mercoledì 19 settembre 2007

De Carlo, la difficile arte della sopravvivenza... nello sfacelo della società postmoderna (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
dal Secolo d'Italia di mercoledì 19 settembre 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Il ragazzo è invecchiato, ormai. Il prossimo undici dicembre, attestano i dati anagrafici, il ragazzo che nel 1981 aveva esordito con Treno di panna compirà 55 anni. Non si direbbe, a guardarlo nelle foto: anche in quelle più recenti, che lo mostrano alle prese con un “irish bouzuki” o in sella a un cavallo o accanto a un cane o durante un incontro pubblico, Andrea De Carlo appare ancora lontanissimo dal classico aspetto di un uomo maturo. Nonostante il successo, e le lusinghe che ne derivano, e, appunto, l’accumularsi degli anni, l’impressione resta quella di uno che non ha ancora smesso di cercare. Uno che non ha ancora dismesso i suoi slanci giovanili, le sue battaglie, i suoi ideali. La sua curiosità, innanzitutto.
Questo qui – viene da pensare – è appena tornato da un viaggio. O è lì lì per partire di nuovo. Questo qui, come un marinaio che tiene sempre pronta la sua sacca (hai visto mai), è capace di presentarsi all’imbarco in un amen, s
e solo gli dovesse sembrare che ne valga la pena. Come fanno i suoi personaggi, come i protagonisti dei suoi libri, non è il tipo da subordinare la decisione a un’analisi minuziosa dei pro e dei contro: a Guido Laremi, l’incontenibile sperimentatore di Due di due, basta sapere che “non c’è limite a quello che si può inventare”; Leo Cernitori, il fotografo “still life” di Arcodamore, si brucia volentieri nella passione per Manuela Duini, per questa donna che gli sorride “nel modo più trattenuto e incerto e pieno di luce che avessi mai incontrato in vita mia”; Lorenzo Telmari, l’eroe per caso di quest’ultimo Mare delle verità, salpa all’improvviso dall’Argentario, in una livida mattina di dicembre, e punta affannosamente sulla Corsica: prima che la polizia italiana lo possa fermare “per accertamenti”, prima che la macchina della pubblica (in)giustizia lo possa invischiare nelle sabbie mobili della cosiddetta legalità.
“Parto sempre da dati reali: un luogo, un’attività. Una situazione che con
osco da vicino. Riesco solo a scrivere di cose di cui ho un’esperienza diretta. E’ l’unico modo in cui riesco a fare a meno dei luoghi comuni, e a dire qualcosa di mio. Poi, naturalmente, la fantasia anima e trasforma tutto, diventa il motore di ogni storia”.
L’equivoco è dietro l’angolo. Poiché la narrazione è spesso, quasi sempre, in prima persona; e poiché, anche quando non è così, ogni singola vicenda è raccontata febbrilmente dal punto di vista del protagonista, in un continuo sovrapporsi tra le cose che ac
cadono realmente e le infinite elucubrazioni su ciò che egli desidera o che teme. La tentazione, da evitare, è quella di confondere il romanzo col diario, l’invenzione letteraria con lo psicodramma, il coinvolgimento interiore con l’autobiografia.
Potrebbe, e dovrebbe, sembrare ovvio. Ma non lo è. E infatti, da qualche anno, De Carlo è passato dal consueto “ogni riferimento a fatti, persone e luoghi realmente esistenti è del tutto casuale”, a un ben più articolato, e un tantino ingombrante, “L’autore assicura formalmente che i nomi dei personaggi di questa storia NON sono quelli di persone reali che li
abbiano anche solo in parte ispirati. Poiché però è possibile – e in alcuni casi probabile – che esistano persone reali con lo stesso nome e alcune caratteristiche dei personaggi di questa storia, l’autore assicura che si tratta di una pura coincidenza: non è di loro che si racconta qui”. Dopo di che, manco a dirlo, nelle interviste gli viene chiesto se la rampantissima coppia di Mare della verità – formata da Fabio Telmari, esponente di spicco del “Mirto democratico”, e da Nicoletta Fornasetti, giornalista televisiva super-impegnata a mettere in scena la propria (finta) rappresentazione di ineccepibile professionista/moglie/madre – sia un ritratto, al vetriolo, di Francesco Rutelli e Barbara Palombelli...
Se questa è la versione sciocca, però, è pur vero che i riferimenti alla società contemporanea, al dilagante e spaventoso intreccio di poteri pubblici e di interessi privati, ci sono. E sono inequivocabili. Quando arrivano, sotto
forma di un rapido accenno o di un discorso più approfondito, i giudizi sono netti. Ora taglienti, ora amareggiati. In bilico, come avviene a chissà quanti di noi, tra la disillusione che fa distogliere lo sguardo e la delusione che fa montare la rabbia, De Carlo tiene le cronache politiche sullo sfondo, ma non così in disparte da far dimenticare che, tra le cause del malessere individuale, c’è anche (e quanto) la corruzione circostante. Il venir meno di ogni esempio positivo da parte di chi sarebbe tenuto ad offrirlo. La perdita di senso e di armonia provocata dal materialismo esplicito della pubblicità, da quello strisciante dei media, da quello occulto della politica asservita all’economia. Apparenza e consumismo: nient’altro. La “dilagante imbecillità”, per dirla col Giorgio Gaber dell’illuminante, indimenticabile Io, se fossi Dio.
Ma è su questo palcoscenico che ci tocca vivere. E’ su questo schermo, che dovrebbe essere di un bianco perfetto e che invece affonda nel grigio, che dobbiamo proiettare le nostre storie personali. Tentando di far coesistere gli slanci del cuore e le cautele dell’esperienza. Cercando di indi
viduare (indovinare) il punto di equilibrio tra affermazione e sopraffazione, tra attacco e difesa, tra aggressività e passività. Sempre lì a chiederci se dobbiamo fare ciò che è vantaggioso o ciò che è giusto. Se dobbiamo dare retta alla morale, e fare la figura dei fessi, oppure al raziocinio, e andarcene pure noi ad ingrossare le file dei cinici.
E dove lo trovi, allora, un modello accettabile? Qualcosa che ti permetta, almeno nei mal
edetti momenti in cui sei più confuso, di alzare gli occhi dal tuo personale groviglio e di vedere qualcosa di meglio della tua stessa immagine? E cosa succede, infine, se quel modello non c’è? Se invece che essere nascosto chissà dove, quand’anche in capo al mondo come il Santo Graal o la leggendaria Shangri-La, non dovesse esistere affatto: da nessunissima parte, dietro nessunissima svolta del tuo possibile futuro?
Succede che l’unità del mondo va in pezzi. Che la percezione della re
altà (realtà?!) diventa frammentaria. La pellicola non scorre più alla velocità prefissata. Si trascina. Inciampa. Si blocca. Salta di colpo da una sequenza a un’altra, cancellando quel che c’era in mezzo.
“Mi alzo a preparare altri due panini. Sue si gira, mi mette le mani attorno alla vita. Dice “Fiodor”, con voce leggermente confusa. Ridiamo tutti e due: io con una fetta di pane in mano, lei con le dita sulla mia cintura.
Siamo in piedi di fianco al tavolo, con le labbra quasi a contatto.
Siamo seduti sul bordo del divano, con le labbra a contatto e i polpastrelli umidi.
Siamo per terra di fianco al divano, con le mani sotto le reciproche camici
e”.
Accelerazioni. Ma anche, e ancora più spesso, rallentamenti. Il tipico guasto percettivo che, in letteratura, ha generato il minimalismo. Con le sue vite che girano a vuoto. Con le vicende che si attorcigliano su se stesse. Con le descrizioni che diventano elenchi.
De Carlo rischia di scivolare nello stessa desolazione, in un primo tempo, m
a è più un problema di stile che di sostanza. In Treno di panna, e ancora di più in Uccelli da gabbia e da voliera, il disorientamento è forte, ma prelude già a un nuovo tentativo in direzione di una ritrovata pienezza. Dietro lo smarrimento, di fronte alle tante, troppe possibilità dell’esistenza, resta un sottofondo di curiosità, e di vitalità, che lascia aperto uno spiraglio su un futuro più denso.
I libr
i successivi lo confermeranno. Il richiamo della vita, e specialmente dell’amore tra uomini e donne, avrà sempre la meglio sulla difficoltà di mettere a fuoco una meta alla quale tendere: di trovare, se non proprio un equilibrio definitivo, quanto meno un obiettivo ben definito. Contro l’eccesso di razionalità, contro la pretesa di spiegare tutto per filo e per segno, la risposta di De Carlo, la sua lezione, è che il vizio è proprio questo: ragioniamo troppo e, a forza di ragionare, perdiamo il senso della realtà. Avremmo (abbiamo) bisogno di più azione. Dovremmo, per così dire, suonare più spesso con gli altri, invece che passare quasi tutto il tempo ad arpeggiare da soli; o, ancora peggio, a contemplare il pentagramma restando indecisi persino sulla chiave da utilizzare.
Romanzo dopo romanzo, De Carlo aggiunge nuove versioni, nuove varianti, a questo tema centrale. Che ci sia un certo grado di ripetizione è un fatto, così come lo è la sua tendenza a utilizzare la medesima intonazione per tutti i protagonisti, con lo spiac
evole effetto di renderli un po’ troppo simili tra loro: come un attore che cambia travestimento ma che rimane dannatamente riconoscibile. Eppure, vale comunque la pena di leggerlo. Di seguirlo nelle sue singole esplorazioni. Consapevoli che, tra apoteosi e stroncatura, c’è tutto lo spazio necessario a lasciare intatto l’interesse, senza sminuire le qualità né minimizzare i difetti. Se si leggono i suoi libri, ma soprattutto se si legge la sua “opera omnia”, ci si ritroverà a navigare in una baia dalla quale, una volta entrati, è difficile uscire: c’è una corrente forte di egocentrismo, che ti risucchia in innumerevoli gorghi o che ti sbatte verso la riva; c’è un vento impetuoso di libertà, e di intelligenza, che scuote le vele, che quasi le strappa, e che ti fa cambiare spesso, continuamente, di direzione. Ma intanto si apprendono delle cose che non sapevi. Si rimescolano le carte (i tarocchi) della certezza e del dubbio. Dài e dài, magari, si ottiene almeno una parte di ciò che mancava per avventurarsi in mare aperto. Per imparare ad andare. Per imparare a tornare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.
Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

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