Dal Secolo d'Italia di venerdì 19 ottobre 2007
Brutti, sporchi e cattivi, questi i giovani che votano (o potranno votare) a destra: l’articolo di Aldo Cazzullo sul Magazine del Corriere della Sera di ieri è tutto in questa sintesi. Non è dato sapere se Aldo Cazzullo sia mai stato giovane o, invece, sia stato sfornato direttamente dalla fabbrica di giornalisti perbene, già adulto e intervistatore di grande giornale. Poco importa, perché, evidentemente, il nostro si è comunque è dimenticato cosa significa essere adolescenti, con il conseguente gusto alla sfida e l’ovvia insofferenza alle regole qual che siano. Non può essere altrimenti: in poche righe, Cazzullo è riuscito, infatti, ad affilare un campionario di luoghi comuni che tutti insieme forse non si erano mai visti.
Cazzullo ha giocato, riuscendoci benissimo, a fare il censore nei confronti di una nuova generazione che, secondo lui, è stata «educata in un disastroso mix di permissivismo e individualismo». Non sono simpatici, a Cazzullo, questi nuovi giovani che «hanno snobbato» Ettore Scola in pellegrinaggio per il Partito democratico al liceo Tasso di Roma. Il giornalista perbene, quindi e ovviamente, si straccia le vesti per la «profonda ignoranza» di questa nuova generazione «maleducata», di questi «nipotini dei Vanzina e dei Vasco Rossi (il poeta di siamo solo noi, che cosa ce ne frega a noi, fegato spappolato e altri slogan solidali e progressisti)». Ma qual è, in definitiva, l'imperdonabile colpa di questi giovani? Quella di fare il proprio mestiere di ragazzi? Di non sbattere i tacchi di fronte all'autorità (politico-culturale) costituita, di arrogarsi il sacrosanto diritto alla leggerezza adolescenziale, di cercare la propria strada nel mondo, di sbagliare e correggersi, di non credere ai professori, ai politici, ai genitori e, anche e per fortuna, ai giornalisti benpensanti? Evidentemente sì. Ma soprattutto, la loro grande colpa, ce la svela Cazzullo, è quella che «voteranno naturaliter a destra». Punto e a capo? No, il discorso continua in un vortice di trombe e fiati da far venire i brividi: «Il problema è che da questi giovani non verrà una spinta verso la destra del merito e della responsabilità, di cui il Paese ha bisogno come dell’aria; ma verso l’eterna destra italiana, per cui la libertà è passare col rosso e sgranocchiare popcorn plastificati e costosissimi nell’orecchio del vicino». A parte il tono teneramente antiquato da vecchio signore della borghesia torinese che si lamenta dei “tempi moderni” e di questi giovani d’oggi “che non rispettano più l’autorità”, “perché di questo passo dove andremmo a finire?”, il ragionamento prende una piega ben più seria. Secondo tale logica, che è anche espressa da Panebianco sullo stesso numero di Magazine, la destra o è retrograda o non è, o è trombona o non è, o è lamentosa o non è, o è “legge e ordine” o non è, la destra, in sostanza, o è vecchia o non è. Perché, è ovvio, ci sarà sempre qualcuno che si alzerà e dirà che le minigonne non vanno bene, che il ballo è depravazione, che Internet è ignoranza che, insomma, l’educazione non è più quella di una volta, che non c’è più rispetto, rigore, merito, responsabilità. Cazzullo fa coincidere in questo modo la “sua” idea di destra con una “Destra” impolitica ed eterna fatta di generazioni che passano, di capelli che cadono, di figli che crescono, una Destra caratteriale, intendiamoci, dignitosissima e nobilissima, che però con il fare politica c’entra veramente poco o niente.
Una cosa è credere nelle regole, un’altra è assolutizzarle come se fossero eterne. Parrà strano, ma consigliamo a Cazzullo la lettura de I Barbari di Alessandro Baricco, là dove racconta l’accoglienza che ebbe la Nona Sinfonia di Beethoven: «Eleganza, purezza e misura si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato». Cosa c’entra Beethoven? C’entra, perché non bisogna scordarsi che, se la destra politica ha nel suo Dna il rispetto delle regole, ha anche un codice genetico che esalta l’innovazione e la decisione. È tra questi due poli che una destra non reazionaria deve agire nella modernità. Il filosofo Jackie Derrida ha spiegato che una «decisione che si limiti ad applicare le regole non è una vera decisione e in verità non decide nulla». È giusto. Ed è per questo che parlare di una destra delle regole senza parlare di una destra delle decisioni è vedere solo un lato della medaglia: quello che non crea politica.
Cazzullo ha giocato, riuscendoci benissimo, a fare il censore nei confronti di una nuova generazione che, secondo lui, è stata «educata in un disastroso mix di permissivismo e individualismo». Non sono simpatici, a Cazzullo, questi nuovi giovani che «hanno snobbato» Ettore Scola in pellegrinaggio per il Partito democratico al liceo Tasso di Roma. Il giornalista perbene, quindi e ovviamente, si straccia le vesti per la «profonda ignoranza» di questa nuova generazione «maleducata», di questi «nipotini dei Vanzina e dei Vasco Rossi (il poeta di siamo solo noi, che cosa ce ne frega a noi, fegato spappolato e altri slogan solidali e progressisti)». Ma qual è, in definitiva, l'imperdonabile colpa di questi giovani? Quella di fare il proprio mestiere di ragazzi? Di non sbattere i tacchi di fronte all'autorità (politico-culturale) costituita, di arrogarsi il sacrosanto diritto alla leggerezza adolescenziale, di cercare la propria strada nel mondo, di sbagliare e correggersi, di non credere ai professori, ai politici, ai genitori e, anche e per fortuna, ai giornalisti benpensanti? Evidentemente sì. Ma soprattutto, la loro grande colpa, ce la svela Cazzullo, è quella che «voteranno naturaliter a destra». Punto e a capo? No, il discorso continua in un vortice di trombe e fiati da far venire i brividi: «Il problema è che da questi giovani non verrà una spinta verso la destra del merito e della responsabilità, di cui il Paese ha bisogno come dell’aria; ma verso l’eterna destra italiana, per cui la libertà è passare col rosso e sgranocchiare popcorn plastificati e costosissimi nell’orecchio del vicino». A parte il tono teneramente antiquato da vecchio signore della borghesia torinese che si lamenta dei “tempi moderni” e di questi giovani d’oggi “che non rispettano più l’autorità”, “perché di questo passo dove andremmo a finire?”, il ragionamento prende una piega ben più seria. Secondo tale logica, che è anche espressa da Panebianco sullo stesso numero di Magazine, la destra o è retrograda o non è, o è trombona o non è, o è lamentosa o non è, o è “legge e ordine” o non è, la destra, in sostanza, o è vecchia o non è. Perché, è ovvio, ci sarà sempre qualcuno che si alzerà e dirà che le minigonne non vanno bene, che il ballo è depravazione, che Internet è ignoranza che, insomma, l’educazione non è più quella di una volta, che non c’è più rispetto, rigore, merito, responsabilità. Cazzullo fa coincidere in questo modo la “sua” idea di destra con una “Destra” impolitica ed eterna fatta di generazioni che passano, di capelli che cadono, di figli che crescono, una Destra caratteriale, intendiamoci, dignitosissima e nobilissima, che però con il fare politica c’entra veramente poco o niente.
Una cosa è credere nelle regole, un’altra è assolutizzarle come se fossero eterne. Parrà strano, ma consigliamo a Cazzullo la lettura de I Barbari di Alessandro Baricco, là dove racconta l’accoglienza che ebbe la Nona Sinfonia di Beethoven: «Eleganza, purezza e misura si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato». Cosa c’entra Beethoven? C’entra, perché non bisogna scordarsi che, se la destra politica ha nel suo Dna il rispetto delle regole, ha anche un codice genetico che esalta l’innovazione e la decisione. È tra questi due poli che una destra non reazionaria deve agire nella modernità. Il filosofo Jackie Derrida ha spiegato che una «decisione che si limiti ad applicare le regole non è una vera decisione e in verità non decide nulla». È giusto. Ed è per questo che parlare di una destra delle regole senza parlare di una destra delle decisioni è vedere solo un lato della medaglia: quello che non crea politica.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
7 commenti:
ma sai, quando una la faccia da cazzullo...
Concordo con la prima parte del discorso di Cazzullo quando parla dei giovani e di quanto siano alla deriva (poi intendiamoci qualche film di Vanzina l'ho visto anche io). Sono sicuramente disinteressati e non hanno rispetto per niente e per nessuno, io lavoro in un museo e vedo la differenza che c'è tra i ragazzi che vengono da altri paesi e dai nostri. I ragazzi inglesi, tedeschi, americani o di qualunque altro paese straniero stanno dietro all'insegnante o alla guida, prendono appunti e non li devi richiamare ogni cinque secondi per dire loro di spegnere i cellulari, di non toccare le statue o i quadri, di non parlare a voce alta di non correre ecc. Cosa che invece bisogna fare di continuo con i ragazzi italiani che vengono a visitare i musei... ma la cosa grave è che gli insegnanti o gli adulti che sono con loro cercano sempre di minimizzare. Allora a questo punto di chi è la colpa? Forse di quegli educatori e genitori che non sanno fare il loro mestiere.
Non sono d'accordo che siano persone che voteranno a destra o a sinistra, sicuramente non voteranno nulla visto che da anni ormai l'educazione civica non viene insegnata nelle scuole e quindi non hanno la benchè minima idea di cosa siano i doveri di un cittadino.
E anche tu hai ragione, Giovanni.
Però Scola - grande regista, intendiamoci - che va in "pellegrinaggio" a fare proseliti in un liceo... è semplicemente penoso. Per me, i ragazzi l'hanno accolto sin troppo bene, era da spernacchiare.
Sulla cortigianeria veltroniana dei registi c'è un bel pezzo di Battista sul Corriere di oggi.
Lo copio - incollo.
Pamuk e Lessing, una lezione
Gli intellettuali alla corte dei politici
Da una parte due premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, che auspicano la liberazione della letteratura dalle pretese asfissianti della politica e dell’ideologia. Dall’altra, in Italia, la folla debordante di scrittori, attori, artisti della penna e del pennello che nel nome di una effimera rivendicazione alla visibilità si accalcano alle porte dei partiti vecchi e nuovi: senza risparmio di imbarazzanti encomi al Capo, peraltro. Pamuk afferma che «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura», e Doris Lessing che «i manifesti uccidono gli scrittori ». Ma c’è da scommettere che, tranne lodevoli eccezioni, l’esortazione di Pamuk e Lessing non riscuoterà molti consensi.
Qui i «manifesti » proliferano, ultimo quello dei registi che si mettono in fila alla Festa romana del cinema per incrementare le già cospicue erogazioni statali per i loro film. E c’è sempre una buona Causa cui consacrare impegno e pubbliche relazioni. E’ tramontato già da tempo il sole dell’«intellettuale organico», ma è come se per scrittori e artisti la solitudine, l’irregolarità, la non appartenenza frutto di una condizione eccentrica e «disorganica » fossero un prezzo troppo salato, una condizione esistenzialmente troppo onerosa e inappagante. Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago ed Harold Pinter. E le loro parole sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a «funzionario dell’Umanità ».
Ma in Italia la fine di una stagione militante e ideologica che ha generato, oltre a ottusi dogmatismi e imperdonabili censure, anche una passione creativa ineguagliata nell’èra del disincanto, ha depositato qualcosa di più e di peggio: un’attitudine adulatoria nei confronti della politica che conferma una vocazione cortigiana forgiatasi nei secoli; un’inclinazione subalterna che, spogliata di ogni riferimento ideologico forte, si rivela soltanto come una forma di soggezione supplice verso il potere politico. Dimostrarsi sensibili all’appello di Orhan Pamuk e Doris Lessing comporterebbe per gli intellettuali italiani riconoscere che ciò che di meglio ha partorito la cultura dell’Italia repubblicana è cresciuto al di fuori degli apparati e degli uffici dove si dispensavano gli attestati di fedeltà ideologica: da Montale a Gadda, da Contini a Longhi, da Flaiano a Fellini, da Brancati a Elsa Morante.
Non fuori della politica, la cui febbre travolgente e contagiosa ha anzi grandiosamente fecondato l’arte e la letteratura moderne. Ma nemmeno in un rapporto ancillare con la politica, con le estetiche di partito, con i manifesti, le dottrine, le candidature, i panegirici, con il moltiplicarsi delle buone Cause. Riconoscere questa eredità, l’unica a restare salda nelle macerie ideologiche del passato, permetterebbe di afferrare il divario stridente tra le parole accorate dei due Nobel e il modo con cui la cultura italiana si adopera per stringere rapporti pericolosi con la politica, con eccessi che mettono in imbarazzo gli stessi politici. Lontana dagli eroismi di un tempo lontano e succube del clamore dei media. Per un posto al sole che non è nemmeno più il sol dell’avvenire.
19 ottobre 2007
La cortigianeria dei registi e degli artisti in generale io non l'attribuirei a Veltroni ma a tutta la sinistra. Credo che sia poi l'eredità di quella lottizzazione che avvenne in Italia l'indomani della guerra e lo abbiamo visto ampiamente in questi anni con la lottizzazione della Rai, il monopolio della sinistra nelle università e nelle scuole e gli attacchi a cui è soggetto Pansa da qualche anno. Al di là se Scola abbia fatto bene o meno ad andare in un liceo romano questi sono affari suoi quello che a me preme e comunque preoccupa è la mancanza di valori e di rispetto che c'è nei giovani.
Ho amici di differenti fasce generazionali e quelle che sono piu' a rischio sono quelle che hanno avuto come insegnanti i "compagni" 68-ini!
Ci sono due fondamentali momenti storici del dopoguerra che hanno contribuito ad i risultati politici, sociali e culturali che osserviamo oggi: il 1968 e la caduta del muro di Berlino.
Quest'ultima per me non ha mai significato la caduta del comunismo, bensi' la realizzazione del sogno dell'Internazionale, che ha cambiato il nome, ma non i contenuti ed oggi si chiama Globalizzazione.
Ciao Vanda! :)
Ciao Roberto e complimenti per il tuo interessantissimo blog e la tua spendida penna!
Smack!
Vanda
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