lunedì 29 ottobre 2007

La bibbia del rock'n'roll è diventata (troppo) grande (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 ottobre 2007

Saranno 40 anni il prossimo 9 novembre. E 40 anni, comunque la metti, sono un mucchio di tempo. Un lunghissimo viaggio che, nel caso di “Rolling Stone”, il celeberrimo quindicinale fondato da Jann S. Wenner e Ralph J. Gleason, comincia a San Francisco e approda a New York. Un viaggio reso ancora più intenso dalla velocità sempre più alta, sempre più frenetica, con cui l’America, e il mondo, si sono venuti trasformando. Una miriade di momenti belli. Una miriade di momenti brutti. Come nella vita reale – la vita di un giovanotto che abbia cominciato a darsi da fare nel 1967, in piena baraonda hippy, e negli anni successivi ne abbia combinate di tutti colori, diventando un uomo senz’altro affascinante ma non del tutto sincero, non del tutto affidabile – il percorso compiuto non assomiglia nemmeno lontanamente a un rettilineo. Semplice: rettilinei così lunghi non esistono.
Esistono gli ostacoli, invece. Le innumerevoli difficoltà disseminate lungo la strada. La contraddizione, pressoché insuperabile, tra coerenza e sopravvivenza. Tra il sano desiderio di affermazione, che da ragazzi si nutre di ideali, e il malato, spasmodico bisogno di successo, che da adulti si ingozza di quattrini.
Il nove novembre 1967, quando appare la prima copia di “Rolling Stone”, nessuno può immaginare che quel periodico in forma di giornale diventerà la più famosa e redditizia delle riviste “rock”. Qualsiasi previsione sul futuro sarebbe pura follia. Gleason è un critico già noto, ma Wenner ha appena ventun anni. E non è certo un editore professionista. I soldi per cominciare, i 7.500 dollari necessari a dare inizio all’avventura, se li è fatti prestare da parenti e amici. Stampato il primo numero, per migliorare il giornale si fa appello ai lettori: “Aiutateci!!! Mandateci qualcosa che ci faccia venir voglia di essere pubblicato... Forse lo pubblicheremo, forse vi pagheremo”. Forse. Ammesso che ce la facciamo a restare a galla. Ammesso che le nostre parole interessino a un numero sufficiente di persone. Ammesso che i 25 cents del prezzo non siano troppi per chi ci deve comprare. E troppo pochi per noi che dobbiamo vendere.
La prima copertina è dedicata a John Lennon. Elmetto in testa, come da fotogramma del film “Come ho vinto la guerra”, e occhiali tondi da intellettuale. Una sorta di presagio. Sbiadisce il sodalizio artistico con Paul McCartney, si profila quello esistenziale con Yoko Ono. Di Lennon, però, si parlerà solo a pagina 16, con una “speciale anteprima illustrata” del film di Richard Lester. Il pezzo di apertura è riservato al Festival pop di Monterey. Ed è subito polemica: “Where is the money from Monterey?”. Ovvero: chi ha lucrato sulla promessa iniziale di devolvere i profitti in beneficenza? A quanto ammontano gli utili? Che fine hanno fatto? Cifre alla mano, Michael Lydon fa i conti in tasca agli organizzatori e dice senza mezzi termini che quei conti non quadrano.
Non importa che abbia ragione o torto. Ciò che importa è che, fin dal primissimo numero, la rivista dimostra di essere, di voler essere, qualcosa di meglio che una fanzine da appassionati euforici (e creduloni). “Rolling Stone” non è qui per battere le mani e dettare i tempi alla claque. E’ qui per dire la sua. Innanzitutto sulla musica, ma anche sulla società che c’è intorno. Anche sulla politica.
Il patto che si propone ai lettori non è solo stuzzicante. E’ il migliore che si possa desiderare. Non promette di assecondare i gusti, e le opinioni, di chi compra la rivista (e men che meno i desideri, e le pressioni, degli inserzionisti), ma si impegna a offrire un punto di vista autonomo su quello che succede. Niente mostri sacri, da magnificare sempre e comunque. Niente superstar per diritto acquisito. Il critico di turno ascolterà il disco, o assisterà al concerto, e ne trarrà le dovute conclusioni. Anche sgradevoli. Anche, per così dire, iconoclaste. Per esempio: “Tra tutti i chitarristi blues del dopoguerra, Clapton è il maestro dei cliché”. Firmato, Jon Landau. Il futuro produttore di Springsteen, se vi stesse sfuggendo. Altro che “Clapton is God”, come si leggeva sui muri di Londra.
La forza di “Rolling Stone” è stata questa. E’ su queste basi – oltre che sulle ottime foto, sulle copertine spesso memorabili di Annie Leibovitz & Co. e sulla qualità degli articoli, da quelli prettamente musicali all’attualità “raccontata” del cosiddetto “Gonzo Journalism” di Hunter S. Thompson – che si è costruita la sua straordinaria ascesa. Più di ogni altra pubblicazione di ambito musicale, “Rolling Stone” è riuscita a entrare in sintonia coi propri lettori: al punto che, per molti versi, la storia della rivista rispecchia i cambiamenti (o le mutazioni...) che sono sopravvenuti nella società. Come ha scritto lo stesso Wenner, in occasione del celebratissimo “numero mille” pubblicato il 18 maggio 2006, “I soggetti della nostra rivista sono stati i costruttori del nostro tempo: presidenti e poeti, insider e outsider”. Allo stesso tempo, però, questa duttilità è diventata anche un limite. E un vizio. Di fronte al mutare dei tempi, al venir meno di certe idealità, “Rolling Stone” non ha opposto resistenza. O, quanto meno, non ne ha opposta abbastanza da porsi davvero in antitesi col degrado crescente. Da editore per caso, Jann Wenner si è trasformato (più che volentieri, bisogna aggiungere) in editore di successo. I dati di vendita sono diventati, invece che il riscontro commerciale del proprio seguito, la ragion d’essere delle proprie scelte. Invece che una conseguenza, una causa.
Un po’ per volta, “Rolling Stone” ha perduto l’anima che aveva avuto all’inizio e si è ridotto a essere un grande magazine internazionale. Bello da sfogliare, talvolta interessante da leggere, ma mai e poi mai da aspettare con ansia. Il “ragazzo” che avevamo conosciuto nel 1967 è ormai un manager affermato, che si limita a sfornare un prodotto. Ecco qua i tuoi quattro dollari e mezzo, allora, e tante grazie per la rivista: ma non parliamo più di passione, che non è il caso.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Credo che questa sia la sorte di tutte le riviste. Alla fine campano di rendita e la gente continua a comprarle perchè magari 30 anni fa ebbero un'esclusiva intervista di Mick Jagger.