dal Secolo d'Italia di domenica 16 settembre 2007
In molti documenti dell’Unicef è utilizzata la locuzione “diritti riproduttivi”. Tale espressione non indica, come parrebbe evidente, il diritto della madre a partorire in condizioni di sicurezza e a sfamare i suoi figli, ma la libertà di aborto. La gravidanza, del resto, è considerata da importanti agenzie internazionali come la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità una malattia come il tifo o la poliomielite, visto che entrambi questi enti hanno investito miliardi di dollari nella ricerca di un vaccino anti-fertilità.
A partire dal 2004 nella maggior parte degli statuti delle Regioni italiane si è fatta largo l’espressione “parità di genere”. Questa locuzione, che ancor oggi viene percepita dai profani come una variante del concetto di “pari opportunità”, esprime una concezione alternativa a quella, tradizionale, di parità fra i sessi. Il concetto di genere parte dal presupposto che la natura umana sia fondamentalmente androgina e che ciascun individuo debba essere libero di scegliere fra almeno cinque orientamenti sessuali diversi: maschio, femmina, omosessuale maschio, omosessuale femmina e transessuale.
Nel gergo neofemminista, travasato nel linguaggio di importanti organizzazioni internazionali come l’Unicef, si è fatta strada l’espressione girl-child, mal traducibile in italiano, che sta a indicare non una bambina piccola, ma una bambina indotta dai condizionamenti familiari e sociali ad assumere comportamenti tipicamente femminili. Tale termine nasce dalla convinzione che non esistano in natura inclinazioni maschili o femminili, ma solo stereotipi prodotti dalla cultura, e che compito della controcultura femminista – sostenuta dal “braccio secolare” delle organizzazioni internazionali – sia favorire una completa omologazione dei comportamenti, se necessario procedendo ad “azioni compensative” a presunto beneficio delle bambine.
Nel gennaio del 2000 una delle più potenti organizzazioni femministe internazionali, la Cedaw (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination against Women), ha criticato la Bielorussia per la “prevalenza al suo interno di stereotipi legati ai ruoli sessuali, come esemplificato dalla reintroduzione di simboli come la Festa della Mamma”.
Nei paesi anglosassoni si sta diffondendo l’uso di sostituire nella datazione di un evento anteriore alla nascita di Cristo la formula B.C. (equivalente al nostro A.C.) con la sigla B.C.E. L’aggiunta di una lettera può sembrare un dettaglio, ma in realtà esprime un ben preciso disegno ideologico. Se infatti B.C. sta per Before Christ (Avanti Cristo), B.C.E. sta per Before the Common Era, “prima dell’era comune”. L’espressione non significa nulla, ma toglie dalla datazione ogni riferimento al Cristo, che agli occhi di molte femministe ha il torto di essere un maschio.
Esempi come quelli finora elencati confermano un fatto a suo tempo intuito da Orwell: la capacità della sinistra d’impegnarsi nella battaglia delle parole per vincere la guerra delle idee. È una strategia in cui, mezzo secolo fa, i vecchi partiti comunisti erano maestri, con la loro capacità di colonizzare il linguaggio influenzando il modo di parlare e poi di pensare degli stessi benpensanti. Se gli anni Settanta videro la fortuna di alcune espressioni chiave (“democratico”, “territorio”, “momenti aggreganti”), negli anni Ottanta una sinistra in fase difensiva si è affidata alle tecniche sottili dell’eufemismo, con “socialismo reale” e “stalinismo” imposti in luogo del termine corretto, “comunismo”. Gli ultimi tre lustri, invece, hanno visto svilupparsi un tentativo senza precedenti di cambiare la stessa percezione della natura umana. Un tentativo tanto più insidioso perché condotto attraverso l’infiltrazione nelle maggiori organizzazioni sopranazionali, dall’Onu all’Unione Europea. L’alleanza fra catastrofismo ecologista, terzomondismo antioccidentale e neofemminismo “di genere” punta da oltre dieci anni al controllo dell’etica. Per ottenerlo si avvale di potenti strumenti di pressione, ora ponendo il veto alla nomina di commissari europei responsabili di ritenere l’omosessualità un peccato, ora minacciando i governi le cui legislazioni in materia di aborto non sono abbastanza lassiste, ora pretendendo di censurare i libri di testo colpevoli di utilizzare stereotipi “sessisti” o di non dare sufficiente risalto alle figure femminili nell’arte o nella storia. Bersaglio primario di questa campagna è naturalmente la religione cristiana, in particolare la Chiesa cattolica, colpevole di difendere una concezione dell’uomo e della donna incompatibile con ogni sorta di manipolazione ideologica. Non a caso il femminismo radicale esalta la stregoneria, offende sistematicamente la figura di Maria di Nazareth, propugna una nuova religione panteistica fondata su una riedizione del culto della dea madre.
Il modo con cui il femminismo antagonista sta cercando negli ultimi decenni di utilizzare le legittime istanze femminili per scardinare gli archetipi sociali occidentali realizzando una nuova egemonia culturale è stato puntualmente analizzato da Alessandra Nucci (nella foto a sinistra) nel suo saggio La donna a una dimensione (Marietti 1820, Genova-Milano 2006, pp. 256, € 18): riflessione acuta, stringente, documentata sul processo di indottrinamento e di coercizione psicologica e a volte giuridica attraverso il quale una minoranza organizzata sta operando un’operazione di manipolazione collettiva senza precedenti.
La Nucci, già “femminista ribelle” convertitasi alla fede, direttrice del settimanale cattolico “Una voce grida”, continua ad accettare il femminismo, se con questo termine, secondo l’insegnamento pontificio, s’intende la difesa dei diritti della donna, non il tentativo di stravolgerne il ruolo e la natura. Il suo libro può essere letto come un lungo viaggio attraverso le aberrazioni ideologiche e pseudoscientifiche del terzo millennio; e basterebbero solo alcune delle notizie in esso contenute (e in larga parte sconosciute al pubblico italiano) per renderne utile la consultazione. Si va dal caso patetico di “Brenda”, un bambino che un medico statunitense cercò di condizionare a sentirsi una femminuccia, senza per altro riuscirvi, all’aberrante Convenzione sui diritti dei bambini varata dall’Unicef, che prevede per loro “il diritto di frequentare chiunque vogliono”, di “vedere, sentire o leggere qualunque cosa desiderino” e di “rifiutare qualunque insegnamento religioso”. Si spazia dalle organizzazioni internazionali che in occasione di calamità distribuiscono pillole abortive più che medicinali alla presidente della maggiore organizzazione femminista statunitense che ha definito la politica demografica cinese – fondata sull’obbligatorietà dell’aborto dopo il primo figlio – “la più intelligente del mondo”.
Al di là di questa tragicomica rassegna di aberrazioni, La donna a una dimensione si presta a una lettura più sottile, come denuncia di un nuovo totalitarismo risorgente dietro apparenti stravaganze lessicali. Come osserva l’autrice, tipica del totalitarismo è la pretesa di modificare in profondità la natura umana, di creare l’uomo (o in questo caso la donna) nuovo; pretesa supportata dalla convinzione, tipicamente marxista, che tutti i comportamenti siano un prodotto dell’ambiente materiale. Ma questa concezione è ora funzionale a una società ipercapitalistica, interessata a integrare il più possibile la donna nei meccanismi del consumo e della produzione, non solo allontanandola dalla famiglia, ma facendole detestare la maternità. Il tutto inserito nella politica antinatalista perseguita da alcune grandi lobby internazionali in collusione con certo ecologismo oltranzista incline a considerare l’uomo un pericoloso intruso all’interno del pianeta. Le femministe antagoniste, che propugnano il riscatto della donna da una millenaria servitù, mirano in realtà – osserva l’autrice - alla “costruzione di una donna artificiale, apertamente indottrinata alle rivendicazioni di genere e strumentalizzata per costruire una società fatta di atomi isolati e di opposti antagonismi, società bisognosa di un governo forte, benevole, educatore, mondiale”. Un libro all’apparenza conservatore presenta così una valenza rivoluzionaria che in pochi hanno percepito: la “donna a una dimensione” denunciata dalla Nucci ha forse più dell’uomo unidimensionale di Marcuse i suoi buoni motivi per ribellarsi a una società che sfrutta anche la sua volontà di emancipazione.
A partire dal 2004 nella maggior parte degli statuti delle Regioni italiane si è fatta largo l’espressione “parità di genere”. Questa locuzione, che ancor oggi viene percepita dai profani come una variante del concetto di “pari opportunità”, esprime una concezione alternativa a quella, tradizionale, di parità fra i sessi. Il concetto di genere parte dal presupposto che la natura umana sia fondamentalmente androgina e che ciascun individuo debba essere libero di scegliere fra almeno cinque orientamenti sessuali diversi: maschio, femmina, omosessuale maschio, omosessuale femmina e transessuale.
Nel gergo neofemminista, travasato nel linguaggio di importanti organizzazioni internazionali come l’Unicef, si è fatta strada l’espressione girl-child, mal traducibile in italiano, che sta a indicare non una bambina piccola, ma una bambina indotta dai condizionamenti familiari e sociali ad assumere comportamenti tipicamente femminili. Tale termine nasce dalla convinzione che non esistano in natura inclinazioni maschili o femminili, ma solo stereotipi prodotti dalla cultura, e che compito della controcultura femminista – sostenuta dal “braccio secolare” delle organizzazioni internazionali – sia favorire una completa omologazione dei comportamenti, se necessario procedendo ad “azioni compensative” a presunto beneficio delle bambine.
Nel gennaio del 2000 una delle più potenti organizzazioni femministe internazionali, la Cedaw (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination against Women), ha criticato la Bielorussia per la “prevalenza al suo interno di stereotipi legati ai ruoli sessuali, come esemplificato dalla reintroduzione di simboli come la Festa della Mamma”.
Nei paesi anglosassoni si sta diffondendo l’uso di sostituire nella datazione di un evento anteriore alla nascita di Cristo la formula B.C. (equivalente al nostro A.C.) con la sigla B.C.E. L’aggiunta di una lettera può sembrare un dettaglio, ma in realtà esprime un ben preciso disegno ideologico. Se infatti B.C. sta per Before Christ (Avanti Cristo), B.C.E. sta per Before the Common Era, “prima dell’era comune”. L’espressione non significa nulla, ma toglie dalla datazione ogni riferimento al Cristo, che agli occhi di molte femministe ha il torto di essere un maschio.
Esempi come quelli finora elencati confermano un fatto a suo tempo intuito da Orwell: la capacità della sinistra d’impegnarsi nella battaglia delle parole per vincere la guerra delle idee. È una strategia in cui, mezzo secolo fa, i vecchi partiti comunisti erano maestri, con la loro capacità di colonizzare il linguaggio influenzando il modo di parlare e poi di pensare degli stessi benpensanti. Se gli anni Settanta videro la fortuna di alcune espressioni chiave (“democratico”, “territorio”, “momenti aggreganti”), negli anni Ottanta una sinistra in fase difensiva si è affidata alle tecniche sottili dell’eufemismo, con “socialismo reale” e “stalinismo” imposti in luogo del termine corretto, “comunismo”. Gli ultimi tre lustri, invece, hanno visto svilupparsi un tentativo senza precedenti di cambiare la stessa percezione della natura umana. Un tentativo tanto più insidioso perché condotto attraverso l’infiltrazione nelle maggiori organizzazioni sopranazionali, dall’Onu all’Unione Europea. L’alleanza fra catastrofismo ecologista, terzomondismo antioccidentale e neofemminismo “di genere” punta da oltre dieci anni al controllo dell’etica. Per ottenerlo si avvale di potenti strumenti di pressione, ora ponendo il veto alla nomina di commissari europei responsabili di ritenere l’omosessualità un peccato, ora minacciando i governi le cui legislazioni in materia di aborto non sono abbastanza lassiste, ora pretendendo di censurare i libri di testo colpevoli di utilizzare stereotipi “sessisti” o di non dare sufficiente risalto alle figure femminili nell’arte o nella storia. Bersaglio primario di questa campagna è naturalmente la religione cristiana, in particolare la Chiesa cattolica, colpevole di difendere una concezione dell’uomo e della donna incompatibile con ogni sorta di manipolazione ideologica. Non a caso il femminismo radicale esalta la stregoneria, offende sistematicamente la figura di Maria di Nazareth, propugna una nuova religione panteistica fondata su una riedizione del culto della dea madre.
Il modo con cui il femminismo antagonista sta cercando negli ultimi decenni di utilizzare le legittime istanze femminili per scardinare gli archetipi sociali occidentali realizzando una nuova egemonia culturale è stato puntualmente analizzato da Alessandra Nucci (nella foto a sinistra) nel suo saggio La donna a una dimensione (Marietti 1820, Genova-Milano 2006, pp. 256, € 18): riflessione acuta, stringente, documentata sul processo di indottrinamento e di coercizione psicologica e a volte giuridica attraverso il quale una minoranza organizzata sta operando un’operazione di manipolazione collettiva senza precedenti.
La Nucci, già “femminista ribelle” convertitasi alla fede, direttrice del settimanale cattolico “Una voce grida”, continua ad accettare il femminismo, se con questo termine, secondo l’insegnamento pontificio, s’intende la difesa dei diritti della donna, non il tentativo di stravolgerne il ruolo e la natura. Il suo libro può essere letto come un lungo viaggio attraverso le aberrazioni ideologiche e pseudoscientifiche del terzo millennio; e basterebbero solo alcune delle notizie in esso contenute (e in larga parte sconosciute al pubblico italiano) per renderne utile la consultazione. Si va dal caso patetico di “Brenda”, un bambino che un medico statunitense cercò di condizionare a sentirsi una femminuccia, senza per altro riuscirvi, all’aberrante Convenzione sui diritti dei bambini varata dall’Unicef, che prevede per loro “il diritto di frequentare chiunque vogliono”, di “vedere, sentire o leggere qualunque cosa desiderino” e di “rifiutare qualunque insegnamento religioso”. Si spazia dalle organizzazioni internazionali che in occasione di calamità distribuiscono pillole abortive più che medicinali alla presidente della maggiore organizzazione femminista statunitense che ha definito la politica demografica cinese – fondata sull’obbligatorietà dell’aborto dopo il primo figlio – “la più intelligente del mondo”.
Al di là di questa tragicomica rassegna di aberrazioni, La donna a una dimensione si presta a una lettura più sottile, come denuncia di un nuovo totalitarismo risorgente dietro apparenti stravaganze lessicali. Come osserva l’autrice, tipica del totalitarismo è la pretesa di modificare in profondità la natura umana, di creare l’uomo (o in questo caso la donna) nuovo; pretesa supportata dalla convinzione, tipicamente marxista, che tutti i comportamenti siano un prodotto dell’ambiente materiale. Ma questa concezione è ora funzionale a una società ipercapitalistica, interessata a integrare il più possibile la donna nei meccanismi del consumo e della produzione, non solo allontanandola dalla famiglia, ma facendole detestare la maternità. Il tutto inserito nella politica antinatalista perseguita da alcune grandi lobby internazionali in collusione con certo ecologismo oltranzista incline a considerare l’uomo un pericoloso intruso all’interno del pianeta. Le femministe antagoniste, che propugnano il riscatto della donna da una millenaria servitù, mirano in realtà – osserva l’autrice - alla “costruzione di una donna artificiale, apertamente indottrinata alle rivendicazioni di genere e strumentalizzata per costruire una società fatta di atomi isolati e di opposti antagonismi, società bisognosa di un governo forte, benevole, educatore, mondiale”. Un libro all’apparenza conservatore presenta così una valenza rivoluzionaria che in pochi hanno percepito: la “donna a una dimensione” denunciata dalla Nucci ha forse più dell’uomo unidimensionale di Marcuse i suoi buoni motivi per ribellarsi a una società che sfrutta anche la sua volontà di emancipazione.
Enrico Nistri, giornalista dal 1980 e scrittore, ha collaborato e collabora con testate scientifiche come la Nuova rivista storica, Il pensiero politico, L’antologia Viesseux e quotidiani come Il giornale e il Secolo d’Italia. Ha pubblicato numerosi saggi, fra cui Eserciti e società nell’era moderna (D’anna), Le strade di Strapaese (Alba), Di castello in castello. L’aretino (I libri del Bargello). Con la Loggia de’ Lanzi ha pubblicato i volumi Anni trenta, I tre anni che sconvolsero la destra (e non solo) e, pur non sentendosi federalista, il libro-intervista con Riccardo Migliori Il federalismo della destra.
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