martedì 18 settembre 2007

Sul Sessantotto Pasolini aveva torto (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Cominciamo a storicizzare il Sessantotto
Iniziamo una rilettura storica e politico-culturale
(in quattro parti) sull'anno della contestazione
Dal Secolo d'Italia di martedì18 settembre 2007

Siamo alla vigilia del ’68 e dei sessantottini quarant’anni dopo. E in vista dell’anniversario il dibattito pubblico, il confronto politicoculturale, l’editoria e il giornalismo hanno già avviato un dibattito che rischia però di restare incagliato sulla (falsa) diatriba “contestazione sì/contestazione no”. Come se un anno o un evento – quale esso sia – del Novecento possa essere celebrato e demonizzato in quanto tale.
Il ’68, come il ’14, il ’36, il ’45, il ’77 o l’89 sono infatti – da un punto di vista storico – soprattutto anni cruciali che hanno finito per simboleggiare tappe epocali del secolo scorso che vanno ormai ricordate e interpretate soprattutto storiograficamente. E in questa precisa chiave può valere per il ’68 quanto espresso ieri su La Stampa da Carlo Lizzani (nella foto) in riferimento agli anni del fascismo: «Ci fu una fase – ha ammesso il regista – in cui la storia che sembrava immobile, sembrò mettersi in movimento. Noi che vivevamo ancora del mito dei garibaldini ci dicemmo: quando mai potremmo ripetere un momento così?». Ed è più che appropriata la citazione di Günter Grass, ricordata sempre da Lizzani. secondo la quale alcuni anni «sono momenti di accelerazione della storia».
Ecco, rievocare il ’68 a quasi quarant’anni di distanza imporrebbe la necessità di sottrarne il giudizio a qualsiasi lettura ideologica, evitando sia la glorificazione da reduci incanutiti delle barricate che la condanna del sessantottismo mutuata da una errata interpretazione della “rupture” di Sarkozy (che in un suo discorso in campagna elettorale ha sollecitato – sia ben chiaro – una nuova contestazione contro il conservatorismo della vecchia classe dirigente formatasi sugli slogan sessantottini e ormai composta da reduci ultrasessantenni). Eppure quasi tutta la produzione saggistica annunciata marcia in questa direzione: da un lato testi come Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del Sessantotto (a ottobre in libreria per Mondadori) di Edmondo Berselli, vera e propria demonizzazione nostalgica del ’68, dall’altro la riproposizione del citatissimo Formidabili quegli anni dell’immancabile Mario Capanna. Fortunatamente arriva oggi in libreria Sex revolution (Mondadori) di Giampiero Mughini che, in controtendenza, tende invece a raccontare quella stagione dal punto di vista dei cambiamenti reali che innestò (non nella politica) ma nel costume: musica, sessualità, rapporti interpersonali, arte, abbigliamento, tendenze giovanili…
Resta, comunque, fondamentale, un libro uscito lo scorso anno e firmato da uno scrittore di destra: Sessantotto. L’utopia della realtà (edito dall’Istituto Luce) di Adalberto Baldoni. «Cosa resta di positivo del ’68 nella memoria collettiva?», si chiede l’autore alla fine della ricostruzione.
E risponde: «Senz’altro una maggiore attenzione ai diritti individuali, tra cui quelli delle donne, dei discriminati o degli emarginati… Senz’altro una maggiore attenzione ai problemi ecologici. Senz’altro una rivendicazione della libertà che ha scosso, come è accaduto in Cecoslovacchia, anche gli oppressi dalla tirannide del comunismo». Per Baldoni, in sostanza il vento del ’68 – che, come sarà anche nell’89, non andava per nulla a sinistra ma solo per tutta una serie di questioni politiche finì, almeno in Italia e in Germania, ad alimentare il sinistrese diffuso – era motivato inizialmente dalla volontà spontanea di «squarciare il grigiore intellettuale, politico, sociale e burocratico della società uscita dal secondo conflitto mondiale». «Sì, il maggio ’68 – è anche il giudizio postumo di Alain de Benoist – fu una speranza di rivoluzione. Speranza delusa, ovviamente, ma perlomeno fu uno slancio, un desiderio, delle immagini. Qualcosa che dava l’apparenza del cambiamento in quell’universo così disperatamente pesante del dopoguerra». E anche secondo il politologo Marco Tarchi tra gli elementi di fascino dell’epopea del maggio ’68, c’è soprattutto – come ha scritto nel trentennale sessantottino – «la forza di attrazione delle inquietudini corrosive che la percorsero». È una sensazione che viene spiegata a fondo dal ricordo personale dello stesso de Benoist attraverso un flash back intriso di spezzoni d’immaginario e di graffiti generazionali: «Mi ero già recato in California – ha rievocato lo scrittore francese, capofila della cosiddetta Nouvelle Droite – al momento delle grandi manifestazioni all’Università di Berkeley. Andai a Berlino e poi ad Amsterdam. Era appunto all’estero che il movimento aveva mosso i primi passi. Negli Stati Uniti il movimento hippie, nato sulla scia della opposizione alla guerra del Vietnam, aveva lanciato l’idea di una “internazionale della gioventù”. Mi piacevano Joan Baez, Bob Dylan e le superbe ballate di Pete Seeger, così come del resto Léo Ferré, del quale non mancavo un concerto. In Olanda avevo provato una certa simpatia per il movimento dei Provos, che aveva disseminato le vie di Amsterdam di biciclette bianche....». Insomma, in quel fermento era almeno all’inizio possibile tutto: anche che il venticinquenne Alain de Benoist – che proprio nel febbraio del '68 con un gruppetto di amici fondava la rivista della nuova destra Nouvelle Ecole – amasse ascoltare «tanto Bob Dylan o Leonard Cohen quanto le canzoni dei parà...».
Quel clima, del resto, in quei giorni era possibile respirarlo ovunque in tutta Europa. Anche in Italia, anche a Roma. «Jean-Paul Sartre vi festeggiava i garcons che cantavano sulle barricate – ha scritto Cesare G. Romana, genovese doc e decano dei giornalisti musicali italiani, in quei giorni nella capitale – e bollava l’invasione di Praga, i carri armati che avevano distrutto i fragili petali della Primavera... Un corteo di studenti ingolfava la strada con cartelli e bandiere e la pula guatava con occhi di guerra, sotto gli elmetti. Difatti a Valle Giulia scoppiò la guerriglia: zuffa gigante, sirene, arresti, teste rotte. Il governo deprecò e represse, l’opposizione sillabò i suoi distinguo, Pasolini – conclude Romana – scrisse sull’episodio una brutta poesia...». Il riferimento del giornalista è ai fatti romani del 1 marzo '68 e, un attimo dopo, al componimento scritto a caldo dal poeta di Casarsa subito dopo gli scontri di Valle Giulia e pubblicato su Nuovi Argomenti. «Bella vittoria, dunque la vostra», ironizzava Pasolini scagliandosi in quei versi contro i giovani contestatori: «Avete facce di figli di papà / vi odio come odio i vostri papà». Un’invettiva dal sapore passatista ed elitaria con cui il poeta faceva una precisa scelta di campo: schierarsi dalla parte dei poliziotti e contro gli studenti. I ragazzi – centinaia dei quali facevano riferimento ai movimenti giovanili di destra – che, a migliaia, a Valle Giulia si erano scontrati con la polizia che voleva impedirgli l’accesso alla facoltà di Architettura occupata non erano altro, per Pasolini, che «figli di papà», i soliti studenti ribelli provenienti dal ceto medio, nella linea del «sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale)». L’episodio è stato rievocato – e in questi stessi termini – anche dal regista Bernardo Bertolucci: «Abitavo a via del Babuino. Passano gli studenti e io scendo. Ero un pochino più grande di loro, perché avevo 27 anni e insieme al corteo andiamo a Valle Giulia, dove la facoltà di Architettura era occupata dagli studenti. Poi mentre ricordo il corteo che va, mentre lo vedo arrivare a Valle Giulia, mentre ripenso ai primi scontri, mi vengono in mente le parole di Pasolini che uno o due giorni dopo scrive una poesia in cui dice più o meno: “Vi odio, cari studenti, perché in voi ritrovo quell’odore piccolo borghese che era lo stesso che sentivo nei fascisti”. Insomma, tra voi e i poliziotti sto dalla parte dei poliziotti. E subito mi viene in mente Pier Paolo nel ’68, nello stesso anno, al Festival del cinema di Venezia, che va a Cà Foscari a parlare con gli studenti e questi gli sputano addosso perché si ricordano di quella poesia...». Pasolini aveva contestato la loro provenienza sociale dal ceto medio? «Cosa innegabilmente vera, ma che – ribatte Franco Piperno, uno dei leader della manifestazione di Valle Giulia – è sempre stata vera: pensiamo alla poesia di Giuseppe Giusti su Sant’Ambrogio in cui il poeta ricorda che le truppe che occupavano Milano contro gli studenti risorgimentali erano composte da contadini ungheresi. Non è mai successo che non fosse una parte del popolo a fare il mestiere repressivo...». Non sempre, insomma, la facile retorica buonista di solidarietà con gli strati umili coincide con il desiderio di cambiamento: anzi, molte volte è un atteggiamento che può mascherare istinti conformisti e passatisti.
Un’altra conferma: sono passati solo pochi giorni e Cesare G. Romana si trova a Roma nel bar dellacompagnia discografica Rca. Come sempre, scorre un viavai di cantanti, autori, creativi e musicisti. E lui sta lì con il suo amico del cuore, il cantautore Fabrizio De André, il quale – a differenza di Pasolini – da autentico non-allineato non può non schierarsi dalla parte degli studenti. Tanto che invita immediatamente l’amico Cesare a dare un’occhiata a un articolo di giornale: «Valle Giulia, Pasolini contro i contestatori». E di getto gli legge un passo di quella poesia che proprio non riesce a digerire: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / Coi poliziotti / Io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri....». Il cantautore è davvero stupito. Non capisce: «Sì, ma da che parte stanno gli sbirri?». E, giustamente, prende per un’offesa personale tutto quel disprezzo pasoliniano per la “tradizione risorgimentale dei figli di papà”: «Questi saremmo noi, dice Pasolini». E all’amico che si stupisce – e chiede: «e allora?!» – De André ribatte rivendicando la propria scelta di campo: «Se la mettiamo così, ridateci il Risorgimento. Ma nel senso: borghesi, con poca voglia di esserlo». E quasi a mo’ di sfida il cantautore si avviò all’ascensore che portava alla studio di registrazione, canticchiando tra sé e sé: «Re Carlo tornava dalla guerra / lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor».
“Ridateci il Risorgimento” auspicava quindi il libertario Fabrizio De André, sentendosi a pieno titolo dentro quel fermento giovanile e tracciando un filo rosso che collegava idealmente tutte le rivolte generazionali e studentesche che da due secoli avevano segnato la storia italiana. «Il Sessantotto – annota in proposito Massimo Fini – stava affossando definitivamente gli anni Cinquanta che i Sessanta avevano scalfito solo in superficie, esclusivamente sul piano del consumo. Ora i giovani contestano il lavoro, la trasmissione del sapere, la gerarchia tra generazioni, cioè il nucleo più profondo dei valori della borghesia». E questo stava accadendo a Roma o a Milano, a Trento come a Perugia, a Catania come aNapoli o Genova... Ha rievocato anche Gigi Rizzi, playboy e “a modo suo” uno dei protagonisti di quell’anno, in Io, BB e l’altro ’68: «Genova per noi era il baretto di corso Italia, ritrovo dei trasgressori e punto di partenza per ogni scorribanda. Da lì Fabrizio De André lanciava i suoi anatemi contro il conformismo ed esaltava le donne da marciapiede, mentre Paolo Villaggio, impiegato all’Italsider, ci faceva morire sperimentando le gag di Fantozzi...».
Da Genova Fabrizio De André dedicherà al '68 La canzone del Maggio, riprendendo i versi composti da una giovane contestatrice parigina. A differenza di Pasolini, insomma, De André si sentiva in piena sintonia con il ’68 soprattutto per la carica libertaria e per il rifiuto degli schemi da facile incasellamentoche lo spirito della contestazione aveva fatto propri. «Oggi si tende a inscatolare ogni espressione dell’intelligenza», confessava Fabrizio in aperta polemica col bigottismo banalizzante e misoneista di quegli anni. E, facendo riferimento all'ostracismo dichiarato dalla cultura ufficiale del tempo nei confronti di autori irregolari come Céline o Ezra Pound, aggiungeva esplicitamente: «Vogliamo dimenticarci la loro indipendenza intellettuale? Per contro – sottolineava ancora – non manca chi dice che Julius Evola è un anarchico. Cartesio diceva: penso perciò sono. Ma oggi il pensiero non ha più diritto di cittadinanza se non è riassumibile in un marchio. Lo slogan è: appartengo, dunque sono».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, di Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

15 commenti:

Anonimo ha detto...

Bello. Riassume in parte un numero di Diorama di qualche anno fa (mi sembra proprio del 1998, ma potrei sbagliarmi) non comprendendo però le testimonianze dei ragazzi francesi di destra di allora (lasciamo perdere De Benoist, che già allora metteva insieme Nietzsche e B. Russel con disinvoltura).
Che il 1968 abbia rappresentato qualcosa di diverso, sebbene mancato, lo dimostra che curiosamente alcuni di quei ragazzi francesi ora, in Francia, si occupano di volontariato e dei sans papier. Insomma, condivido abbastanza un'opinione sull'articolo di Lanna: si trattava di ragazzi borghesi, ma sapevano da che parte stare e da qualche parte bisognava ben incominciare.

Anonimo ha detto...

Ho notato anche io, leggendo il numero di Diorama sul '68, le biografie di personaggi come Gregory Pons e altri esponenti della destra francese del tempo, che oggi lavorano nel volontariato, nella sussistenza a immigrati, ecc.

Mi ha molto colpito e vorrei saperne di più...ma probabilmente non ci sono "fonti" consultabili su questo tema.

Anonimo ha detto...

In finale però che cosa abbiamo avuto dal 68? Abbattimento dei vecchi schemi borghesi, un sapere diverso, maggiore partecipazione ecc. Io dentro la Sapienza ci sono stato e quelli che fecero il 68 erano diventati i successori di quei docenti che contestavano e molto spesso erano ancora piu' severi (e non faccio nomi), maggiore partecipazione degli studenti alla vita universitaria? Io non l'ho vista, che io ricordi vigeva il vecchio adagio "Studia e pensa ai fatti tuoi". Cosa è stato quindi il 68?

Anonimo ha detto...

Tra i titoli in uscita sull'argomento c'è anche Marcello Veneziani "Rovesciare il '68"(Mondadori).

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Insomma: avremo da leggere!

Anonimo ha detto...

Pasolini era un anti-moderno. Se non lo si inquadra in questa categoria non si capisce la sua feroce critica alla rivoluzione borghese del '68. Che poi il popolo si sia sempre trovato coinvolto suo malgrado in queste "accelerazioni della storia" borghesi questo è un dato di fatto.
La prima rivoluzione borghese (quella francese) fu opera della borghesia, con l'appoggio suicida di parte dell'aristocrazia e della plebaglia metropolitana; il popolo della campagne fu estraneo quando non apertamente ostile;
la seconda rivoluzione borghese vide all'opera in Europa le elìtes
intellettuali massonico-borghesi.
Il cosiddetto risorgimento fu fatto contro i popoli, basti pensare ai plebisciti-truffa o alla Resistenza popolare al sud contro gli occupanti piemontesi.
la terza rivoluzione borghese, quella del '68, chiude il processo rivoluzionario iniziato nel 1789 (non è affatto una rivoluzione mancata!) sconvolgendo l'ordine morale con l'irruzione del pansessualismo (omosessualità, libero amore), femminismo, aborto, divorzio, dissoluzione della famiglia, droga etc.
Pasolini aveva ragione da vendere.

Anonimo ha detto...

"sconvolgendo l'ordine morale con l'irruzione del pansessualismo (omosessualità, libero amore)"

Chissenefrega del pansessualismo, argomento da baciapile e papisti che con la realtà non ha nulla a che fare.
Gli omosessuali sono sempre esistiti e la gente ha sempre scopato al di là del matrimonio, come si è sempre gestita amanti e scappatelle. La famiglia, poi, va bene nel presepe.
No. Il '68 ha fallito tante sue istanze, è stato utopico per molti aspetti, ma il sesso libero lasciatecelo. Almeno quello! Al massimo lo compenserei con una migliore gestione dei sentimenti, ma questo al di là delle regole da preti e le facili idealizzazioni.

Anonimo ha detto...

Tra l'altro. Consiglio a tutti il "libero amore". In passato mi ha permesso di conoscere (anche in senso biblico) persone estremamente interessanti. Soprattutto favorisce la relazione e diminuisce le pippe mentali :))))

Anonimo ha detto...

Il signor Ughetto, non ha colto il senso del mio intervento. Mi dispiace.
Non sono un baciapile; ma se per lui il Gay Pride, o l'aborto sono conquiste civili e l'uso di massa della droga è una conquista sociale, buon per lui.

Anonimo ha detto...

Sul Gay Pride mi sono espresso a suo tempo: penso sia una carnevalata, per molti aspetti una caduta di tono per quella che è stata la cultura gay. Ma non esisterebbe un Gay Pride, se i gay non fossero stati perseguitati e umiliati per troppo tempo. Per quanto riguarda l'omosessualità in sé, invece, la considero una componente come altre della natura umana e non solo. E il cristianesimo ha delle colpe non da poco, con la sua abitudine di guardare nelle camere da letto altrui e di esprimere giudizi moralistici.

Aborto: sinceramente sono contrario, come la maggior parte delle persone di buon senso. Ma:

1) finiamola di fare dei moralismi: esiste una legge, poi sta alla cultura sensibilizzare. Credi forse che sarebbe meglio con l'aborto proibito? Anche uno come Alexander Langer era di per sé contrario, ma l'epoca delle ragazzine ammazzate in cliniche clandestine o da fattucchiere deve finire. Per alcuni sembra che le donne vadano ada abortire con leggerezza, o all'opposto con un luger puntata alla tempia.
3) E poi che siano sempre i maschi a fare i moralisti mi fa abbastanza schifo.
4) sulla droga ti condivido di più, ed è in parte una conseguenza del '68. Ma anche qui, smettiamola di fare i moralisti come certi politici: in una società consumista come la nostra, consumare droga fa parte del sistema. Forse dovremmo agire in modo più ampio.

Anonimo ha detto...

Per il signor Ughetto, offendere la chiesa cattolica non porta da nessuna parte. La chiesa cattolica da delle direttive da seguire a chi è cattolico, chi non è cattolico è libero di fare la sua vita. E la chiesa non ha mai condannato ne disprezzato gli omosessuali ne tantomeno li ha perseguitati o ghettizzati (è il nazifascismo e il comunismo che hanno fatto violenze verso di loro). Chi si sente ateo può fare quello che vuole, vivere con una persona dello stesso sesso, vestirsi da donna, ma non può pretendere i diritti che spettano alle persone normali anche perchè il diritto di famiglia su questo punto è chiaro. Basta poi con questo attacco violento alla chiesa cattolica anche perchè se non fosse per la chiesa cattolica visto che in Africa e nel Terzo Mondo è l'unica istituzione che fa qualcosa per quei paesi e quei popoli mentre l'Europa se ne frega altamente.

Anonimo ha detto...

Io non attacco la chiesa cattolica in sé, organismo vastissimo e contraddittorio come tutti gli organismi, ma alcuni paradigmi che essa ha imposto, dogmaticamente, durante i secoli.
Anche per chi non si sentiva cattolico.
Ma non ho voglia di andare off-topic. Parliamo di Pasolini, piuttosto, tirato per la manica da destra e da sinistra per ciò che ognuno vorrebbe fargli dire.

Anonimo ha detto...

Pasolini diceva sul sessantotto cose molto vere. Non era il valore umanistico di quel sospiro rivoluzionario a non funzionare, ma un'errata concezione dei "nemici". Pasolini diceva che i giovani del sessantotto non avevano ancora capito che la genetica dei padroni che combattevano era cambiata, che il passaggio dalla fase paleocapitalista a neocapitalista era già avvenuta. Diceva che la loro battaglia era assestata sugli stessi principi del 1848 e che per quel motivo non poteva produrre cambiamenti reali nel lungo termine, come di fatto è avvenuto.
Se si analizzano le cose sommariamente si cade in questi equivoci.

Anonimo ha detto...

Del Noce diceva che il comunismo sarebbe sfociato in un grande partito radicale di massa. Così è stato. Aveva dimenticato la destra.
Anch'essa, almeno da quanto si legge qui, sta facendo di tutto per giungere allo stesso risultato.

Anonimo ha detto...

"Pasolini diceva che i giovani del sessantotto non avevano ancora capito che la genetica dei padroni che combattevano era cambiata, che il passaggio dalla fase paleocapitalista a neocapitalista era già avvenuta."

Questa credo sia stata la miglior intuizione di Pasolini. Quando si dice che "Pasolini era antimoderno" mi sembra che lo si voglia per forza classificare, mentre egli ha colto più di altri quella trasformazione da una società capitalista classica, in una Italia ancora "rurale", a una turbocapitalista, con tutte le conseguenze sradicanti che questo avrebbe avuto. Antiprogressista più che antimoderno, direi, non per forza "tradizionalista".
Tuttavia è anche lui un figlio del suo tempo. La sua idea dei "poliziotti figli del popolo" contro i "ragazzi borghesi" lascia il tempo che trova, perché con la cultura del consumo la distanza tra i borghesi e il popolo si sarebbe (idealmente) annullata. Ora ci sono i ricchi e i poveri, soprattutto coloro che detengono grandi capitali da mettere in gioco in nome del consumo generalizzato.
Quando, negli "Scritti corsari" evidenzia come il sesso libero sarebbe diventato un elemento della cultura dei consumi, coglie nel segno. Tuttavia non riesce a intuire come anche le minoranze sessuali sarebbero ben presto entrate tra le categorie dei consumatori. Soprattutto, non sembra neppure sfiorarlo l'idea che le istanze libertarie di quel periodo erano fisiologiche, non per forza dovevano essere inglobate in una cultura come la nostra. Che lo stato, la chiesa o altre istituzioni non debbano influire sulle scelte sessuali degli individui (purchè non siano dannose agli altri, naturalmente) è di per sé sacrosanto. E' paradossale che adesso i gay rivendichino il diritto di essere famiglia, quando la famiglia ha smesso di esistere nella forma ideale, ma non era neppure lecita la negazione sociale dell'omosessualità o della libertà di essere omosessuali.