Scordatevi l'happy end, la vita è altro
di Federico Zamboni
dal Secolo d'Italia di mercoledì 5 settembre 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Certi si indispettiscono, di fronte a scrittori come Niccolò Ammaniti. Certi arricciano il naso, contraggono le labbra, strabuzzano gli occhi. E via di questo passo, pescando a volontà nel Catalogo Universale del Disgusto. Certi avvertono il bisogno di protestare. Accarezzano l’idea di protestare così tanto, così forte, da porre fine allo scandalo di una narrativa infarcita di cose sgradevoli e (mio Dio) di parolacce: gente che dice “cazzo”, “fica”, “troia”. Gente che chiama la merda merda. Il piscio piscio. Poverini: tanta volgarità li disorienta. Poveracci: a disilluderli sulla vecchia, decrepita, fuorviante sovrapposizione tra arte e armonia, e tra letteratura e “bello scrivere”, non è bastato nemmeno un intero secolo – il Novecento – di sconquassi creativi d’ogni sorta.
E’ così che si rimane indietro. E’ così che ci si ferma alla superficie, senza capire che la vera volgarità di un’opera non è mai nelle singole parole che usa, e men che meno in certe situazione scabrose di violenza o di sesso, ma nel suo opportunismo. Nella sua mancanza di onestà, di intelligenza, di empatia verso i personaggi e dunque, per il loro tramite, verso l’umanità in carne e ossa; nel suo aderire furbescamente, alla stregua di tanti best seller, e di quasi tutta la produzione televisiva, agli stereotipi del pensiero dominante: all’orrida mistura di cinismo sostanziale, che mette quattrini e notorietà al primissimo posto tra gli obiettivi dell’esistenza, e di sensibilità a scartamento ridotto, che non è capace di andare al di là di qualche fremito di commozione estemporanea ma che si mantiene attentissima alle puntigliose, ridicole accortezze del politically correct.
Ammaniti, per fortuna, va in tutt’altra direzione. Specialmente dopo essersi lasciato alle spalle l’apprendistato iniziale – che cominciò nel 1993 col delirante e spassoso “Branchie, pubblicato da una microscopica casa editrice e rimasto pressoché irreperibile fino a quando, nel 1997, è stato riproposto da Einaudi – non c’è stato più spazio per nessun ammiccamento. Storie dure, difficili, sofferte, persino tragiche. Prima “Ti prendo e ti porto via”, poi l’exploit di “Io non ho paura”, infine “Come dio comanda”, che fin dal primo momento ha navigato col vento in poppa e che, dopo essersi aggiudicato il Premio Strega, sta già per diventare un film con la regia di Gabriele Salvatores.
Ammaniti non ha cedimenti, almeno per ora: lo stile è riconoscibilissimo, ma allo stesso tempo in evoluzione. Alcuni temi sono ricorrenti, ma ancora ben lontani dal diventare ripetitivi. Dissipato l’equivoco di una sua appartenenza a una sorta di “new wave” generazionale, come sembrava postulare l’inserimento nell’antologia “Gioventù cannibale” (Einaudi, 1996), è impossibile associarlo a un qualsiasi genere letterario; e sbaglia di grosso chi gli attribuisce (affibbia) l’etichetta di “noir”. Ammaniti va oltre. Non si attiene a nessuno schema. Tanto è vero che la stessa conclusione dei suoi libri appare, piuttosto che il classico epilogo in cui tutti i pezzi vanno a posto, una sorta di interruzione, quasi il preludio di una fase (di una storia) successiva. Restano molte domande. Molte incertezze sulla sorte dei personaggi. Il contrario del mero intrattenimento, come si vede.
Ammaniti non è né prevedibile né rassicurante. Ed è meglio non lasciarsi ingannare, dalla sua scrittura turbinosa e, ma sì, divertente. Meglio non cedere al desiderio, alimentato da milioni di altre narrazioni, ben più ruffiane e accomodanti, che per il protagonista, e per i personaggi più simpatici, ci sia in serbo un qualche genere di vittoria. O addirittura di apoteosi. L’happy end te lo scordi. Proprio come nella vita reale, sarà già un’impresa sopravvivere alle ondate (allo tsunami) degli avvenimenti. Sarà già tanto portare a casa la pelle, in senso sia letterale che metaforico: mantenere un po’ della propria identità originaria, qualche brandello di speranza, qualche riserva di forza interiore, qualche barlume di moralità.
Soprattutto nei suoi romanzi – e in misura minore nei racconti, la cui lunghezza limitata mal si attaglia alle sue potenti e affollate fantasmagorie, che una volta costrette a raccogliersi (rannicchiarsi) in un pugno di pagine perdono buona parte del loro slancio e della loro credibilità – Ammaniti mette in scena le innumerevoli nevrosi della società contemporanea. La solitudine del singolo individuo, fatalmente destinato a scontrarsi, e quasi sempre a soccombere, con le contraddizioni di una società che promette molto ma che mantiene pochissimo. La fragilità di questi eterni adolescenti che, allevati a colpi di spot nel mito del benessere “cash & carry”, si ritrovano impreparati ad affrontare le inevitabili battaglie, e le inevitabili delusioni, che li aspettano lungo la strada.
Raccontando le sue storie di ragazzini, dal Pietro Moroni di “Ti prendo e ti porto via” al Michele Amitrano di “Io non ho paura”, fino al Cristiano Zena di “Come dio comanda”, Ammaniti scava a fondo anche nella psicologia, e nel fallimento, degli adulti. Dei cosiddetti “adulti”. Che per lo più, invece, sono solo dei ragazzini invecchiati, ora incattiviti dalle frustrazioni, ora insuperbiti dal successo, comunque inariditi da un modo errato di essere e di comunicare.
Ecco qua: si credono adulti solo perché commettono meno errori, perché hanno imparato a destreggiarsi con maggiore perizia tra le regole e le insidie della società. Ma il vero motivo per cui sbagliano di meno, salvo replicare all’infinito gli stessi vizi e le stesse brutture, è che hanno smesso di cercare qualcosa di più e di meglio. Hanno smesso di attraversare la vita con curiosità ed emozione. Hanno smesso di sperimentare. E ora non provano più nessuna meraviglia, più nessun incanto; nessun desiderio, nessun bisogno, di soffermarsi a contemplare il mondo con occhi limpidi e disinteressati, così da cambiare punto di vista e trasformare l’abitudine in sorpresa.
La routine li sostiene. La routine li ingabbia. Ammaniti li osserva. Li smaschera. Ne sceglie alcuni e li chiama al proscenio. Perché la routine va così, a volte. E’ come se prendesse velocità. Come se, nei suoi meccanismi oliati e nelle sue cadenze prefissate, si andasse a ficcare qualcosa di imprevedibile. Di ingovernabile. Piccole sfasature, all’inizio. Piccoli intoppi. Guardate: è l’automobile che sbanda un poco all’uscita della curva; è l’operaio che ondeggia leggermente sull’impalcatura; è il padre di famiglia che accompagna a casa una collega più giovane. Guardate ancora: all’uscita della curva c’è un camion che rallenta di colpo, sull’impalcatura c’è un parapetto che non è stato fissato a dovere, la collega più giovane ha occhi che brillano e una gonna troppo corta.
E’ così che le cose si complicano. Piccoli accadimenti-errori-imprevisti che ne innescano altri, via via più aggrovigliati, via via più incontrollabili. Sembrava solo un giardino circondato da alte siepi di un verde compatto e rasserenante: è un labirinto nel quale ti stai perdendo senza neppure accorgertene.
Ammaniti scrive di questo. Scrive di personaggi (persone) che finiscono in balìa del caos. Del loro bisogno, dei loro tentativi, di trovare comunque uno straccio di senso in quello che accade, in modo tale da potersi ritagliare un’identità almeno un poco più stabile e gratificante. Scrive di come ciascuno, non riuscendo a venire a capo di questa equazione sballata, si ritrovi sempre più esposto al rischio di finire intrappolato in un tunnel di speranze che diventano sogni, di sogni che diventano deliri, di deliri che diventano incubi. Il bisogno, recita il proverbio, aguzza l’ingegno. Ma non è esattamente così. Non sempre. Il bisogno, spesso, spinge a fare cose inconsuete, bizzarre, tanto più azzardate quanto più aumenta la pressione e diminuiscono le probabilità di salvezza. Come in una regressione a un’epoca remota, allora, il raziocinio si fa da parte e lascia il campo a una percezione arcaica, costellata di idoli e di superstizioni. Ma non c’è nulla di condiviso. Nulla di comunitario. Solo minuscoli rituali, e preghiere quasi sempre mute, che ognuno si inventa da sé. Solo aspettative folli che si ingigantiscono nella frustrazione e che, nell’ansia di un riscatto, puntano tutto su un miracolo improvviso, illogico, tanto immeritato quanto indispensabile.
Senza mai dirlo esplicitamente, come si conviene a un romanziere autentico, Ammaniti ci raccomanda di non dare nulla per scontato. Di non fare troppo affidamento sulle nostre certezze, se le abbiamo. Ma anche, di contro, di non rinunciare mai all’ultimo filo di speranza e di fraternità, se le cose vanno male e ci sta prendendo la voglia di rinunciare al meglio di noi stessi, abbandonandoci all’egoismo evidente dell’indifferenza o a quello subdolo della depressione. Nessuna formula standard, ovviamente. Nessun prontuario universale. Solo delle vicende coinvolgenti nelle quali rispecchiarci, riconoscendoci non solo per quello che già siamo, cosa che è la parte più facile, ma soprattutto per quello che potremmo diventare.
E’ una affabulazione, non un teorema. E’ il resoconto di un cammino tortuoso in un territorio ostile, non un sentiero segnato in un parco nazionale. E’ un grido di dolore, e in qualche modo di ribellione, contro la falsità (l’assurdità) della vita contemporanea. Se sono sbagliati gli obiettivi fondamentali – l’arricchimento da ottenere con qualsiasi mezzo, l’affermazione individuale ottenuta a danno degli altri – allora non può che essere sbagliato, nocivo, persino letale, tutto quello che ne consegue.
E’ così che si rimane indietro. E’ così che ci si ferma alla superficie, senza capire che la vera volgarità di un’opera non è mai nelle singole parole che usa, e men che meno in certe situazione scabrose di violenza o di sesso, ma nel suo opportunismo. Nella sua mancanza di onestà, di intelligenza, di empatia verso i personaggi e dunque, per il loro tramite, verso l’umanità in carne e ossa; nel suo aderire furbescamente, alla stregua di tanti best seller, e di quasi tutta la produzione televisiva, agli stereotipi del pensiero dominante: all’orrida mistura di cinismo sostanziale, che mette quattrini e notorietà al primissimo posto tra gli obiettivi dell’esistenza, e di sensibilità a scartamento ridotto, che non è capace di andare al di là di qualche fremito di commozione estemporanea ma che si mantiene attentissima alle puntigliose, ridicole accortezze del politically correct.
Ammaniti, per fortuna, va in tutt’altra direzione. Specialmente dopo essersi lasciato alle spalle l’apprendistato iniziale – che cominciò nel 1993 col delirante e spassoso “Branchie, pubblicato da una microscopica casa editrice e rimasto pressoché irreperibile fino a quando, nel 1997, è stato riproposto da Einaudi – non c’è stato più spazio per nessun ammiccamento. Storie dure, difficili, sofferte, persino tragiche. Prima “Ti prendo e ti porto via”, poi l’exploit di “Io non ho paura”, infine “Come dio comanda”, che fin dal primo momento ha navigato col vento in poppa e che, dopo essersi aggiudicato il Premio Strega, sta già per diventare un film con la regia di Gabriele Salvatores.
Ammaniti non ha cedimenti, almeno per ora: lo stile è riconoscibilissimo, ma allo stesso tempo in evoluzione. Alcuni temi sono ricorrenti, ma ancora ben lontani dal diventare ripetitivi. Dissipato l’equivoco di una sua appartenenza a una sorta di “new wave” generazionale, come sembrava postulare l’inserimento nell’antologia “Gioventù cannibale” (Einaudi, 1996), è impossibile associarlo a un qualsiasi genere letterario; e sbaglia di grosso chi gli attribuisce (affibbia) l’etichetta di “noir”. Ammaniti va oltre. Non si attiene a nessuno schema. Tanto è vero che la stessa conclusione dei suoi libri appare, piuttosto che il classico epilogo in cui tutti i pezzi vanno a posto, una sorta di interruzione, quasi il preludio di una fase (di una storia) successiva. Restano molte domande. Molte incertezze sulla sorte dei personaggi. Il contrario del mero intrattenimento, come si vede.
Ammaniti non è né prevedibile né rassicurante. Ed è meglio non lasciarsi ingannare, dalla sua scrittura turbinosa e, ma sì, divertente. Meglio non cedere al desiderio, alimentato da milioni di altre narrazioni, ben più ruffiane e accomodanti, che per il protagonista, e per i personaggi più simpatici, ci sia in serbo un qualche genere di vittoria. O addirittura di apoteosi. L’happy end te lo scordi. Proprio come nella vita reale, sarà già un’impresa sopravvivere alle ondate (allo tsunami) degli avvenimenti. Sarà già tanto portare a casa la pelle, in senso sia letterale che metaforico: mantenere un po’ della propria identità originaria, qualche brandello di speranza, qualche riserva di forza interiore, qualche barlume di moralità.
Soprattutto nei suoi romanzi – e in misura minore nei racconti, la cui lunghezza limitata mal si attaglia alle sue potenti e affollate fantasmagorie, che una volta costrette a raccogliersi (rannicchiarsi) in un pugno di pagine perdono buona parte del loro slancio e della loro credibilità – Ammaniti mette in scena le innumerevoli nevrosi della società contemporanea. La solitudine del singolo individuo, fatalmente destinato a scontrarsi, e quasi sempre a soccombere, con le contraddizioni di una società che promette molto ma che mantiene pochissimo. La fragilità di questi eterni adolescenti che, allevati a colpi di spot nel mito del benessere “cash & carry”, si ritrovano impreparati ad affrontare le inevitabili battaglie, e le inevitabili delusioni, che li aspettano lungo la strada.
Raccontando le sue storie di ragazzini, dal Pietro Moroni di “Ti prendo e ti porto via” al Michele Amitrano di “Io non ho paura”, fino al Cristiano Zena di “Come dio comanda”, Ammaniti scava a fondo anche nella psicologia, e nel fallimento, degli adulti. Dei cosiddetti “adulti”. Che per lo più, invece, sono solo dei ragazzini invecchiati, ora incattiviti dalle frustrazioni, ora insuperbiti dal successo, comunque inariditi da un modo errato di essere e di comunicare.
Ecco qua: si credono adulti solo perché commettono meno errori, perché hanno imparato a destreggiarsi con maggiore perizia tra le regole e le insidie della società. Ma il vero motivo per cui sbagliano di meno, salvo replicare all’infinito gli stessi vizi e le stesse brutture, è che hanno smesso di cercare qualcosa di più e di meglio. Hanno smesso di attraversare la vita con curiosità ed emozione. Hanno smesso di sperimentare. E ora non provano più nessuna meraviglia, più nessun incanto; nessun desiderio, nessun bisogno, di soffermarsi a contemplare il mondo con occhi limpidi e disinteressati, così da cambiare punto di vista e trasformare l’abitudine in sorpresa.
La routine li sostiene. La routine li ingabbia. Ammaniti li osserva. Li smaschera. Ne sceglie alcuni e li chiama al proscenio. Perché la routine va così, a volte. E’ come se prendesse velocità. Come se, nei suoi meccanismi oliati e nelle sue cadenze prefissate, si andasse a ficcare qualcosa di imprevedibile. Di ingovernabile. Piccole sfasature, all’inizio. Piccoli intoppi. Guardate: è l’automobile che sbanda un poco all’uscita della curva; è l’operaio che ondeggia leggermente sull’impalcatura; è il padre di famiglia che accompagna a casa una collega più giovane. Guardate ancora: all’uscita della curva c’è un camion che rallenta di colpo, sull’impalcatura c’è un parapetto che non è stato fissato a dovere, la collega più giovane ha occhi che brillano e una gonna troppo corta.
E’ così che le cose si complicano. Piccoli accadimenti-errori-imprevisti che ne innescano altri, via via più aggrovigliati, via via più incontrollabili. Sembrava solo un giardino circondato da alte siepi di un verde compatto e rasserenante: è un labirinto nel quale ti stai perdendo senza neppure accorgertene.
Ammaniti scrive di questo. Scrive di personaggi (persone) che finiscono in balìa del caos. Del loro bisogno, dei loro tentativi, di trovare comunque uno straccio di senso in quello che accade, in modo tale da potersi ritagliare un’identità almeno un poco più stabile e gratificante. Scrive di come ciascuno, non riuscendo a venire a capo di questa equazione sballata, si ritrovi sempre più esposto al rischio di finire intrappolato in un tunnel di speranze che diventano sogni, di sogni che diventano deliri, di deliri che diventano incubi. Il bisogno, recita il proverbio, aguzza l’ingegno. Ma non è esattamente così. Non sempre. Il bisogno, spesso, spinge a fare cose inconsuete, bizzarre, tanto più azzardate quanto più aumenta la pressione e diminuiscono le probabilità di salvezza. Come in una regressione a un’epoca remota, allora, il raziocinio si fa da parte e lascia il campo a una percezione arcaica, costellata di idoli e di superstizioni. Ma non c’è nulla di condiviso. Nulla di comunitario. Solo minuscoli rituali, e preghiere quasi sempre mute, che ognuno si inventa da sé. Solo aspettative folli che si ingigantiscono nella frustrazione e che, nell’ansia di un riscatto, puntano tutto su un miracolo improvviso, illogico, tanto immeritato quanto indispensabile.
Senza mai dirlo esplicitamente, come si conviene a un romanziere autentico, Ammaniti ci raccomanda di non dare nulla per scontato. Di non fare troppo affidamento sulle nostre certezze, se le abbiamo. Ma anche, di contro, di non rinunciare mai all’ultimo filo di speranza e di fraternità, se le cose vanno male e ci sta prendendo la voglia di rinunciare al meglio di noi stessi, abbandonandoci all’egoismo evidente dell’indifferenza o a quello subdolo della depressione. Nessuna formula standard, ovviamente. Nessun prontuario universale. Solo delle vicende coinvolgenti nelle quali rispecchiarci, riconoscendoci non solo per quello che già siamo, cosa che è la parte più facile, ma soprattutto per quello che potremmo diventare.
E’ una affabulazione, non un teorema. E’ il resoconto di un cammino tortuoso in un territorio ostile, non un sentiero segnato in un parco nazionale. E’ un grido di dolore, e in qualche modo di ribellione, contro la falsità (l’assurdità) della vita contemporanea. Se sono sbagliati gli obiettivi fondamentali – l’arricchimento da ottenere con qualsiasi mezzo, l’affermazione individuale ottenuta a danno degli altri – allora non può che essere sbagliato, nocivo, persino letale, tutto quello che ne consegue.
1 commento:
Bellissimo articolo, che omaggia un grande scrittore e ci apre gli occhi sulla società attuale e su noi stessi.
Non amo particolarmente Ammaniti, poiché non rientra nelle mie predilezioni letterarie e nella mia idea di letteratura, tuttavia l'ho sempre ammirato. Come Zamboni anch'io sono convinto che di Ammaniti la prima cosa che salta agli occhi è lo stile: in Italia non c'è nessuno che scrive come lui; ha un linguaggio tutto suo, una prosa che salta subito agli occhi, soprattutto quando si esprime nelle lunghe narrazioni(e di nuovo Zamboni ha ragione). A volte è un po' ruffiano, come lo sono i grandi geni: sapendo scrivere di qualsiasi cosa, avendo un'immaginazione (e un immaginario) travolgente, un mondo oscuro e crudele come quello di demiurgo, è capace di buttare giù un racconto da quattro soldi per una rivistaccia, sapendo di non sputtanarsi perché rimane comunque un buon esercizio di stile.
Lo stesso valeva per Pazienza, altro narratore spietato (sebbene del fumetto).
Ci piaccia o meno, in Italia non c'è molto altro.
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