Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di giovedì 27 settembre 2007
Venticinque anni, l’età che serve per essere eletti alla Camera dei deputati. Venticinque anni, l’età dell’Alexanderplatz, il celebre jazz-club della capitale, noto al pubblico per l'intensa attività concertistica che lo ha visto protagonista anche di grandi Jazz Festival. Ci si chiederà cosa c’entri mai un locale jazz con faccende politiche. Niente, in effetti, se non fosse che l’ideatore e animatore dell’Alexanderplatz è quel Giampiero Rubei (nella foto a sinistra) che affonda con orgoglio le sue radici culturali e intellettuali del suo percorso all'interno della destra italiana degli anni Sessanta e Settanta. Era il 27 settembre 1982 quando Rubei decise di dare la svolta nella propria vita: passare dalla politica al jazz. Era il coronamento dell'intuizione metapolitica maturata circa trent'anni fa. Un passo troppo lungo? Vista come è andata a finire non si direbbe proprio. Questa sera l’Alexanderplatz festeggia il suo compleanno in bellezza, aprendo la stagione invernale con un poeta della tromba come Enrico Nava e con la consapevolezza di essere diventato una vera propria istituzione: basti pensare che all’Alexanderplatz è stato girato il film Piano, solo, tratto dal libro di Walter Veltroni, Il disco del mondo. E non poteva essere altrimenti, perché a Roma se vuoi dire jazz puoi dire anche Alexanderplatz: e tutti ti capiscono.
La musica sincopata fece innamorare Giampiero Rubei quando era ancora solo un giovane seguace di Julius Evola, da prima frequentatore di quella casa in corso Vittorio a Roma ingombra di libri e parole arcane, tra i quadri dadaisti e gli sguardi dei Veda, e poi, nel ’74, custode dell’ultimo respiro del maestro ed esecutore testamentario delle sue ultime volontà. Dagli anni ’80 in poi, proprio Rubei è stato uno dei maggiori impresari e divulgatori del jazz in Italia. Dopo l’avventura dei raduni giovanili targati Campi Hobbit – esperienza di cui fu il responsabile e uno dei principali animatori– nel 1982 Rubei apre a Roma l’Alexanderplatz, un jazz club godibilissimo ma con tutti i crismi filologici. «L’idea nasceva - ci dice Giampiero - dalla nostra voglia di uscire dalle sezioni e conquistare la società e intercettare lo spirito del tempo. In fondo il senso dei Campi Hobbit era proprio questo». E così, a poco a poco, Rubei nel jazz trova la sua vera natura umana, metapolitica e professionale: «Nel jazz – spiega – c’è il linguaggio adrenalinico del Novecento, la vitalità dell’improvvisazione, la forza dell’elementare». In fondo, Rubei ha fatto della propria vita e della propria "scelta politica" quello che un jazzista fa in ogni concerto: ha gestito l’innovazione confrontandosi continuamente con la tradizione. Dovrebbe essere d’esempio per un untero mondo politico-culturale.
Una ricetta che, cambiando quel che c’è da cambiare, sembra davvero calzare a pennello su una destra italiana in perenne tensione tra strappi verso il futuro e ancoraggio alla memoria del Novecento, modernizzazione e tradizione, voglia di cambiamento e desiderio d’autenticità. Sembra strano, ma con la lente un po’ particolare del jazz come metafora e seguendo il filo della passione di Giampiero Rubei, si può arrivare a spiegare il dibattito politico culturale che continua ad animare la destra politico-culturale. Qualcuno vuole capire la destra che cambia? Se ne vada all’Alexanderplatz, verrebbe da dirgli, e la osservi con gli occhi di un evoliano e amante del Jazz come Giampiero Rubei. E si accorgerà come i suoi ragionamenti sui processi d’innovazione del jazz risultano perfetti anche per le categorie politico-culturali della destra italiana. E gli esperti sono con lui: «Siamo esseri culturali pieni di storia, e le tradizioni a cui apparteniamo influenzano il modo in cui suoniamo…». L’improvvisazione – ha infatti spiegato Davide Sparti nel suo saggio Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana – si basa in gran parte sulla rielaborazione di forme e materiali precomposti e memorizzati. La tradizione come strumento di trasgressione, insomma. Perchè, il fondo ne è la base psicologica: «Se i musicisti – spiega lo studioso – sono capaci d’improvvisare, lo sanno fare perché conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, li conoscono al punto da permettersi di variarli e trasgredirli in modo creativo. La variazione si confronta sempre con la tradizione e con il riconoscimento e la padronanza di un canone, e si configura per molti versi come una forma d’interrogazione provocatoria, di messa alla prova della tradizione».
A seguire questi ragionamenti, l’esperienza culturale e professionale di Giampiero Rubei diventa, e non è retorica, esempio calzante per la destra del futuro. Negli anni ’90 Rubei ha dato vita a uno dei più importanti festival italiani di musica afro-americana: “Jazz & Image a Villa Celimontana”, diventando amico del grande trombettista Chet Baker e dello scrittore della beat generation Gregory Corso. Arrivano i riconoscimenti, anche da oltre oceano: Downbeat, la prestigiosa rivista internazionale di jazz, arriverà a celebrarlo in prima pagina, coronando così il lungo percorso di una passione autentica. Nel jazz, dunque, Giampiero Rubei ha ritrovato la sua storia e le sue radici. Nel jazz ha trovato il futuro di una esperienza politica che voleva uscire all’aperto e rischiare se stessa. Forse – come lui ama ripetere – nel jazz ha ritrovata la declinazione musicale di quanto aveva già assorbito «da Evola, da Kerouac e da Céline». Quello stesso Céline di cui Paul Morand diceva che aveva messo il jazz nella scrittura. Buon compleanno Alexanderplatz.
La musica sincopata fece innamorare Giampiero Rubei quando era ancora solo un giovane seguace di Julius Evola, da prima frequentatore di quella casa in corso Vittorio a Roma ingombra di libri e parole arcane, tra i quadri dadaisti e gli sguardi dei Veda, e poi, nel ’74, custode dell’ultimo respiro del maestro ed esecutore testamentario delle sue ultime volontà. Dagli anni ’80 in poi, proprio Rubei è stato uno dei maggiori impresari e divulgatori del jazz in Italia. Dopo l’avventura dei raduni giovanili targati Campi Hobbit – esperienza di cui fu il responsabile e uno dei principali animatori– nel 1982 Rubei apre a Roma l’Alexanderplatz, un jazz club godibilissimo ma con tutti i crismi filologici. «L’idea nasceva - ci dice Giampiero - dalla nostra voglia di uscire dalle sezioni e conquistare la società e intercettare lo spirito del tempo. In fondo il senso dei Campi Hobbit era proprio questo». E così, a poco a poco, Rubei nel jazz trova la sua vera natura umana, metapolitica e professionale: «Nel jazz – spiega – c’è il linguaggio adrenalinico del Novecento, la vitalità dell’improvvisazione, la forza dell’elementare». In fondo, Rubei ha fatto della propria vita e della propria "scelta politica" quello che un jazzista fa in ogni concerto: ha gestito l’innovazione confrontandosi continuamente con la tradizione. Dovrebbe essere d’esempio per un untero mondo politico-culturale.
Una ricetta che, cambiando quel che c’è da cambiare, sembra davvero calzare a pennello su una destra italiana in perenne tensione tra strappi verso il futuro e ancoraggio alla memoria del Novecento, modernizzazione e tradizione, voglia di cambiamento e desiderio d’autenticità. Sembra strano, ma con la lente un po’ particolare del jazz come metafora e seguendo il filo della passione di Giampiero Rubei, si può arrivare a spiegare il dibattito politico culturale che continua ad animare la destra politico-culturale. Qualcuno vuole capire la destra che cambia? Se ne vada all’Alexanderplatz, verrebbe da dirgli, e la osservi con gli occhi di un evoliano e amante del Jazz come Giampiero Rubei. E si accorgerà come i suoi ragionamenti sui processi d’innovazione del jazz risultano perfetti anche per le categorie politico-culturali della destra italiana. E gli esperti sono con lui: «Siamo esseri culturali pieni di storia, e le tradizioni a cui apparteniamo influenzano il modo in cui suoniamo…». L’improvvisazione – ha infatti spiegato Davide Sparti nel suo saggio Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana – si basa in gran parte sulla rielaborazione di forme e materiali precomposti e memorizzati. La tradizione come strumento di trasgressione, insomma. Perchè, il fondo ne è la base psicologica: «Se i musicisti – spiega lo studioso – sono capaci d’improvvisare, lo sanno fare perché conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, li conoscono al punto da permettersi di variarli e trasgredirli in modo creativo. La variazione si confronta sempre con la tradizione e con il riconoscimento e la padronanza di un canone, e si configura per molti versi come una forma d’interrogazione provocatoria, di messa alla prova della tradizione».
A seguire questi ragionamenti, l’esperienza culturale e professionale di Giampiero Rubei diventa, e non è retorica, esempio calzante per la destra del futuro. Negli anni ’90 Rubei ha dato vita a uno dei più importanti festival italiani di musica afro-americana: “Jazz & Image a Villa Celimontana”, diventando amico del grande trombettista Chet Baker e dello scrittore della beat generation Gregory Corso. Arrivano i riconoscimenti, anche da oltre oceano: Downbeat, la prestigiosa rivista internazionale di jazz, arriverà a celebrarlo in prima pagina, coronando così il lungo percorso di una passione autentica. Nel jazz, dunque, Giampiero Rubei ha ritrovato la sua storia e le sue radici. Nel jazz ha trovato il futuro di una esperienza politica che voleva uscire all’aperto e rischiare se stessa. Forse – come lui ama ripetere – nel jazz ha ritrovata la declinazione musicale di quanto aveva già assorbito «da Evola, da Kerouac e da Céline». Quello stesso Céline di cui Paul Morand diceva che aveva messo il jazz nella scrittura. Buon compleanno Alexanderplatz.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, dell'antologia Fascisti immaginari, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
1 commento:
Perche non:)
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