lunedì 1 ottobre 2007

"Nazi paradise", uno skinheads e un anarchico nelle banlieue napoletane (di Pierluigi Biondi)

Nazi paradise, un romanzo che fa sua la lezione di Céline
Articolo di Pierluigi Biondi
Dal Secolo d'Italia di domenica 30 settembre 2007
Brucia Napoli. Come una banlieue parigina. Come un sobborgo di Los Angeles. Non è il fuoco della rivolta degli emarginati, né dell’odio dei sans papiers nostrani. Non sono i roghi dei piromani che hanno incenerito il Sud e neanche quelli dei cittadini partenopei esasperati che – in nome dell’emergenza monnezza – accendono falò in ode alla vanità del governatore Bassolino e del suo rinascimento di cui si è persa ogni traccia. L’incendio che scuote la città è fatto di rabbia e violenza, di ultras e guardie corrotte, di hackers e skinheads. Tra pestaggi e tafferugli fuori lo stadio, combattimenti tra cani e scontri di piazza, è in corso un’operazione clandestina di polizia denominata “Paradise”. Un giovane nazi, con la passione per la birra Weiss e per le incursioni telematiche nei conti correnti altrui, viene incastrato dalla mobile a seguito di una rissa cui è coinvolto con i camerati Attak, Teschio e Jago, tutti appartenenti al Fronte Skin. Trasferito in commissariato, i metodi spicci di questurini dalle mani pesanti e la prospettiva di finire a Poggioreale lo convincono, suo malgrado, a collaborare ad un’azione di pirateria informatica ai danni dell’inafferrabile Memo, che detiene nel suo PC un fornito database sulle gesta poco nobili delle mele marce della locale «Sbirreria di Stato». Nel compito è affiancato da una perversa e doppiogiochista informatrice di Montale, un ispettore di Ps invischiato fino al collo in affari loschi con la camorra e con un sostanzioso deposito in una banca svizzera. Tra sistemi inaccessibili, chat e password craccate, lo skin (di cui si conosce solo il nick name: DUX) e Memo si incontrano e si intendono al volo e, benché divisi dalla fede politica, si accordano per fregare la cricca mafiosa, decidendo di divulgare in rete il dossier sui traffici illegali degli uomini blu.
Sono questi gli ingredienti e i protagonisti del romanzo breve – o racconto lungo, perenne quanto ozioso dilemma – intitolato Nazi Paradise (Meridiano Zero, pp. 140, € 8). L’autore è Angelo Petrella (nella foto), giovane scrittore napoletano classe ’78, studi classici alle spalle effettuati tra Roma, Siena e Parigi, un presente da critico letterario e saggista, alla sua seconda prova con la casa editrice padovana dopo il felice esordio del 2006 con Cane rabbioso (pp. 89, € 6) e con un nuovo romanzo già ultimato che vedrà la luce tra qualche mese. Quella che viene tratteggiata da Petrella è una Napoli nera e aggressiva, sconvolta dalla guerra metropolitana che si consuma tra gli attori delle contro(sotto)culture di strada, precari della società che vivono in covi e curve ridotte a ghetti in cui sfogare istinti animaleschi. Un underground che disprezza – ampiamente ricambiato – le istituzioni e i povericristi lavoro-famiglia-distinti-dello-stadio. Un mondo clandestino che vede il proprio programma politico riassunto in un’unica frase: «Pure se mi blindano non me ne frega un cazzo. La fede è fede». Doverosa premessa: Nazi Paradise non è il trattato allarmato del solito sociologo a caccia di mostri da copertina, né un libro-denuncia sul modello del Gomorra di Roberto Saviano, anzi. Petrella sembra immergersi nel sottobosco umano che descrive e lo fa non con l’occhio dello studioso con la bacchetta in mano ma con quello del coetaneo curioso e, in fondo, anche affascinato. Lo testimonia il fatto che i personaggi non sono mai rappresentati in maniera caricaturale, eccezion fatta per Montale, per la sua spia Leda, per i pestoni – termine gergale che equivale a “zecche”, “fricchettoni” – e per il bel mondo dei party di lusso. Ironicamente pungente, a tal proposito, la descrizione delle sequenze della festa di Capri cui DUX si intrufola per accedere al computer di Memo.
Il linguaggio è di quelli che, in prima serata tv, verrebbero segnalati col bollino rosso e subissati dai biiip (d’altronde, il lettore, fin dalla copertina, è avvisato con un inequivocabile richiamo di explicit writing): «Alla festa ci stanno un sacco di borghesi… Mi sono dovuto vestire con i pantaloni, la camicia e la giacca e mi sento un coglione. La casa sembra un ricovero per vecchi… La tizia, Leda, sembra meno stronza del solito oggi. Quando la sono andata a prendere al Vomero alle sette e mezza sotto casa c’erano già un paio di suo amici borghesi dimmerda. Lei non c’ha più i vestiti da pestona e s’è messa della roba elegante addosso. Sempre così i comunisti del cazzo: pieni di soldi ma fanno finta di essere dei morti di fame… Sulla barca le troie sono tutte risatine isteriche e minigonne nere, i froci camicie bianche e colpi di sole… Fanno tutti discorsi da borghesi dimmerda tipo parlano di calcio, di locali, di macchine, di soldi. Se becco uno di loro allo stadio prima o poi lo sbatto nel fossato assieme agli sbirri, a questo stronzo… M’immagino se c’erano Attak e gli altri come riducevano questo posto di invertiti… Se ci stesse Teschio qua con il suo pitbull Thordue farei sbranare quest’accozzaglia di pestoni…».
Petrella, come nella migliore tradizione noir, usa uno stile duro e corrosivo in cui si mescolano Quentin Tarantino con Abel Ferrara (a destra), la “letteratura chimica” di Irvine Welsh (quello del celebre Trainspotting) con il giallo di James Ellroy, i romanzi-jazz di Jean-Patrick Manchette con le parole ossessive e disarticolate del futurista Francesco Cangiullo, la cultura pop con il bianco e nero del neorealismo. Anche se il principale modello di riferimento – per esplicita ammissione – è sempre lui, il più grande arrabbiato visionario del Novecento, il maledetto per definizione: Louis-Ferdinand Céline con la sua scrittura «in fretta e furia» e la sua grande lezione del Viaggio al termine della notte.
Ai toni volutamente eccessivi, Petrella accompagna dialoghi asciutti e veloci in cui non viene sprecato neanche un aggettivo. Magari la prosa ne risente a livello estetico ma immergersi in Nazi Paradise – come, del resto, in Cane rabbioso – è come vedere uno di quei film con il colpo di scena assicurato (di norma regalato agli ultimi fotogrammi e quasi mai a lieto fine) in cui si resta in apnea fino ai titoli di coda. Talvolta il ritmo è così incalzante che le pagine scorrono forsennate, come nel caso del resoconto di una manifestazione per la festa del lavoro, anche se «i tizi stanno protestando contro alcune leggi contro l’immigrazione, ch’è l’unica cosa buona che ha fatto questo governo di borghesi». Sentire per credere: «Non c’è modo di entrare in piazza. Gli elicotteri continuano a volare bassissimi e quasi si scontrano con i palazzi… Dall’altro lato in una sola strada c’è un misto di pestoni e camerati che combattono assieme contro i celerini. Sono un duecento in tutto e stanno alzando le barricate con i cassonetti della spazzatura incendiati. Gli sbirri sparano lacrimogeni a ripetizione… La cosa che mi fa incazzare è che vedo solo pestoni per terra ma manco uno sbirro ferito. Dico ai camerati che dobbiamo fare qualcosa per entrare in piazza… Teschio prende una pasticca dalla tasca e dice “adesso ci penso io”. La ingoia e inizia a correre. Lo inseguiamo e vedo che si avvicina a una macchina parcheggiata a venti metri dai celerini. Spacca il tappo della benzina, caccia dallo zaino una bottiglia di alcol e la spruzza sul serbatoio… Teschio fa Sigheil, accende la striscia e urla “correte” mentre noi siamo già venti metri più in là. Manco passano cinque secondi che la macchina esplode… Gli sbirri che stavano di spalle vengono tutti da questa parte, c’è confusione… alcuni gruppi di camerati e pestoni che erano rimasti dentro la piazza ne approfittano e iniziano ad attaccare da dietro con i sampietrini e le bottiglie… la piazza si apre… C’è una macchina ribaltata appoggiata a un albero, un paio di cassonetti in fiamme, un sacco di volantini, manifesti e cartastraccia per terra in mezzo a qualche pozza di sangue… C’è un tizio da solo in mezzo alla piazza con la catena di un motorino in mano e la volante punta verso di lui… La volante accelera…quello alza la catena per lanciarla nel parabrezza. E poi si sente il rumore di uno sparo. In lontananza riesco solo a vedere la sagoma del tizio a terra, immobile, e sento qualcuno che urla “l’hanno sparato!”». Scusate la lunghissima citazione, ma ne valeva davvero la pena!
Quella di skin e anarchici che lottano dalla stessa parte è evidentemente una trovata iperbolica, un gioco sul filo del paradosso: Petrella, è chiaro, si diverte a sparigliare le carte, a scombussolare gli schemi, a creare tipi umani che fanno gridare allo scandalo le vestali del politicamente corretto. In Cane rabbioso era il poliziotto tossicomane e assassino, una specie di “cattivo tenente” nostrano che – pistola fumante in tasca, quintali di coca, psicofarmaci e rum in corpo – intona le note dell’Internazionale tra i compagni della sezione del partito di cui è responsabile, un comunista così malvagio come non l’avrebbero immaginato neanche i comitati civici di Gedda. In Nazi Paradise è il corsaro nero DUX, un ribelle irrefrenabile che, nonostante il suo discutibile pedigree politico e giudiziario, ha un proprio codice morale e riesce persino a dare un senso di “giustizia” alle sue azioni. Un pessimo elemento, certo, ma – in fin dei conti, a Napoli come altrove – c’è anche di peggio.
Pierluigi Biondi, 33 anni (L'Aquila), giornalista, collaboratore dell'Ufficio Stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, sindaco di Villa Sant'Angelo (Aq) dal 2004.

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