. Questa esplosione di vitalità che attraversa la società italiana e per qualche istante la abbaglia. Questa corrente elettrica, ad altissimo voltaggio ma buttata fuori dal più rumoroso e fumoso e inaffidabile dei generatori, che attraversa i ragazzi e li carica di un’energia spropositata.
Il Settantasette. Quella chiamata a raccolta. Quell’accampamento impazzito. Quelle file interminabili, irregolari, pericolose, di calderoni ribollenti nei quali ognuno mischiava di tutto. Rabbia e speranze, entusiasmo e frustrazioni, generosità ed egoismo. Il Settantasette: le radio libere, gli indiani metropolitani, tutto il bene e tutto il male di una generazione in rivolta. La cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma, “non fumammo con lui, non era venuto in pace”. Bologna che diventa l’epicentro della protesta. Meglio: del cambiamento. Meglio ancora: della mutazione. Dalla lugubre ortodossia dei marxisti-leninisti alla ritrovata creatività del miglior Sessantotto. Bologna che svela, suo malgrado, l’ottusità piccolo-borghese delle giunte rosse, la loro illusione che la politica si possa ridurre al governo dell’esistente, all’amministrazione della “cosa pubblica”. Il benessere a piccoli passi. Le masse da rabbonire. C’è il concerto gratuito a Piazza Maggiore: com’è che non vi basta?
A Bologna c’è l’università. A Bologna c’è il Dams. Altra benzina sul fuoco. Altri catalizzatori della reazione a catena che si sta per innescare. A Bologna, al Dams, arriva anche Andrea Pazienza. Talento smisurato e precoce. Pugliese nato nelle Marche, a San Benedetto del Tronto, il 23 maggio 1956. Infanzia nel fondo della provincia di Foggia, tra San Severo e, d’estate, San Menaio, frazione di Vico del Gargano. Liceo artistico a Pescara. Le prime mostre, i primi riconoscimenti. La pubblicazione, nel 1974, a soli 18 anni, sul Bolaffi.
Forse, se lui avesse un altro tipo di testa, e se tutto intorno ci fosse un altro tipo di ambiente, l’università potrebbe servire, potrebbe bastare, a instradarlo su un percorso più tranquillo. Ma lui è troppo inquieto, troppo convinto dei suoi mezzi per accontentarsi di ricevere l’apprezzamento dei professori, in attesa di raccogliere i prevedibili allori da parte della critica. Non aspira alla cultura con la c maiuscola. Ambisce ad esprimersi, a comunicare. A farlo subito. Qui e ora, non chissà quando. Come fanno i cantautori, i rockettari, i ragazzi del punk e della “New Wave”.
Ci siamo: l’equivalente grafico del rock esiste, ed è il fumetto. Che a sua volta è guardato dall’alto in basso dagli accademici, veri e presunti, e liquidato come un sottoprodotto, tipico della comunicazione di massa. Magari può rivelarsi interessante, sul piano sociologico, ma di sicuro non possiede nessuna effettiva caratura artistica. Vuoi mettere? I tagli sulla tela di Lucio Fontana, i sacchi bruciati di Alberto Burri, la “merda d’artista” di Piero Manzoni. La dodecafonia di Schoenberg. Quella sì che è arte. Consistente. Consapevole. Concettuosa. Ma il rock? Ma i fumetti?
Figurati se a vent’anni si ha il tempo e la voglia di rispondere. L’ostilità – oppure, più semplicemente, l’estraneità – è assolutamente reciproca. Vuoi mettere? Voi contemplate le vostre icone, noi ce la spassiamo coi nostri giochini. Noi non ci chiediamo se la nostra è arte (oops: Arte) e se quello che stiamo facendo è all’altezza di finire nei musei, un giorno. Noi usiamo il disegno, le parole, i fumetti, il rock, perché ci viene spontaneo. Perché ci capiamo così, noialtri testedirapa. Perché ci emozioniamo, così.
All’inizio del 1977, a nemmeno ventun’anni, Andrea Pazienza si propone a Linus. Col primo episodio di Pentothal. “Mi era bastato – scrisse poi l’allora direttore Oreste Del Buono – per esserne scombussolato e avvinto. In uno stile misto in cui parevano scontrarsi e misteriosamente accordarsi gli opposti più opposti, tipo Fremura e Moebius, in cui le parole tendevano a scardinare il senso del disegno, e i disegni ad alterare definitivamente il senso della parola, erano contemporaneamente, ingordamente, insolitamente affrontati l’autobiografismo narcisistico e il ritratto politico di una città”.
Pentothal sarà il primo dei suoi tre personaggi più importanti. Poi verrà Zanardi – indiscutibilmente cinico e beffardo, ma, in fondo, più spietato che cattivo: in qualche modo, un alfiere della Nuda Verità contro l’ipocrisia dilagante – e infine Pompeo. Ma non solo. Lungo gli undici anni che lo separano dalla morte, avvenuta il 16 giugno 1988, probabilmente per overdose, Pazienza realizzerà tante altre cose, e non solo nell’ambito del fumetto. Tra l’altro, il manifesto de “La città delle donne” di Fellini e la copertina di “Il grande sogno” di Roberto Vecchioni. Benché egli stesso riconoscesse di essere svogliato e incostante, e perciò perennemente in difficoltà nel rispettare i tempi di consegna, i suoi lavori si accumuleranno fino a formare una produzione comunque vasta. E comunque di alto livello.
Ad accompagnarlo per sempre, fino alla sua scomparsa così prematura, è l’abitudine (l’attitudine) a passare continuamente da un tipo di linguaggio a un altro, anche nell’ambito della stessa storia. Il risultato, accanto al piacere visivo, è una sensazione di fervore estetico, di estrema libertà non solo artistica ma esistenziale; è l’impressione di essere entrati in una totale intimità con l’autore. E’ l’impressione che possa accadere qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. Dove andrà a parare, stavolta? Quali direzioni prenderà il racconto? E con quali, con quante giravolte?
“L’importante è, leggendo una storia, se ne rimani emozionato, condizionato o meno. Un fumetto, così come un libro o un film, deve muovere il kiai”.
Se guardate i suoi bozzetti, vedrete che si limitano a degli schizzi appena accennati. Può anche darsi che quelle linee così sommarie siano comunque il promemoria di un’idea già definitiva, ma sembra assai più verosimile che si tratti, invece, di un semplice punto di partenza. Una semplice direzione, più che una rotta precisa.
A proposito di libertà. Nel 1977 Pazienza scrive una “poesia”, il cui manoscritto originale è riprodotto in "Le straordinarie avventure di Penthotal", edito nel 1982 da Baldini e Castoldi. “(...) Amo le bretelle di cuoio, / le maglie a tinta unita, larghe, / i calzini da tennis; / amo Woodhouse, / amo Linus, / i miei baffi, / i vecchi soprabiti. / Amo lo yogurt, gli inchiostri rosa.
Amo Tzara / Duchamp / Susanne Duchamp / Man Ray e Litterature, / il cabaret Voltaire e Guillame Apollinaire, / Amo Monsieur Antipyrine, / Arp, / la Die Neue Kunst, / Ball, / Maurice Barres, accademico, Andrè Breton, / Tatlin e il costruttivismo, / Dino Colalongo, / amo Arthur Cravan, Dufy,/ Max Ernst, / l’Happening, il New Dada e la Pop Art, / amo Heartfield, / Hannah Hoch, / Lacerba e Giovanni Papini, / Amo Georges Mathieu, / amo Ezra Pound, fascista,
amo Richter,/ e Georges Ribemont Dessaignes, / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo Tommaso, fascisti, / Sironi / Amo Manzoni, Pistoletto, / Mondrian, / li amo.”
Non certo un sistema organico di riferimenti culturali. Solo una sequenza di richiami, di impulsi, di suggestioni. Un elenco che non è affatto un archivio, ma un’occhiata affettuosa al proprio bagaglio. A questo baule pieno di ricordi, e soprattutto, si spera, di ulteriori sorprese. Dio ce ne scampi, da un ordine prestabilito. Dai giudizi appresi pari pari dagli altri. Dai giudizi così rigidi che diventano dogmi, che conducono alla censura. Perché un ordine ha senso solo se è l’approdo dell’esperienza. Solo se è un equilibrio conquistato sul campo. Solo se scaturisce dal coraggio di affrontare il caos, invece che dalla paura di esserne sopraffatti. Vale per gli individui, vale per le società: l’ordine è necessario per continuare a esistere, ma la libertà – la libertà potente e torrenziale che tende all’anarchia, che inneggia all’anarchia – è necessaria per vivere pienamente. O per provarci, almeno.
Figurati il Settantasette, allora. Questa esplosione di vitalità che attraversa la società italiana e per qualche istante la abbaglia. Questa corrente elettrica, ad altissimo voltaggio ma buttata fuori dal più rumoroso e fumoso e inaffidabile dei generatori, che attraversa i ragazzi e li carica di un’energia spropositata.
Il Settantasette. Quella chiamata a raccolta. Quell’accampamento impazzito. Quelle file interminabili, irregolari, pericolose, di calderoni ribollenti nei quali ognuno mischiava di tutto. Rabbia e speranze, entusiasmo e frustrazioni, generosità ed egoismo. Il Settantasette: le radio libere, gli indiani metropolitani, tutto il bene e tutto il male di una generazione in rivolta. La cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma, “non fumammo con lui, non era venuto in pace”. Bologna che diventa l’epicentro della protesta. Meglio: del cambiamento. Meglio ancora: della mutazione. Dalla lugubre ortodossia dei marxisti-leninisti alla ritrovata creatività del miglior Sessantotto. Bologna che svela, suo malgrado, l’ottusità piccolo-borghese delle giunte rosse, la loro illusione che la politica si possa ridurre al governo dell’esistente, all’amministrazione della “cosa pubblica”. Il benessere a piccoli passi. Le masse da rabbonire. C’è il concerto gratuito a Piazza Maggiore: com’è che non vi basta?
A Bologna c’è l’università. A Bologna c’è il Dams. Altra benzina sul fuoco. Altri catalizzatori della reazione a catena che si sta per innescare. A Bologna, al Dams, arriva anche Andrea Pazienza. Talento smisurato e precoce. Pugliese nato nelle Marche, a San Benedetto del Tronto, il 23 maggio 1956. Infanzia nel fondo della provincia di Foggia, tra San Severo e, d’estate, San Menaio, frazione di Vico del Gargano. Liceo artistico a Pescara. Le prime mostre, i primi riconoscimenti. La pubblicazione, nel 1974, a soli 18 anni, sul Bolaffi.
Forse, se lui avesse un altro tipo di testa, e se tutto intorno ci fosse un altro tipo di ambiente, l’università potrebbe servire, potrebbe bastare, a instradarlo su un percorso più tranquillo. Ma lui è troppo inquieto, troppo convinto dei suoi mezzi per accontentarsi di ricevere l’apprezzamento dei professori, in attesa di raccogliere i prevedibili allori da parte della critica. Non aspira alla cultura con la c maiuscola. Ambisce ad esprimersi, a comunicare. A farlo subito. Qui e ora, non chissà quando. Come fanno i cantautori, i rockettari, i ragazzi del punk e della “New Wave”.
Ci siamo: l’equivalente grafico del rock esiste, ed è il fumetto. Che a sua volta è guardato dall’alto in basso dagli accademici, veri e presunti, e liquidato come un sottoprodotto, tipico della comunicazione di massa. Magari può rivelarsi interessante, sul piano sociologico, ma di sicuro non possiede nessuna effettiva caratura artistica. Vuoi mettere? I tagli sulla tela di Lucio Fontana, i sacchi bruciati di Alberto Burri, la “merda d’artista” di Piero Manzoni. La dodecafonia di Schoenberg. Quella sì che è arte. Consistente. Consapevole. Concettuosa. Ma il rock? Ma i fumetti?
Figurati se a vent’anni si ha il tempo e la voglia di rispondere. L’ostilità – oppure, più semplicemente, l’estraneità – è assolutamente reciproca. Vuoi mettere? Voi contemplate le vostre icone, noi ce la spassiamo coi nostri giochini. Noi non ci chiediamo se la nostra è arte (oops: Arte) e se quello che stiamo facendo è all’altezza di finire nei musei, un giorno. Noi usiamo il disegno, le parole, i fumetti, il rock, perché ci viene spontaneo. Perché ci capiamo così, noialtri testedirapa. Perché ci emozioniamo, così.
All’inizio del 1977, a nemmeno ventun’anni, Andrea Pazienza si propone a Linus. Col primo episodio di Pentothal. “Mi era bastato – scrisse poi l’allora direttore Oreste Del Buono – per esserne scombussolato e avvinto. In uno stile misto in cui parevano scontrarsi e misteriosamente accordarsi gli opposti più opposti, tipo Fremura e Moebius, in cui le parole tendevano a scardinare il senso del disegno, e i disegni ad alterare definitivamente il senso della parola, erano contemporaneamente, ingordamente, insolitamente affrontati l’autobiografismo narcisistico e il ritratto politico di una città”.
Pentothal sarà il primo dei suoi tre personaggi più importanti. Poi verrà Zanardi – indiscutibilmente cinico e beffardo, ma, in fondo, più spietato che cattivo: in qualche modo, un alfiere della Nuda Verità contro l’ipocrisia dilagante – e infine Pompeo. Ma non solo. Lungo gli undici anni che lo separano dalla morte, avvenuta il 16 giugno 1988, probabilmente per overdose, Pazienza realizzerà tante altre cose, e non solo nell’ambito del fumetto. Tra l’altro, il manifesto de “La città delle donne” di Fellini e la copertina di “Il grande sogno” di Roberto Vecchioni. Benché egli stesso riconoscesse di essere svogliato e incostante, e perciò perennemente in difficoltà nel rispettare i tempi di consegna, i suoi lavori si accumuleranno fino a formare una produzione comunque vasta. E comunque di alto livello.
Ad accompagnarlo per sempre, fino alla sua scomparsa così prematura, è l’abitudine (l’attitudine) a passare continuamente da un tipo di linguaggio a un altro, anche nell’ambito della stessa storia. Il risultato, accanto al piacere visivo, è una sensazione di fervore estetico, di estrema libertà non solo artistica ma esistenziale; è l’impressione di essere entrati in una totale intimità con l’autore. E’ l’impressione che possa accadere qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. Dove andrà a parare, stavolta? Quali direzioni prenderà il racconto? E con quali, con quante giravolte?
“L’importante è, leggendo una storia, se ne rimani emozionato, condizionato o meno. Un fumetto, così come un libro o un film, deve muovere il kiai”.
Se guardate i suoi bozzetti, vedrete che si limitano a degli schizzi appena accennati. Può anche darsi che quelle linee così sommarie siano comunque il promemoria di un’idea già definitiva, ma sembra assai più verosimile che si tratti, invece, di un semplice punto di partenza. Una semplice direzione, più che una rotta precisa.
A proposito di libertà. Nel 1977 Pazienza scrive una “poesia”, il cui manoscritto originale è riprodotto in "Le straordinarie avventure di Penthotal", edito nel 1982 da Baldini e Castoldi. “(...) Amo le bretelle di cuoio, / le maglie a tinta unita, larghe, / i calzini da tennis; / amo Woodhouse, / amo Linus, / i miei baffi, / i vecchi soprabiti. / Amo lo yogurt, gli inchiostri rosa.
Amo Tzara / Duchamp / Susanne Duchamp / Man Ray e Litterature, / il cabaret Voltaire e Guillame Apollinaire, / Amo Monsieur Antipyrine, / Arp, / la Die Neue Kunst, / Ball, / Maurice Barres, accademico, Andrè Breton, / Tatlin e il costruttivismo, / Dino Colalongo, / amo Arthur Cravan, Dufy,/ Max Ernst, / l’Happening, il New Dada e la Pop Art, / amo Heartfield, / Hannah Hoch, / Lacerba e Giovanni Papini, / Amo Georges Mathieu, / amo Ezra Pound, fascista,
amo Richter,/ e Georges Ribemont Dessaignes, / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo Tommaso, fascisti, / Sironi / Amo Manzoni, Pistoletto, / Mondrian, / li amo.”
Non certo un sistema organico di riferimenti culturali. Solo una sequenza di richiami, di impulsi, di suggestioni. Un elenco che non è affatto un archivio, ma un’occhiata affettuosa al proprio bagaglio. A questo baule pieno di ricordi, e soprattutto, si spera, di ulteriori sorprese. Dio ce ne scampi, da un ordine prestabilito. Dai giudizi appresi pari pari dagli altri. Dai giudizi così rigidi che diventano dogmi, che conducono alla censura. Perché un ordine ha senso solo se è l’approdo dell’esperienza. Solo se è un equilibrio conquistato sul campo. Solo se scaturisce dal coraggio di affrontare il caos, invece che dalla paura di esserne sopraffatti. Vale per gli individui, vale per le società: l’ordine è necessario per continuare a esistere, ma la libertà – la libertà potente e torrenziale che tende all’anarchia, che inneggia all’anarchia – è necessaria per vivere pienamente. O per provarci, almeno.
1 commento:
Quando scoprii Andrea Pazienza non avevo nemmeno 18 anni. Leggevo Mister No e Ken Parker, ammiravo Gimenez e altri fumettisti argentini. Leggevo "Giuseppe Bergman", di Manara. Di arte capivo ancora poco (frequentavo il liceo artistico per diventare fumettista, mica artista!)e quelli di Valvoline (Mattotti, Igort..) mi facevano abbastanza schifo.
"Zanardi" aveva vinto lo Yellow Kid, era stato eletto miglior fumetto europeo, e andava comprato comunque, un po' come quando ci si precipita a comprare il nuovo Nobel - per curiosità o influenza massmediatica. E fu un innamoramento immediato: per le storie, innovative e quotidiane, con modi e tipi che vedevo ogni giorno a scuola, ma soprattutto per il disegno: ora capivo che Manara era solo un imitatore quando cercava di passare col segno dal reale all'umoristico, inoltre Pazienza trasudava vita da ogni vignetta, sembrava che volesse farmela vivere come l'aveva vissuta lui quando l'aveva disegnata. Più in là avrei capito che dietro a questa forza travolgente c'erano cultura e studio, citazioni raffinate e tanta letteratura. Tondelli parlerà di lui come del "Joyce del fumetto", e mai definizione fu più azzeccata: stessa forza dirompente nel trattare la quotidianità, e ciò che l'irlandese fa con la scrittura Paz lo fa col segno.
Poi sono cresciuto. Ho cominciato a considerare Paz un artista, a vedere nella sua capacità espressiva non solo un modo per raccontarsi, ma per esprimere l'intero suo universo.
Credo che, rispetto a certi sperimentatori dell'epoca come Igort e altri, Pazienza avesse il merito di esprimersi più che di sperimentare. Ed è questo che ancora lo rende grande oggigiorno, e che all'epoca creava un'immediata attrazione anche in chi lo detestava. Oreste del Buono, su l'Eternauta, riceveva lettere di lettori furiosi o esterefatti: "Caro Odb: Pazienza sarà pure grande, come dici tu, ma noi non lo capiamo". Pazienza, rispondeva lui. In realtà c'era poco da capire: bastava seguirlo emotivamente per godersi tutto il resto, nel suo assoluto relativismo.
Niente midcult, niente di artefatto o adatto a palati salotteschi in cerca di surrogati. Paz era e rimarrà sempre "moderno": come Picasso o Joyce.
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