giovedì 6 settembre 2007

Vecchioni, il professore prestato alla musica (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
dal Secolo d'Italia di mercoledì 20 giugno 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Le parole. Le parole sono già lì, quando noi veniamo al mondo. Accuratamente elencate in quegli strani “libri non libri” che sono i dizionari. Riposte ordinatamente come tessere di un puzzle immenso e tutto da scoprire: se non che – ma vallo a sapere, prima di averci sbattuto il muso qualche milione di volte – l’immagine da ricomporre non esiste, a priori. Ognuno di noi deve trovare la sua. Ognuno di noi, se ha la fortuna di capire che quello lì può essere un gioco meraviglioso, e inesauribile, deve darsi da fare per scoprire che cosa è capace di tirar fuori, da quella sterminata distesa di vocaboli. Che presi uno per uno sono solo pietruzze spaiate. Sassolini asimmetrici che, finché restano separati, non disegnano alcun percorso, ma che nelle giuste combinazioni possono condurre in ogni luogo. Sprigionando le emozioni più acute. O catapultandoci in cima alle vette del pensiero. O producendo qualsiasi altro effetto, dal più banale (“Un caffé macchiato, grazie”) al più suggestivo (“Tre cose sapeva fare Siddharta: digiunare, aspettare, pensare”).
Roberto Vecchioni ci traffica da una vita, con quei sassolini. Li ha usati talmente tante volte, e in talmente tanti modi, e con risultati così buoni – anche in tempi recentissimi – da far sembrare che tutte quelle canzoni, quelle pagine dei libri, quelle ore e ore e ore di lezioni scolastiche, siano un gioco delizioso. Con le sue difficoltà, magari, ma senza alcuna traccia di affanno. Di disorientamento. Di ansia. Al contrario: un gioco impegnativo (se no non vale la candela) ma da affrontare di slancio, con la sicurezza che o presto o tardi ci si imbatterà in qualche genere di sorpresa, e quindi di dono. Un gioco che può lasciarti sfinito, a volte, ma che non cancella mai la voglia di tornare a provarci: con quel miscuglio di dedizione e di compiacimento di chi ha ricevuto dalla sorte un talento particolare, e ora se lo gode; come un bambino che ha avuto la fortuna di scoprirla subito, la passione che lo accompagnerà per sempre.
Ma questa, certo, è la partita vista dal di fuori. Peggio: osservata dopo che è stata giocata. E vinta. A cose fatte diventa tutto logico, nitido, rassicurante. Persino i testacoda sembrano avere un loro perché: non hanno forse aggiunto un po’ di suspense, alla marcia trionfale?
Dall’interno, ed è giusto così, queste certezze te le scordi. Specialmente all’inizio, quando non puoi essere nemmeno sicuro che le tue canzoni te le lasceranno incidere. O che continueranno a fartele incidere, se non ti sbrighi ad acchiappare almeno un accenno di successo. D’accordo: con le parole ci sai fare. Hai già scritto dei testi per diversi cantanti affermate. Vanoni, Cinquetti, Zanicchi. Ma diciamolo con la dovuta franchezza: per sfondare in prima persona non basta. Le canzoni dovrebbero essere più immediate. La voce più robusta. La presenza scenica più perentoria, se non proprio più carismatica.
Può sembrare un giudizio impietoso, persino cinico, ma in un primo tempo le cose stavano esattamente così. A risentirli oggi, i primi quattro album di Roberto Vecchioni sono quasi imbarazzanti, nella loro mancanza di maturità. Tolta qualche rara eccezione, tra cui la celeberrima (e un po’ sopravvalutata) “Luci a San Siro”, il meglio che si può dire è che l’autore ha molte cose da esprimere e che tenta in tutti i modi di forzare i clichè della canzone tradizionale. Ma il bilancio resta insufficiente. I versi, per quanto insoliti, mostrano più ambizione che equilibrio. Le musiche, sminuite da arrangiamenti estranei, danno l’idea di essere nate più come accompagnamento di un testo preesistente che non come creazioni autonome. E la voce, infine, è fin troppo enfatica: insegue la drammaticità, ma si perde nel tremolio. L’effetto complessivo è quello di un prodotto ambiguo: troppo colto per avere la stessa immediatezza del melodico tradizionale, troppo levigato per sprigionare l’energia dirompente della musica “giovanile”.
Eppure, siamo già nel triennio compreso tra il 1971 e il 1974. De André ha già alle spalle, tra l’altro, “La buona novella” e “Non all’amore non al denaro né al cielo”; Guccini “L’isola non trovata” e “Radici”; De Gregori, che pure sta appena affacciandosi sulla grande ribalta nazionale, ha fissato le coordinate del suo stile particolarissimo in brani come “Alice non lo sa”, come “Il ragazzo”, come “Niente da capire”.
Roberto Vecchioni, invece, parte così. In ritardo. Come se, nonostante il giro di boa dei trent’anni sia fissato al 25 giugno del 1973, avesse ancora bisogno di individuare il suo stile. Di capire appieno che cosa gli appartiene e che cosa no. Di comprendere dove bisogna impuntarsi, pur di preservare la propria identità artistica, e dove si può lasciar correre, pur di non perdere il sostegno dei discografici.
Poi, di colpo, i pezzi vanno a posto. Nel 1975, in coincidenza col passaggio dalla Ducale alla Philips, esce lo straordinario “Ipertensione”, che allinea (finalmente!) gioielli come “Irene” e “Canzone per Laura”, come “Canzonenoznac” e “Alighieri”, per chiudere con la magnifica “Pesci nelle orecchie”. Ora sì che le metafore sono nitide, in perfetto equilibrio tra invenzione letteraria e coinvolgimento emotivo. “Irene”, appunto. Proprio in apertura dell’album, ad annunciare il miracolo – forse le cause stesse – dell’avvenuta maturazione. “Non è il tempo della volpe, ora è il corvo il mio dio: questo niente nella mano sono finalmente io”. La musica, a sua volta, sposa la discrezione col fascino, l’intimità con la comunicativa, la sobrietà con la compiutezza. Le difficoltà, le incertezze, gli intoppi dei primi tre lavori sono solo un ricordo. Anzi: un antefatto secondario, che in un buon libro occuperebbe poche righe. O scomparirebbe del tutto.
Il vero Roberto Vecchioni, quello che da allora a oggi ha pubblicato una trentina di album, vendendo oltre sei milioni di copie e, quel che più conta, senza mai smettere di scandagliare nuove soluzioni espressive, è cominciato lì. Lì ha cominciato ad emergere la possibilità di un definitivo superamento dell’idea – o piuttosto del mito, grossolanamente romantico – che la sensibilità artistica sia tanto più acuta quanto più è sofferta. A partire da “Ipertensione”, con questo suo titolo che è lapidario come una diagnosi e che però, identificando la malattia, ne ipotizza implicitamente la cura, Vecchioni inizia a manifestare quella che in seguito risulterà la sua dote migliore. La sua capacità di guardare agli esseri umani, di ogni sesso, razza, età e condizione, come ad altrettanti compagni di viaggio, che avanzano alla meno peggio sull’immensa spianata dell’esistenza. Dio, che pure non può non esistere, ci ha creati e poi lasciati soli. Meglio farsene una ragione, se la distanza tra Lui e noi è divenuta incolmabile.
“Alla stazione di Zima qualche volta c'è il sole, e allora usciamo tutti a guardarlo. E a tutti viene in mente che cantiamo la stessa canzone con altre parole e che ci facciamo male perché non ci capiamo niente”.
Non potendo avere nessuna certezza, sul piano metafisico, resta solo la determinazione a fare del proprio meglio, accettando fino in fondo i pregi e i difetti, le grandezze e le miserie, del nostro essere uomini. Amando la vita in quanto tale. Vivendola senza pretendere di capire anzitempo anche l’aldilà, ovverosia la “non vita”. Pronti a sorreggerci l’un l’altro, in caso di effettiva necessità, ma anche a scuoterci reciprocamente, se la debolezza di un momento precipita in una passività definitiva. O peggio: nello sfruttamento subdolo, assiduo, vampiresco, dell’energia altrui.
Ma tutto questo – tutto questo amore per la vita, e per gli esseri umani che ne portano, a un tempo, la grazia e la maledizione – va scoperto il più presto possibile. Quando ancora la strada è lunga. E molto, moltissimo, si può fare per se stessi e per gli altri.
Viene in mente una sua bellissima canzone, meno nota di tante altre, che si intitola “Lo stregone e il giocatore”. Il vecchio stregone che accetta di giocare con la Morte e, quando la partita è ormai prossima all’epilogo, e fatalmente perduta, comprende quel che in passato non aveva mai capito. Quel che in passato, distratto dalle cose troppo ordinarie della vita quotidiana o da quelle troppo straordinarie dei suoi sortilegi, non aveva mai sentito. “Vide che sulla luna gli sfuggiva la sua vita, e se ne innamorò”. Proprio alla fine. Proprio ora che non c’è più modo di migliorarla, nemmeno un poco, o anche solo di assaporarla, con almeno un pizzico di consapevolezza in più.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Quanto mi sono sentito vecchio al concerto di Vecchioni.
Lo so il gioco di parole è un pò scontato, o meglio lo sarebbe se non avessi nemmeno trent anni.
l episodio al quale mi riferisco risale più o meno al 26 agosto del corrente anno.
Concerto alla Sapienza, io e Vecchioni e tanti altri.
Vecchioni canta, io ascolto, intorno solo gente.
Chi legge ora questo post potrebbe anche pensare “Ecco la parola “Gente” solito snobismo della sinistra” magari !
Il mio disagio nasce proprio da qui.
Allora vi racconto tutto o quasi tutto, partiamo dal mezzo, il mezzo del concerto si intende proprio al centro del concerto potrei dire.è li che stavo io, un po’ post punk, un pò troppo nero, un troppo qualcosa di poco identificabile, nel mezzo di un incubo di Nanni Moretti.
Radical chic ben vestiti che fanno il coro a oh oh cavallo, donne con infradito che affermano di volere un uomo come Vecchioni e poi il massimo il Nerd dell ultima edizione del grande fratello (si lo riconosciuto e mi vergogno per questo) che si auto definiva un intellettuale che scattava foto in continuazione con il suo cellulare.
Al di fuori di poche strofe mezze sbiascicate ricordate forse da un ultimo album acquistato, forse perchè consigliato dalla Palombelli su qualche rivista, e che forse giace tra i CD d’ arredamento in qualche salotto senza ricordi, mi sono accorto con dispiacere sincero che nessuno (o quasi) conosceva capolavori come “Ridi Laura” o “Stranamore”.
Tutto questo mi ha fatto pensare a quanti ascoltano della musica e guardano dei film senza un reale motivo che non sia una sorta di identificazione con qualcosa, ora che la normalità non fa più paura
Dovremmo forse chiamarla mediocrità ?

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Già.
Ciao Amedeo