El tamaño de mi esperanza apparve nel 1926 a Buenos Aires presso l’Editorial Proa ed è una delle opere in prosa della stagione giovanile di Jorge Luis Borges – le altre sono Inquisiciones del 1925 e El idioma de los argentinos del 1929 – a essere state ripudiate dall’autore. E di un ripudio netto si trattava, come si evince da quanto scrive María Kodama – la giovane donna (india? giapponese?) che stette accanto a Borges nei suoi ultimi anni di vita – nell’introduzione del libro, ora pubblicato da Adelphi (La misura della mia speranza, con una nota al testo di Antonio Melis, pp. 146, euro 16).
Una sera del 1971, racconta infatti María, dopo che Borges era stato insignito del dottorato honoris causa a Oxford, durante una chiacchierata con un gruppo di ammiratori, qualcuno accennò a quella dimenticata raccolta di saggi. Borges reagì con stupore, assicurando che quel libro non esisteva, dunque non valeva la pena cercarlo. Poi cambiò discorso. Ma il giorno dopo uno studente gli telefonò: una copia di quel libro si trovava alla Biblioteca Bodleiana. Dunque esisteva, eccome. Con l’aria di chi si arrende al destino, Borges disse alla sua compagna con un sorriso: «Cosa possiamo farci, María, sono perduto!».
Addirittura “perduto”: ma perché? Nel Cammino della mia speranza, è vero, Borges è giovanilmente impetuoso, talvolta costeggia l’enfasi, regola fieramente i conti con la coeva cultura argentina tranciando giudizi sommari, ha toni beffardi, provocatori, insolenti. E poi è un Borges tutt’altro che “occidentale” ed “europeo”: men che meno ha i tratti dello scrittore cosmopolita, curioso e sapiente esploratore di ogni sorta di cultura. Anzi, è argentino fino al midollo, celebra la pampa sconfinata, i poeti dei sobborghi come Evaristo Carriego, il quartiere di Palermo dove visse da bambino, con i suoi cortili invasi da immense notti di luna, la baldanza dei “compadritos”, lo spirito creolo, i vecchi tanghi che erano uno sfacciato alfabeto identitario. Il giovane Borges lancia veri e propri appelli “patriottici”: «È ai criollos che voglio parlare: agli uomini che in questa terra si sentono vivere e morire, non a quelli che credono che il sole e la luna si trovano in Europa. È una terra di esiliati nati, questa, di nostalgici di quanto è lontano e straniero: sono quelli i veri gringos, che il loro sangue lo avvalori o meno, e con essi la mia penna non parla. Voglio conversare con gli altri, con i ragazzi attaccati a questa terra e nostri, che non sminuiscono la realtà di questo Paese. Il mio argomento di oggi è la patria: ciò che vi è di presente, di passato e di futuro». E ancora: «Ormai Buenos Aires, più che una città, è una nazione, e bisogna trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza. Questa è la misura della mia speranza, che ci invita tutti ad essere dèi e a lavorare alla sua incarnazione. Non mi piacciono il progressismo e il criollismo nell’accezione corrente di queste parole. Il primo è un ridursi a essere quasi nordamericani o quasi europei, un intestardirsi a essere quasi altri; il secondo, che un tempo fu parola d’azione (…), oggi è parola di nostalgia».
Un Borges chiuso nella sua “argentinità”? Un momento: è vero che il Nostro, trasformandosi in una sorta di inquisitore, condannò al rogo questa e altre sue opere, ma è altrettanto vero che il criollismo, e cioè l’identità creola, le radici latino-americane che vengono rivendicate, debbono essere capaci di «conversare sul mondo e sull’io, sulla vita e sulla morte».
Insomma, già da allora il “nazionalista” Borges ha ben chiara una cosa: si è universali non sciogliendoci in un magma di indifferenziate suggestioni o sterili mode, ma solo se e quando ci si riconosce in un radicamento, in una storia, in una appartenenza, in un paesaggio con figure, in miti e riti di fondazione. Si è universali, e dunque si può “conversare” con gli altri, solamente se possediamo una lingua, una cultura, una tradizione. Un “volto”. E una “geografia”.
In quella argentina compaiono «due realtà di un’efficacia reverenziale», che nulla hanno a che fare con il progresso e la modernità, ma che vanno riscoperte proprio nella loro genuina forza primitiva. La pampa, “parola infinita” e “sacrario”: il luogo dei “gauchos”, irriverenti e coraggiosi, delle leggende e dei coltelli che brillano alla luce lunare. I sobborghi, labirinti di strade addolciti dalle penombre e dai crepuscoli: il luogo dei “compadritos”, «con i capelli schiacciati e il fazzoletto di seta e le scarpe rialzate e l’andatura curva e lo sguardo travolgente». Qui è nato il tango, non quello «fatto a forza di tratti pittoreschi», ma quello che era un’esplosione «di pura sfacciataggine, di pura spudoratezza, di pura felicità».
Un giovane Borges “avventuroso”, quello che scrive di pampa e di periferie, ma anche di metafore, di versi e di angeli, nella Misura della mia speranza. Certo, se si tiene conto che per lui «ogni avventura è una norma a venire». Nessun contrasto, poi, con l’ordine: «L’Avventura e l’Ordine… A me piacciono entrambi le discipline se c’è eroismo in chi le segue».
E subito balza dalla nostra memoria l’immagine dell’Omero bonaerense, del bibliotecario che rimpiangeva di non aver avuto il destino del guerriero, del gentiluomo vestito di lino bianco, appoggiato al suo bastone, mentre, affabile e cortese, mi faceva il dono della sua conversazione.
L’Argentino che scriveva: «Ormai le strade di Buenos Aires/ sono le viscere dell’anima mia», «La città vive in me come un poema/ che non m’è riuscito di fissare in parole», «Buenos Aires è lì. Il tempo che agli umani/ reca l’amore e l’oro, m’offre appena in retaggio/ questa rosa smorzata, questo intrico selvaggio/ di strade che ripetono i nomi ormai lontani/ del mio sangue…».
Il sangue, i nomi che sono numi e insegne, le eredità plurali. Ripenso a Borges, l’Argentino, che mi parla dei suoi “maiores”. Degli “auctores” e dei libri che sono l’universo: l’Edda e l’Eneide, la Divina Commedia e il Don Chisciotte, le tragedie di Shakespeare, le poesie di Shelley, la filosofia di Schopenhauer. Lo ricordo mentre, dopo avermi spiegato sorridendo che cos’è veramente il tango (incontro d’amore e sfida alla morte), mi ripete con commozione: «Civis romanus sum», «Le mie notti sono piene di Virgilio»; «Il latino è l’idioma del marmo. Una lingua che può essere incisa nel marmo è una lingua eterna».
Mario Bernardi Guardi (Pisa) è scrittore e giornalista, conferenziere e organizzatore culturale. Ha pubblicato in volume saggi su Nietzsche, Borges, Jünger, la cultura mitteleuropea, i tic e i tabù della sinistra, Gobetti,Berto Ricci, Risorgimento e Antirisorgimento. Attualmente scrive su Libero, Il Foglio, Il Tempo, Secolo d'Italia, Il Domenicale, Linea e Palomar.
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