dal Secolo d'Italia di giovedì 20 settembre 2007
Se il Novecento sia stato o no un secolo breve è un tema su cui gli storici si accapigliavano già prima che avesse termine il secondo millennio. Si può discutere quanto si vuole se anticiparne l’inizio alla Comune di Parigi o posticiparlo allo scoppio del primo conflitto mondiale e se farlo terminare, o no, con la caduta del muro di Berlino. Ma, breve o no che sia stato, il secolo scorso ha favorito la nascita al suo interno di molti itinerari biografici lunghi, non per la loro durata anagrafica, ma per la loro complessità. Nonostante le facili e scontatecertezze di molte vulgate che hanno preteso di risolverne volta volta la storia in una faticosa vittoria della dialettica marxista sulla “distruzione della ragione”, dell’umanesimo sul superomismo, della liberaldemocrazia sulle tentazioni totalitarie, il Novecento si presenta intessuto di percorsi molto meno lineari di quelli che ci sono stati a lungo presentati. Fino a oggi, partecipi di questa realtà erano i soliti addetti ai lavori, che, in pubblicazioni destinate a pochi iniziati o in qualche conversazione salottiera, riconoscevano, in nazioni come l’Italia, la Germania, la stessa Francia di Vichy, l’itinerario (in perfetta continuità) di molti giovani e meno giovani dal fascismo all’antifascismo. Man mano che quanti hanno percorso questo cammino raggiungono quell’età della vita in cui il mantenimento del successo non costituisce più la preoccupazione dominante, qualcosa è iniziato a cambiare: ora in maniera clamorosa, nella Germania di Günter Grass, ora in maniera più morbida, come in Italia. Per indicare questo genere di rivelazioni, viene di solito utilizzato un termine nuovo, outing. Ma, questioni puristiche a parte, questo “uscir fuori”, quando non si limita a sollevare l’interesse della stampa su personaggi riluttanti a uscire dalla ribalta, presenta un aspetto positivo, aiutandoci a comprendere meglio il nostro passato.
Un onesto esempio di outing è senza dubbio quello con cui il regista Carlo Lizzani ha rievocato il suo giovanile impegno fascista in alcune interviste rilasciate quasi in coincidenza con l’uscita del suo libro Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, Torino 2007, pp. 336, euro 17,50). Si veda, ad esempio, «Il bello del fascismo», apparso lunedì su La Stampa. L’autobiografia di Lizzani, comunque, contiene subito una doppia citazione: quella del titolo del celebre saggio dello storico inglese Hobswam sul Novecento come, appunto, «secolo breve», e quella del «lungo viaggio attraverso il fascismo» di Ruggero Zangrandi. Le ammissioni di Lizzani, divulgate su quotidiani e rotocalchi e commentate domenica scorsa anche su queste colonne, sono invece destinate a impressionare di primo acchito il lettore. In particolare quando il regista, interrogato su quale sia stato il giorno più bello della sua vita, riconosce che forse fu quel 3 aprile 1940 in cui festeggiò il diciottesimo compleanno con la pubblicazione del suo primo articolo su Roma fascista.
A dire il vero, Lizzani non è il primo cineasta, letterato o artista italiano che, dopo avere iniziato la sua carriera nella stampa e nelle organizzazioni giovanili fasciste, ha militato a sinistra, aderendo al Pci. È noto a chi s’intende di cinema che Michelangelo Antonioni ha iniziato la sua carriera come aiuto regista e poi regista di pellicole di propaganda bellica, che le sezioni cinematografiche dei Gruppi universitari fascisti (i Cineguf) e la rivista Cinema, del figlio del Duce, Vittorio Mussolini, hanno costituito il brodo di cultura del neorealismo cinematografico, che l’ultimo fascismo propugnava, con la sua parola d’ordine di “andare verso il popolo”, un’arte realista (da cui, in letteratura, la scoperta di Federigo Tozzi e la riscoperta di Verga che avrebbe ispirato a Visconti un cult movie della cinematografia come La terra trema). L’impegno di Lizzani nel giornalismo fascista è meno noto per la giovanissima età dell’interessato, classe 1922, e forse anche perché la solida posizione occupata nell’apparato comunista gli ha risparmiato citazioni imbarazzanti anche in quella antologia della stampa fascista curata da Oreste del Buono 34 anni fa (Eia eia alalà, Feltrinelli, 1973), che non risparmiò invece altri più titolati esponenti della cultura dell’epoca. Lizzani, infatti, è stato un personaggio di confine fra il regista e il documentarista, un autore imbevuto di saggistica e memorialistica. Attestano questa vocazione i titoli stessi delle pellicole cui ha collaborato come sceneggiatore o che ha diretto, da Germania anno zero ad Achtung! Banditi, da Il processo di Verona a Mussolini, ultimo atto, da L’addio a Enrico Berlinguer a Giuseppe Di Vittorio: ieri e oggi. Un autore che ha dedicato la sua intelligenza a ricostruire tanti aspetti della storia del secolo scorso, non poteva lanciare uno sguardo distratto od obliquo alla sua storia personale.
Sotto questo profilo l’autobiografia di Lizzani si distingue davvero dal solito reticente assemblaggio di mezze verità e di autoassolutorie chiamate in correo che caratterizza la descrizione di altri “lunghi viaggi”. L’autore non si limita a descrivere i suoi “vigorosi presentat… arm” di avanguardista sedicenne a un Hitler in visita a Roma, il suo ingresso precoce al Cineguf di Palazzo Braschi, in cui, entrato ancora studente liceale del “Visconti”, si guadagnò sul campo col ruolo di “fiduciario” l’opportunità di darsi del tu con Blasetti, i suoi articoli ricchi di entusiasmo politico su Cinema e Roma fascista, la convergenza dei suoi entusiasmi sia sui classici sovietici degli anni Venti che su certi autori tedeschi (Leni Riefenstahl prima di tutti). Quello che colpisce in queste memorie è il tentativo di storicizzare: invece di “cancellare le tracce” Lizzani segue le orme del proprio cammino per risalire alle origini del passaggio di molti giovani intellettuali da Mussolini (Vittorio, e non solo) a Togliatti. E, storicizzando, l’autore individua nel fascismo «tanti aspetti positivi»: «Enciclopedia Treccani, Futurismo, Cinecittà e Centro sperimentale, riviste Cinema e Primato, stampa giovanile, architettura, politiche sociali». Riconosce che il fascismo assicurò ai giovani «strumenti di promozione (Cineguf, Teatroguf) degni delle università americane» e «responsabilità organizzative oggi impensabili». Ma soprattutto ammette che il fascimo, almeno finché,non si arrivò alle leggi razziali e poi alla catastrofedella guerra, «riuscì ad armonizzare tutte le spinteoriginarie verso la modernizzazione». E questo l’induce pure al rispetto per le scelte di quanti, dopo avere condiviso i suoi entusiasmi giovanili, come il regista Enrico Fulchignoni, dopo l’8 settembre percorsero itinerari diversi dai suoi, ascoltando il 16 ottobre ’43 l’appello lanciato dal maresciallo Graziani. E lo spinge, anche, a capire meglio di altri perché la transizione verso il Pci sia stata psicologicamente più facile di altre scelte: «Il disprezzo per l’aventinismo imbelle, le invettive anticapitaliste, veicolati dalla propaganda del regime», crearono il clima emotivo favorevole a una transizione che non fu sempre e soltanto dettata da fattori opportunistici.
Anche per questo le memorie di Lizzani, a metà strada fra amarcord generazionale e rielaborazione critica del passato alla luce della saggistica più aggiornata (non a caso l’autore cita i saggi di Buchignani, della Serri, di Emilio Gentile), sono qualcosa di più di un semplice outing. Se il “lungo viaggio” di Zangrandi si concluse con una pulsione autodistruttiva in cui lo stesso autore finì per perdersi, l’autobiografia del regista romano può contribuire alla definizione della memoria condivisa relativamente a un secolo che sarà stato anche breve nella sua dinamica storica, ma che, nella sua capacità di interrogare le coscienze, rischia di rivelarsi davvero senza fine.
Enrico Nistri, giornalista dal 1980 e scrittore, ha collaborato e collabora con testate scientifiche come la Nuova rivista storica, Il pensiero politico, L’antologia Viesseux e quotidiani come Il giornale e il Secolo d’Italia. Ha pubblicato numerosi saggi, fra cui Eserciti e società nell’era moderna (D’anna), Le strade di Strapaese (Alba), Di castello in castello. L’aretino (I libri del Bargello). Con la Loggia de’ Lanzi ha pubblicato i volumi Anni trenta, I tre anni che sconvolsero la destra (e non solo) e, pur non sentendosi federalista, il libro-intervista con Riccardo Migliori Il federalismo della destra.
3 commenti:
Di Lizzani ho visto Mussolini ultimo atto, un'ottima ricostruzione abbastanza neutrale degli ultimi momenti di vita del fascismo.
la discussione che sarebbe interessante suscitare riguarda il fatto che il fascismo nel dopoguerra appare fortemente appiattito e questo da tutte le parti (a cominciare dal MSI).
In realtà, esistevano posizioni molto articolate e, soprattutto, esisteva ed esiste un'enorme differenza tra fascismo e RSI.
Lo schema destra-sinistra non funziona tra i due momenti. La RSI non comprende la sinistra fascista, quella dei GUF in cui si ambientano storie come quella di Lizzani.
La sinistra di Bottai, per intenderci, finisce tutta nelle diverse forme della resistenza.
se si ragiona in termini di sansepolcristi, poi, i percorsi sono ancora altri.
sarebbe molto divertente ridiscutere tutta la storia italiana suquesta angolazione.
Divertente perché vera.
Sì, sarebbe divertente, oltre che interessante.
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