Articolo di Michele De Feudis
dal Secolo d'Italia di domenica 9 settembre 2007
Arancia meccanica come allegoria della violenza giovanile, nichilista e feroce, niccianamente oltre la dicotomia tra bene e male. Arancia meccanica (Einaudi 2005, pp. 240, 10 euro), racconto con venature fantascientifiche, scritto nel 1962 dall’inglese Anthony Burgess, conserva a distanza di oltre quattro decenni dalla sua prima edizione una straordinaria attualità politica e culturale. E colonizza l’immaginario globale: dalla curva sud dell’Olimpico di Torino nella quale svetta lo striscione "Drughi" alle storie dei Simpson, nelle quali ci sono reminiscenze da “Arancia a orologeria” in alcuni episodi. In Contestazione e slang giovanile (edito da Aracne, 118 pp, 8 euro, nella foto), la ricercatrice dell’Università di Bari Maria Cristina Consiglio, attraverso originali analisi linguistiche e un preciso inquadramento storico del romanzo A Clockwork orange. Fornisce con un saggio monografico gli strumenti per ritrovare tratti, sequenze, musiche e follie dei drughi capeggiati nella pellicola di Kubric da Malcom McDowell nelle quotidiane esplosioni di irrazionale violenza giovanile, tra curve calcistiche (anche Alex, protagonista del racconto di Burgess era un tifoso di football), gang giovanili e microcriminalità metropolitana.
Artista eclettico, un po’ scrittore, un po’ critico letterario pronto a scaltrezze (recensì sul Yorkshire Post un suo romanzo con lo pseudonimo di Joseph Kell), volenteroso compositore musicale, collaboratore della terza pagina de Il Giornale nuovo di Indro Montanelli, Burgess è un cattolico conservatore, figlio dell’Inghilterra post-bellica, nella quale la riconversione delle fabbriche da volano dell’industria bellica ai nuovi equilibri della pace post ’45 generò forte inquietudine sociale e insieme una notevole tensione politica verso il consolidamento del welfare state di stampo anglosassone. Solo con il reale superamento della crisi economica crebbe negli ambienti giovanili una coscienza politica generazionale, un sussulto esistenziale che portò a contrapposizioni valoriali e comportamentali con i genitori e la cultura più strettamente reazionaria.
Artista eclettico, un po’ scrittore, un po’ critico letterario pronto a scaltrezze (recensì sul Yorkshire Post un suo romanzo con lo pseudonimo di Joseph Kell), volenteroso compositore musicale, collaboratore della terza pagina de Il Giornale nuovo di Indro Montanelli, Burgess è un cattolico conservatore, figlio dell’Inghilterra post-bellica, nella quale la riconversione delle fabbriche da volano dell’industria bellica ai nuovi equilibri della pace post ’45 generò forte inquietudine sociale e insieme una notevole tensione politica verso il consolidamento del welfare state di stampo anglosassone. Solo con il reale superamento della crisi economica crebbe negli ambienti giovanili una coscienza politica generazionale, un sussulto esistenziale che portò a contrapposizioni valoriali e comportamentali con i genitori e la cultura più strettamente reazionaria.
Naquero così le sottoculture giovanili, risultato della progressiva evoluzione della famiglia tradizionale, del nuovo ruolo dei media di massa, della diversificazione di svaghi e dell’imprevedibile sfaldamento della comunità proletaria. Per distinguersi dagli adulti, tracciando una linea di demarcazione, i giovani inglesi ricorsero a immediati strumenti di riconoscimento “tribale”: abbigliamento, tempo libero e musica, saldati da una generica impostazione ribellistica non troppo ideologizzata. E le nuove mode lanciate in quegli anni, continuano a raccogliere seguaci nelle comitive giovanili di tutta Europa (da Londra a Mosca, da Berlino a Madrid), dove stoffe a quadretti, anfibi e camice botton down sono ancora le divise dei novelli mods o skin-heads.
Nella ricostruzione storica operata dalla scrittrice barese, c’è la ricostruzione della genesi dei gruppi giovanili british, poi esportati oltre Manica con tv, letteratura e gruppi rock: dai teddy boys ai rockers, dai mods ai beatniks e agli hooligans. Le violenze quotidiane e gli scontri tra bande occupano molte pagine delle cronache dei giornali inglesi del dopoguerra, influenzando la scrittura di Burgess, che supera lo scontro ideologico tra i due blocchi (quello occidentale e quello dell’Urss) elaborando per i protagonisti del racconto uno slang a metà tra inglese americanizzato e russo: durante un viaggio a San Pietroburgo aveva riscontrato le stesse intemperanze giovanili dei mods delle periferie londinesi, sulle onde di una violenza senza latitudine.
La cifra nichilistica del racconto è evidenziata dall’autore inglese in una intervista al Los Angeles Times: “A Clockwork Orange doveva essere una sorta di manifesto, addirittura una predica sull’importanza di poter scegliere. Il mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio (…) ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale – è una impresa personale, in cui si è imbarcato in piena lucidità. Da un punto di vista teologico il male non è misurabile. Eppure io credo nel principio che un’azione possa essere più malvagia di un’altra, e che l’atto ultimo del male sia la disumanizzazione, l’assassinio dell’anima. (…). Imponete ad un individuo la possibilità di essere buono e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del presunto bene della stabilità sociale”. Sotto traccia, a giudizio della Consiglio, emerge nell’opera portata sulla schermo in maniera magistrale da Stanley Kubrick nel 1971 un condanna equanime nei confronti di Stati uniti e Urss: “Le due superpotenze, entrambe accecate dall’idea di raggiungere un bene superiore, considerano l’individuo alla stregua di un trascurabile ingranaggio della macchina statale”. Le conseguenze? Un profondo disagio dei cittadini diventa il liet motiv di una esistenza monocolore: da questa realtà unidimensionale i drughi cercano di fuggire con una miscela esplosiva di violenza, sesso, alcool e droga, “scegliendo il male come atto deliberato di libertà spirituale in un mondo di conformismo radicale”.
Burgess ambientò le avventure di Alex in una metropoli futurista, con il minimalista Korova Milkbar e strade con nomi russi, come Gagarin Strett: romanziere illuminato, prefigurò la deriva delle grandi città europee. E ai soloni dal ricettario antiviolenza pronto, tra giustificazionismo ipocrita e durezza sanzionatoria, farebbe bene ascoltare la musica di Beethoven e soprattutto rileggere le avventure di Alex e dei drughi di Burgess.
La cifra nichilistica del racconto è evidenziata dall’autore inglese in una intervista al Los Angeles Times: “A Clockwork Orange doveva essere una sorta di manifesto, addirittura una predica sull’importanza di poter scegliere. Il mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio (…) ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale – è una impresa personale, in cui si è imbarcato in piena lucidità. Da un punto di vista teologico il male non è misurabile. Eppure io credo nel principio che un’azione possa essere più malvagia di un’altra, e che l’atto ultimo del male sia la disumanizzazione, l’assassinio dell’anima. (…). Imponete ad un individuo la possibilità di essere buono e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del presunto bene della stabilità sociale”. Sotto traccia, a giudizio della Consiglio, emerge nell’opera portata sulla schermo in maniera magistrale da Stanley Kubrick nel 1971 un condanna equanime nei confronti di Stati uniti e Urss: “Le due superpotenze, entrambe accecate dall’idea di raggiungere un bene superiore, considerano l’individuo alla stregua di un trascurabile ingranaggio della macchina statale”. Le conseguenze? Un profondo disagio dei cittadini diventa il liet motiv di una esistenza monocolore: da questa realtà unidimensionale i drughi cercano di fuggire con una miscela esplosiva di violenza, sesso, alcool e droga, “scegliendo il male come atto deliberato di libertà spirituale in un mondo di conformismo radicale”.
Burgess ambientò le avventure di Alex in una metropoli futurista, con il minimalista Korova Milkbar e strade con nomi russi, come Gagarin Strett: romanziere illuminato, prefigurò la deriva delle grandi città europee. E ai soloni dal ricettario antiviolenza pronto, tra giustificazionismo ipocrita e durezza sanzionatoria, farebbe bene ascoltare la musica di Beethoven e soprattutto rileggere le avventure di Alex e dei drughi di Burgess.
3 commenti:
La mia conclusione sull'Arancia Meccanica (ma è un giudizio personale) è questa: la violenza fa parte della nostra vita e la società di cui facciamo parte ci costringe ad esserlo. Guardate il protagoniste quando esce di prigione, è cambiato ed è diventato buono e tutti si approfittano di lui dalla famiglia che lo scaccia, alle vittime che in passato aveva aggredito che si vendicano su di lui fino ai suoi due ex complici che da delinquenti diventano poliziotti (emblematica è la loro frase "abbiamo trovato il lavoro adatto a noi").
"...due ex complici che da delinquenti diventano poliziotti (emblematica è la loro frase "abbiamo trovato il lavoro adatto a noi")".
E a Genova 2001 hanno trovato modo d'esprimersi.
Arancia meccanica è divenuto un film culto, studiato,visto...C'è stata anche una sorta di mitizzazione dei protagonisti.Mi piace provocare: la violenza di Aranacia Meccanica è sociologica, viene dal male prodotto da una società disumanizzante, il protagonista in fondo è una vittima del sistema..insomma tuttosommato lo stupratore che scolta Beethoven in fondo è stato mitizzato...E naturalmente le tifoserie calcistiche italiane ci vanno poi a nozze.Io a questa teppaglia cinematografica preferisco il sano manganello italico,reale, vero,magari accompagnato dall'olio di ricino ed esente da stupri...ma con l'allora obbiettivo di fermare l'altrettanto cieca violenza rossa.
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