Articolo di Federico Zamboni
dal Secolo d'Italia di mercoledì 23 maggio 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Il tempo che passa e che non si può fermare. Le cose – tutto intorno a noi, tutto dentro di noi – che cambiano, solitamente in peggio. Le persone che invecchiano, lasciandosi dietro più rimpianti che soddisfazioni, più fallimenti che riuscite. La vita che fa così tante promesse (e quelle che non si azzarda a fare di giorno, quando l’evidenza dei fatti le renderebbe del tutto inverosimili, le sussurra poi di notte, avvalendosi della magia, e dell’alibi, dei sogni) e che non ne mantiene quasi nessuna.
Noi tutti che siamo costretti ad avanzare faticosamente nel pantano della routine. Noi pochi che cerchiamo lo stesso di liberarci del fango, almeno di tanto in tanto, e di spiccare qualche balzo in avanti. Potente. O anche incerto. Rabbioso, oppure malinconico. Comunque importante. Comunque bellissimo. Finalmente, definitivamente, al di là dell’utile e dell’inutile. Ovverosia del “bene” e del “male”, per come li prospetta questa logica imperante che ci assedia. Che si proclama razionale, e dunque cristallina, ma che in realtà è solo economicistica, e perciò torbida, infida, quasi disumana.
Guccini lo sa. Lo ha capito già da giovane e lo canta da sempre. A volte in termini espliciti, affinché l’emozione si saldi ai concetti, e più spesso in maniera indiretta, allusiva, metaforica, affinché il messaggio mantenga il suo significato profondo, rimanendo vivo e palpitante, evitando ogni rischio di isterilirsi (immiserirsi) in una ripetizione troppo insistente.
Prendi il primissimo album, l’artigianale (e un po’ approssimativo, riconosciamolo pure) “Folk Beat N. 1”. Prendi “Canzone per un’amica”, il cui titolo originale era “In morte di S.F.”. La tragica banalità di una ragazza che resta uccisa in un incidente d’auto. Guccini la rievoca con parole semplici e immediate, in cui l’affetto prende per mano la tristezza e la allontana, dolcemente, dal precipizio della disperazione. Dall’abisso del nulla. “Vorrei sapere a che cosa è servito, vivere, amare, soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire”. L’ombra del tempo, l’ombra della morte. “Voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi. Voglio pensare che ancora mi ascolti e che, come allora, sorridi”. Le luci della memoria. Le luci della vita: quella biologica che è destinata a finire, quella poetica che ambisce a non finire mai.
Prendi il secondo album, l’ancora acerbo, ma già più elaborato, “Due anni dopo”. Prendi “L’albero ed io”. “Quando il mio ultimo giorno verrà, dopo il mio ultimo sguardo sul mondo, non voglio pietra su questo mio corpo. Cercate un albero giovane e forte, quello sarà il posto mio. Voglio tornare anche dopo la morte sotto quel cielo che chiaman di Dio”.
L’esaurirsi del tempo, del proprio tempo individuale. La certezza, incombente, inespugnabile, della morte. Il sogno (il bisogno) di una qualche forma di sopravvivenza: che è possibile solo se si è, e si comprende di essere, parte di qualcosa di più vasto e persistente. Una famiglia, una comunità, un popolo. L’umanità. La natura. Il Creato.
Prendi il terzo album, ancora. Lo splendido “L’isola che non trovata” del 1971: che contiene gioielli come “Asia” e come “Il frate”, e che prepara la strada alla definitiva consacrazione, l’anno successivo, col celeberrimo “Radici”. Prendi la semi dimenticata “Il tema”. “Canterò di cose andate, di città finite, morte sensazioni. Racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni. Canterò... soltanto il Tempo”.
Se si potesse tornare indietro, riorganizzando l’intera discografia col senno di poi, dovrebbe essere il pezzo che figura prima di tutti gli altri. La nitida anticipazione di quello che sarà il filo conduttore lungo i quasi quarant’anni che seguiranno. La promessa, indeterminata per un verso, vincolante per l’altro, delle canzoni che arriveranno dopo. Talvolta nel giro di pochi anni. Talvolta, invece, a distanza di interi decenni.
Le “città finite” diventano “Bisanzio”, ma anche la stessa “Asia”: località e territori che si innalzano al rango di archetipi, iscritte nella medesima prospettiva di identificazione tra i luoghi e la loro storia remota; accomunate dalla stessa intuizione che, in molti casi, quello che arriva in ultimo non è ciò che sopravviene ma ciò che sopravvive. Non una nuova melodia che si sprigiona dal cuore del mondo ma solo l’estrema eco di sinfonie che sono risuonate secoli e secoli addietro e che, ormai spente, si vanno dissolvendo.
Località, territori. In realtà – e sarà anche ovvio, ma è meglio esplicitarlo – uomini. Uomini (“fantasmi e gente lungo le stagioni”) che attraversano la scena delle proprie vite cercando di capirne il senso. O, quanto meno, di contrastare con la forza delle proprie azioni il vuoto, addirittura l’angoscia, delle domande esistenziali che non trovano risposta.
Uomini famosi, vissuti davvero o creati dal genio di questo o quello scrittore. E uomini comuni, che non si sono né guadagnati un posto nella Storia, né incastonati nell’immaginario collettivo, ma che tutt’al più si sono affacciati alla ribalta, così mutevole, così illusoria, della cronaca.
Dopo 15 dischi, escludendo quelli dal vivo e il divertissement anomalo, ma spassoso, di “Opera buffa”, la galleria dei personaggi è lunga. Figure grandiose, da Gulliver a Cirano, da Don Chisciotte a Ulisse e a Cristoforo Colombo, e figure modeste, che di per sé non potrebbero vantare alcuna eccezionalità e che diventano belle, attraenti, importanti, solo grazie alla trasposizione (trasfigurazione) che ne dà la canzone. Una per tutte: “Il pensionato” di “Via Paolo Fabbri 43”. Il ritratto di quest’uomo ormai anziano, e solo, che vive lo scorcio finale della propria esistenza nell’unico modo che conosce. E di cui è capace. Con un ordine lento e minuzioso, più metodico che realmente accurato. “Fra mobili che non hanno mai visto altri splendori, giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori, fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani: mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani”. Eppure, canta Guccini, “mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia: "Buon giorno, Professore. Come sta la sua signora? E i gatti, e questo tempo che non si rimette ancora...". Mi dice cento volte fra la rete dei giardini di una sua gatta morta, di una lite coi vicini, e mi racconta piano, col suo tono un po' sommesso di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso”.
Strano, a prima vista. Lo stesso uomo, lo stesso artista, che ha cantato il sogno inafferrabile de “L’isola non trovata” e la suggestione (quasi) mistica de “La bambina portoghese”, si arresta, e si commuove, di fronte alla più ordinaria delle persone. Fino ad ascoltarla con attenzione, facendo del proprio meglio (c’è da scommetterci) per ricambiare “la sua antica cortesia”. Fino a dedicarle una canzone.
Strano, a prima vista. Ma non a guardare meglio, tanto più se si sa che Guccini ha radici contadine. E che ha vissuto i primi cinque anni di vita a Pavana, minuscolo paesino dell’Appennino tosco-emiliano. E che, quindi, conosce bene – con la conoscenza definitiva di ciò che si è appreso durante l’infanzia, e con l’empatia atavica di chi è figlio della propria terra e della propria gente – la forza profonda che si cela nelle persone comuni, fin tanto che la modernità non le inaridisce.
E’ questo, ciò che permette di chiudere il cerchio. Di conciliare gli slanci più elevati, che vanno a sondare i grandi misteri dell’esistenza, e le emozioni quotidiane, che fanno venir voglia di raccontare – e dunque di non perdere – anche le vicende della gente qualsiasi. Anche se è così difficile capirlo, le cose più nobili non sono in antitesi con quelle più modeste. Si possono salire le montagne più alte e, con la stessa consapevolezza, con la stessa armonia, ritemprarsi a fondo valle. Si può cercare l’Assoluto, restando affascinati dai grandi uomini che a loro volta l’hanno inseguito, e allo stesso tempo non dimenticare l’energia e il piacere dei gesti quotidiani: un saluto cordiale, una battuta azzeccata, un buon bicchiere di vino. Guccini, e fa benissimo, oscilla di continuo tra queste due dimensioni. Sempre pronto a cogliere la più piccola scintilla di bellezza e a racchiuderla (custodirla) in una rete di parole. Così che qualcun altro, un giorno, sia facilitato nel coglierla a sua volta.
Noi tutti che siamo costretti ad avanzare faticosamente nel pantano della routine. Noi pochi che cerchiamo lo stesso di liberarci del fango, almeno di tanto in tanto, e di spiccare qualche balzo in avanti. Potente. O anche incerto. Rabbioso, oppure malinconico. Comunque importante. Comunque bellissimo. Finalmente, definitivamente, al di là dell’utile e dell’inutile. Ovverosia del “bene” e del “male”, per come li prospetta questa logica imperante che ci assedia. Che si proclama razionale, e dunque cristallina, ma che in realtà è solo economicistica, e perciò torbida, infida, quasi disumana.
Guccini lo sa. Lo ha capito già da giovane e lo canta da sempre. A volte in termini espliciti, affinché l’emozione si saldi ai concetti, e più spesso in maniera indiretta, allusiva, metaforica, affinché il messaggio mantenga il suo significato profondo, rimanendo vivo e palpitante, evitando ogni rischio di isterilirsi (immiserirsi) in una ripetizione troppo insistente.
Prendi il primissimo album, l’artigianale (e un po’ approssimativo, riconosciamolo pure) “Folk Beat N. 1”. Prendi “Canzone per un’amica”, il cui titolo originale era “In morte di S.F.”. La tragica banalità di una ragazza che resta uccisa in un incidente d’auto. Guccini la rievoca con parole semplici e immediate, in cui l’affetto prende per mano la tristezza e la allontana, dolcemente, dal precipizio della disperazione. Dall’abisso del nulla. “Vorrei sapere a che cosa è servito, vivere, amare, soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire”. L’ombra del tempo, l’ombra della morte. “Voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi. Voglio pensare che ancora mi ascolti e che, come allora, sorridi”. Le luci della memoria. Le luci della vita: quella biologica che è destinata a finire, quella poetica che ambisce a non finire mai.
Prendi il secondo album, l’ancora acerbo, ma già più elaborato, “Due anni dopo”. Prendi “L’albero ed io”. “Quando il mio ultimo giorno verrà, dopo il mio ultimo sguardo sul mondo, non voglio pietra su questo mio corpo. Cercate un albero giovane e forte, quello sarà il posto mio. Voglio tornare anche dopo la morte sotto quel cielo che chiaman di Dio”.
L’esaurirsi del tempo, del proprio tempo individuale. La certezza, incombente, inespugnabile, della morte. Il sogno (il bisogno) di una qualche forma di sopravvivenza: che è possibile solo se si è, e si comprende di essere, parte di qualcosa di più vasto e persistente. Una famiglia, una comunità, un popolo. L’umanità. La natura. Il Creato.
Prendi il terzo album, ancora. Lo splendido “L’isola che non trovata” del 1971: che contiene gioielli come “Asia” e come “Il frate”, e che prepara la strada alla definitiva consacrazione, l’anno successivo, col celeberrimo “Radici”. Prendi la semi dimenticata “Il tema”. “Canterò di cose andate, di città finite, morte sensazioni. Racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni. Canterò... soltanto il Tempo”.
Se si potesse tornare indietro, riorganizzando l’intera discografia col senno di poi, dovrebbe essere il pezzo che figura prima di tutti gli altri. La nitida anticipazione di quello che sarà il filo conduttore lungo i quasi quarant’anni che seguiranno. La promessa, indeterminata per un verso, vincolante per l’altro, delle canzoni che arriveranno dopo. Talvolta nel giro di pochi anni. Talvolta, invece, a distanza di interi decenni.
Le “città finite” diventano “Bisanzio”, ma anche la stessa “Asia”: località e territori che si innalzano al rango di archetipi, iscritte nella medesima prospettiva di identificazione tra i luoghi e la loro storia remota; accomunate dalla stessa intuizione che, in molti casi, quello che arriva in ultimo non è ciò che sopravviene ma ciò che sopravvive. Non una nuova melodia che si sprigiona dal cuore del mondo ma solo l’estrema eco di sinfonie che sono risuonate secoli e secoli addietro e che, ormai spente, si vanno dissolvendo.
Località, territori. In realtà – e sarà anche ovvio, ma è meglio esplicitarlo – uomini. Uomini (“fantasmi e gente lungo le stagioni”) che attraversano la scena delle proprie vite cercando di capirne il senso. O, quanto meno, di contrastare con la forza delle proprie azioni il vuoto, addirittura l’angoscia, delle domande esistenziali che non trovano risposta.
Uomini famosi, vissuti davvero o creati dal genio di questo o quello scrittore. E uomini comuni, che non si sono né guadagnati un posto nella Storia, né incastonati nell’immaginario collettivo, ma che tutt’al più si sono affacciati alla ribalta, così mutevole, così illusoria, della cronaca.
Dopo 15 dischi, escludendo quelli dal vivo e il divertissement anomalo, ma spassoso, di “Opera buffa”, la galleria dei personaggi è lunga. Figure grandiose, da Gulliver a Cirano, da Don Chisciotte a Ulisse e a Cristoforo Colombo, e figure modeste, che di per sé non potrebbero vantare alcuna eccezionalità e che diventano belle, attraenti, importanti, solo grazie alla trasposizione (trasfigurazione) che ne dà la canzone. Una per tutte: “Il pensionato” di “Via Paolo Fabbri 43”. Il ritratto di quest’uomo ormai anziano, e solo, che vive lo scorcio finale della propria esistenza nell’unico modo che conosce. E di cui è capace. Con un ordine lento e minuzioso, più metodico che realmente accurato. “Fra mobili che non hanno mai visto altri splendori, giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori, fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani: mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani”. Eppure, canta Guccini, “mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia: "Buon giorno, Professore. Come sta la sua signora? E i gatti, e questo tempo che non si rimette ancora...". Mi dice cento volte fra la rete dei giardini di una sua gatta morta, di una lite coi vicini, e mi racconta piano, col suo tono un po' sommesso di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso”.
Strano, a prima vista. Lo stesso uomo, lo stesso artista, che ha cantato il sogno inafferrabile de “L’isola non trovata” e la suggestione (quasi) mistica de “La bambina portoghese”, si arresta, e si commuove, di fronte alla più ordinaria delle persone. Fino ad ascoltarla con attenzione, facendo del proprio meglio (c’è da scommetterci) per ricambiare “la sua antica cortesia”. Fino a dedicarle una canzone.
Strano, a prima vista. Ma non a guardare meglio, tanto più se si sa che Guccini ha radici contadine. E che ha vissuto i primi cinque anni di vita a Pavana, minuscolo paesino dell’Appennino tosco-emiliano. E che, quindi, conosce bene – con la conoscenza definitiva di ciò che si è appreso durante l’infanzia, e con l’empatia atavica di chi è figlio della propria terra e della propria gente – la forza profonda che si cela nelle persone comuni, fin tanto che la modernità non le inaridisce.
E’ questo, ciò che permette di chiudere il cerchio. Di conciliare gli slanci più elevati, che vanno a sondare i grandi misteri dell’esistenza, e le emozioni quotidiane, che fanno venir voglia di raccontare – e dunque di non perdere – anche le vicende della gente qualsiasi. Anche se è così difficile capirlo, le cose più nobili non sono in antitesi con quelle più modeste. Si possono salire le montagne più alte e, con la stessa consapevolezza, con la stessa armonia, ritemprarsi a fondo valle. Si può cercare l’Assoluto, restando affascinati dai grandi uomini che a loro volta l’hanno inseguito, e allo stesso tempo non dimenticare l’energia e il piacere dei gesti quotidiani: un saluto cordiale, una battuta azzeccata, un buon bicchiere di vino. Guccini, e fa benissimo, oscilla di continuo tra queste due dimensioni. Sempre pronto a cogliere la più piccola scintilla di bellezza e a racchiuderla (custodirla) in una rete di parole. Così che qualcun altro, un giorno, sia facilitato nel coglierla a sua volta.
1 commento:
Di tutti i bellissimi articoli di Federico, questo è quello che preferisco, per le ragioni affettive che mi legano a Guccini.
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