Tutto quello che ha preparato la contestazione: il rock, Kerouac, la controcultura...
di Luciano Lanna
Storicizzare il '68. Saggio in cinque parti di Luciano Lanna.
Parte prima: Sul Sessantotto Pasolini aveva torto
Parte seconda: Evola e i Beatles uniti nella lotta
Una cosa è certa: c’è ancora uno scarto netto tra l’immagine del ’68, soprattutto quella consolidata in Italia, e la realtà effettuale di quel processo di cambiamento e modernizzazione delle società occidentali che in quell’anno conobbe l’esplosione. Intanto occorre chiarirsi sull’unità di tempo. L’università di Berkeley, l’inizio di tutto, fu occupata nel ’64. Le grandi manifestazioni studentesche tedesche sono del ’67. Nel ’68 ci furono anche gli studenti messicani massacrati in piazza e la rivolta popolare di Praga contro i carri armati russi. E, soprattutto, la successiva politicizzazione in senso sinistrese fu un fenomeno soprattutto italiano e tedesco. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, dove la contestazione rimase sempre fedele alle sue matrici originarie e generazionali, il ’68 fu un fenomeno – come ha rilevato Beniamino Placido – più esistenziale che politico, realizzato più nel costume che nelle istituzioni, collegato più all’immagine dei Beatles e di Joan Baez che alle figure dei leader arringapopolo, come i nostri».
All’inizio, come abbiamo visto, c’è l’impatto della cultura della beat generation. «Per la prima volta – ha ricordato, ad esempio, Luigi de Anna, contestatore sessantottino "da destra" – ci sentivamo gente anche del nostro tempo, c’era tra noi chi ascoltava Bob Dylan e leggeva Ginsberg, chi divorava Kerouac…». E a Roma, proprio nella primavera del ’68 la Giovane Italia organizzò addirittura un “Dibattito sulla beat generation” – coordinato da Adalberto Baldoni, con gli interventi di Lamberto Biagioni Gazzoli, Piero Verni, Paolo Saleri, Maurizio Bergonzini e Giancarlo Cremonesi – di cui fornirono un ampio e significativo resoconto sia il Secolo d’Italia che il periodico giovanile di destra La Sfida. Insomma, il ’68 era il prodotto finale di tutto un ciclo
virtuoso avviatosi all’inizio degli anni ’60 (più che, come qualcuno vorrebbe, l’inizio di qualcosa).
La diffusione della “controcultura” nel quinquennio successivo al ’63 fu soprattutto – come attesta lo storico Massimo Teodori (nella foto a lato) – «il fenomeno che incise maggiormente nella società inglese degli anni Sessanta e che caratterizzò i processi di trasformazione di quel paese tra le masse giovanili e, attraverso di esse, dell’intera società». All’inizio fu proprio in Gran Bretagna che nascono, nell’area centrale di Londra, moltissimi coffee bar e altri luoghi di aggregazione in cui si davano appuntamento tutti coloro che si richiamavano alla cultura beat, che leggevano il poeta e romanziere Colin Wilson, che avevano accolto con entusiasmo John Osborne e i “giovani arrabbiati”, che si riallacciavano alle rivolte studentesche americane e – questo va rilevato – alla cultura delle avanguardie europee d’inizio secolo: surrealismo, futurismo, dadaismo... E poco dopo sarà la musica pop a costituire il nuovo cemento unificante nell’immaginario, prima con una miriade di band e gruppi sparsi ovunque nel paese, successivamente con i grandi complessi che diventarono i guru delle nuove generazioni, a cominciare dai Beatles. «Intorno al comune linguaggio della musica – precisa Teodori – prendeva corpo quello che venne definito l’underground, trattandosi di un mondo e di una società che vivevano al di sotto di quella. Un fenomeno che coinvolse migliaia di giovani i quali diedero vita a comportamenti, a modi e forme d’espressione, a una trama di rapporti interpersonali, a uno stile di vita».
Un esempio preciso? Yellow submarine, incisa nel 1966, è la canzone-manifesto dei Beatles, e quel sottomarino è la metafora di un’utopia concreta, di libertà e comunità, e allude neanche troppo indirettamente all’idea di un’alterità dei giovani dal mondo convenzionale degli anni Sessanta. E forse non è casuale un’analogia, come suggerisce Alessandro Carrera, «tra la microsocietà dei Beatles e il ritratto di una giovinezza assolutamente felice e indipendente come la troviamo nei primi capitoli del Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien. E infatti la diffusione di quel libro tra i giovani di tutto il mondo avviene proprio in quegli anni». Alla vigilia del ’68 la trilogia di Tolkien nei campus statunitensi diventa, come è stato detto, “la Bibbia degli hippies” e in tutte le università americane circolavano i famosi distintivi con la scritta «Frodo lives!»: “Frodo è vivo”. «In questo mondo parallelo – continua l’analogia avanzata da Carrera – in cui tutto può accadere tutte le influenze e tutte le suggestioni sono ben accette, ed ecco che i Beatles cominciano a complicare le loro canzoni, a inserire strumenti a sorpresa, trucchi di registrazione, scale e modi indiani aprendo la porta a ogni possibile contaminazione». E “contaminazione” è forse la migliore parola chiave per comprendere a fondo lo spirito della controcultura di quegli anni.
Anche in Italia, quindi, a partire dal 1966 il termine beat entra nell’uso corrente del linguaggio, non solo giovanile. Proprio in quell’anno l’allora giovane cantautore Francesco Guccini scrive una canzone che faceva il verso all’Urlo di Allen Ginsberg e che nel titolo – Dio è morto – riecheggiava esplicitamente un’espressione dello Zarathustra di Friedrich Nietzsche: «Ho visto la gente della mia età andare via / lungo le strade che non portano mai a niente / cercare il sogno che conduce alla pazzia / nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo / e un Dio che è morto / ai bordi delle strade Dio è morto / nelle auto prese a rate Dio è morto / nei miti dell’estate Dio è morto...». E quella canzone sintetizzava alla perfezione la “novità” dei tempi nuovi: poteva essere ascoltata nei gruppetti dei ragazzi di sinistra, ma anche suonata dai cattolici durante la messa o i raduni giovanili e veniva intonata anche dai ragazzi di destra per l’evidente riferimento nietzscheano.
Il beat insomma faceva così irruzione anche da noi e preparava il mix esplodivo: dapprima circoscritto alla sola musica, il termine si estende a definire un abbigliamento, un look, un’estetica, un modo di esprimersi e sentirsi lontano dai vecchi schemi. È il tratto che unifica la “generazione del Piper”, che prendeva il nome dal club che aveva aperto i battenti il 17 febbraio del ’66, a Roma. «Erano anni che sognavo di far ballare i ragazzi in un locale popolare come questo...», disse all’inaugurazione l’avvocato Alberico Crocetta, uno dei tre soci del Piper club. È un uomo di trentassette anni, nato in Africa, già giovanissimo marò nell’avventura repubblichina della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, da sempre appassionato di musica e da sempre dall’altra parte rispetto al bacchettonismo piccolo-borghese: «Fu in America, a New York, che – racconta Gianni Borgna nel fondamentale saggio Il tempo della musica. I giovani da Elvis Presley a Sophie Marceau – andando da un night all’altro gli venne in mente di aprirne uno a Roma sul tipo di Small Paradi Paradise, un noto salone da ballo di Harlem frequentato da giovani scamiciati e capelluti che si dimenano al suono di ritmi esotici e chitarre elettriche. Trovati oltre cento milioni e due soci, l’importatore di carni macellate Alessandro Diotallevi e il commerciante di automobili Giancarlo Bornigia, l’avvocato Crocetta scelse il posto, un nuovo palazzo a due passi da piazza Buenos Aires». Era il Piper di via Tagliamento, un locale destinato a diventare l’icona di tutta una generazione e un vero e proprio fenomeno di costume. «Il Piper – ha spiegato Tiziano Tarli in Beat italiano – era una zona “franca” rispetto all’autoritarismo di tutte le istituzioni. Ci si vestiva come si voleva, si ballava scatenati senza inibizioni o si sedeva per terra. I ragazzi potevano esprimersi e comunicare con le nuove regole che stavano cercando. Era un posto liberatorio, senza formalismi... Per i giovani il locale era un traslato della famiglia dove era possibile realizzare l’idea della libertà individuale». Lì dentro si dà convegno tutte le sere il meglio del beat musicale italiano: i Rokes, i Dik Dik, l’Equipe 84, Caterina Caselli, Renato Zero, Mita Medici e, soprattutto, Patty Pravo, la “ragazza del Piper”... Lì passano e si esibiscono, tra gli altri, i Birds, i Pink Floyd e i Genesis.
All’inizio, come abbiamo visto, c’è l’impatto della cultura della beat generation. «Per la prima volta – ha ricordato, ad esempio, Luigi de Anna, contestatore sessantottino "da destra" – ci sentivamo gente anche del nostro tempo, c’era tra noi chi ascoltava Bob Dylan e leggeva Ginsberg, chi divorava Kerouac…». E a Roma, proprio nella primavera del ’68 la Giovane Italia organizzò addirittura un “Dibattito sulla beat generation” – coordinato da Adalberto Baldoni, con gli interventi di Lamberto Biagioni Gazzoli, Piero Verni, Paolo Saleri, Maurizio Bergonzini e Giancarlo Cremonesi – di cui fornirono un ampio e significativo resoconto sia il Secolo d’Italia che il periodico giovanile di destra La Sfida. Insomma, il ’68 era il prodotto finale di tutto un ciclo
virtuoso avviatosi all’inizio degli anni ’60 (più che, come qualcuno vorrebbe, l’inizio di qualcosa).
La diffusione della “controcultura” nel quinquennio successivo al ’63 fu soprattutto – come attesta lo storico Massimo Teodori (nella foto a lato) – «il fenomeno che incise maggiormente nella società inglese degli anni Sessanta e che caratterizzò i processi di trasformazione di quel paese tra le masse giovanili e, attraverso di esse, dell’intera società». All’inizio fu proprio in Gran Bretagna che nascono, nell’area centrale di Londra, moltissimi coffee bar e altri luoghi di aggregazione in cui si davano appuntamento tutti coloro che si richiamavano alla cultura beat, che leggevano il poeta e romanziere Colin Wilson, che avevano accolto con entusiasmo John Osborne e i “giovani arrabbiati”, che si riallacciavano alle rivolte studentesche americane e – questo va rilevato – alla cultura delle avanguardie europee d’inizio secolo: surrealismo, futurismo, dadaismo... E poco dopo sarà la musica pop a costituire il nuovo cemento unificante nell’immaginario, prima con una miriade di band e gruppi sparsi ovunque nel paese, successivamente con i grandi complessi che diventarono i guru delle nuove generazioni, a cominciare dai Beatles. «Intorno al comune linguaggio della musica – precisa Teodori – prendeva corpo quello che venne definito l’underground, trattandosi di un mondo e di una società che vivevano al di sotto di quella. Un fenomeno che coinvolse migliaia di giovani i quali diedero vita a comportamenti, a modi e forme d’espressione, a una trama di rapporti interpersonali, a uno stile di vita».
Un esempio preciso? Yellow submarine, incisa nel 1966, è la canzone-manifesto dei Beatles, e quel sottomarino è la metafora di un’utopia concreta, di libertà e comunità, e allude neanche troppo indirettamente all’idea di un’alterità dei giovani dal mondo convenzionale degli anni Sessanta. E forse non è casuale un’analogia, come suggerisce Alessandro Carrera, «tra la microsocietà dei Beatles e il ritratto di una giovinezza assolutamente felice e indipendente come la troviamo nei primi capitoli del Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien. E infatti la diffusione di quel libro tra i giovani di tutto il mondo avviene proprio in quegli anni». Alla vigilia del ’68 la trilogia di Tolkien nei campus statunitensi diventa, come è stato detto, “la Bibbia degli hippies” e in tutte le università americane circolavano i famosi distintivi con la scritta «Frodo lives!»: “Frodo è vivo”. «In questo mondo parallelo – continua l’analogia avanzata da Carrera – in cui tutto può accadere tutte le influenze e tutte le suggestioni sono ben accette, ed ecco che i Beatles cominciano a complicare le loro canzoni, a inserire strumenti a sorpresa, trucchi di registrazione, scale e modi indiani aprendo la porta a ogni possibile contaminazione». E “contaminazione” è forse la migliore parola chiave per comprendere a fondo lo spirito della controcultura di quegli anni.
Anche in Italia, quindi, a partire dal 1966 il termine beat entra nell’uso corrente del linguaggio, non solo giovanile. Proprio in quell’anno l’allora giovane cantautore Francesco Guccini scrive una canzone che faceva il verso all’Urlo di Allen Ginsberg e che nel titolo – Dio è morto – riecheggiava esplicitamente un’espressione dello Zarathustra di Friedrich Nietzsche: «Ho visto la gente della mia età andare via / lungo le strade che non portano mai a niente / cercare il sogno che conduce alla pazzia / nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo / e un Dio che è morto / ai bordi delle strade Dio è morto / nelle auto prese a rate Dio è morto / nei miti dell’estate Dio è morto...». E quella canzone sintetizzava alla perfezione la “novità” dei tempi nuovi: poteva essere ascoltata nei gruppetti dei ragazzi di sinistra, ma anche suonata dai cattolici durante la messa o i raduni giovanili e veniva intonata anche dai ragazzi di destra per l’evidente riferimento nietzscheano.
Il beat insomma faceva così irruzione anche da noi e preparava il mix esplodivo: dapprima circoscritto alla sola musica, il termine si estende a definire un abbigliamento, un look, un’estetica, un modo di esprimersi e sentirsi lontano dai vecchi schemi. È il tratto che unifica la “generazione del Piper”, che prendeva il nome dal club che aveva aperto i battenti il 17 febbraio del ’66, a Roma. «Erano anni che sognavo di far ballare i ragazzi in un locale popolare come questo...», disse all’inaugurazione l’avvocato Alberico Crocetta, uno dei tre soci del Piper club. È un uomo di trentassette anni, nato in Africa, già giovanissimo marò nell’avventura repubblichina della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, da sempre appassionato di musica e da sempre dall’altra parte rispetto al bacchettonismo piccolo-borghese: «Fu in America, a New York, che – racconta Gianni Borgna nel fondamentale saggio Il tempo della musica. I giovani da Elvis Presley a Sophie Marceau – andando da un night all’altro gli venne in mente di aprirne uno a Roma sul tipo di Small Paradi Paradise, un noto salone da ballo di Harlem frequentato da giovani scamiciati e capelluti che si dimenano al suono di ritmi esotici e chitarre elettriche. Trovati oltre cento milioni e due soci, l’importatore di carni macellate Alessandro Diotallevi e il commerciante di automobili Giancarlo Bornigia, l’avvocato Crocetta scelse il posto, un nuovo palazzo a due passi da piazza Buenos Aires». Era il Piper di via Tagliamento, un locale destinato a diventare l’icona di tutta una generazione e un vero e proprio fenomeno di costume. «Il Piper – ha spiegato Tiziano Tarli in Beat italiano – era una zona “franca” rispetto all’autoritarismo di tutte le istituzioni. Ci si vestiva come si voleva, si ballava scatenati senza inibizioni o si sedeva per terra. I ragazzi potevano esprimersi e comunicare con le nuove regole che stavano cercando. Era un posto liberatorio, senza formalismi... Per i giovani il locale era un traslato della famiglia dove era possibile realizzare l’idea della libertà individuale». Lì dentro si dà convegno tutte le sere il meglio del beat musicale italiano: i Rokes, i Dik Dik, l’Equipe 84, Caterina Caselli, Renato Zero, Mita Medici e, soprattutto, Patty Pravo, la “ragazza del Piper”... Lì passano e si esibiscono, tra gli altri, i Birds, i Pink Floyd e i Genesis.
Parte da lì un fenomeno che coinvolgerà i giovani di tutta Italia e, nel corso dell’edizione del festival di San Remo ’66, viene anche diffuso un “manifesto del beat italiano” in quattordici punti. A stilarlo sono un giovane cantante esordiente, Lucio Dalla, il paroliere Sergio Bardotti e un altro ex della Decima Mas, l’eretico-pop Piero Vivarelli. In quel manifesto, tra l’altro, vi si legge: «Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa i musei». E ancora: «Siamo, senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessità di aderire a quella “tendenza” che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan». E infine: «Il nostro modo di pensare alla musica è anche il nostro modo di vivere. Noi crediamo nei giovani e lavoriamo per loro. Si può essere vecchi anche a 18 anni... Noi cerchiamo il disprezzo di tutti quelli che non pensano come noi... del resto è abbondantemente contraccambiato».
Sono questi intrecci esistenziali, questi fenomeni di costume e queste novità generazionali a definire il nuovo clima generale dentro cui maturerà l’esplosione, due anni dopo, della contestazione universitaria in tutta Europa. «Il ’68 a Firenze – ha scritto Maurizio Lampronti, curatore dell’archivio storico del Sessantotto fiorentino – cominciò molto prima, come d’altronde anche nel resto d’Italia. A Firenze, in particolare, nel novembre ’66 ci fu l’alluvione, e qui vennero giovani da tutta Italia, i primi beats, i freaks e tanti altri a sostituirsi all’inerzia dei pubblici poteri: grande fu il loro contributo sia nell’aiuto alla cittadinanza sia nel salvataggio di libri e di opere d’arte». Fu l’epopea dei cosiddetti “angeli del fango”, una vera prova del nove della possibilità di generazionale tra giovani. C’erano tutti, arrivati a Firenze in pullman o in autostop: beat e “fascisti”, goliardi e capelloni, cattolici del dissenso e laici libertari, iscritti al Pci o alla Giovane Italia... Lo hanno ricordato, nel quarantennale della tragedia, i tantissimi reduci. E per la vulgata giornalistica era i giovani, gli studenti tout court... Stavano lì per salvare la memoria di una città e portare solidarietà concreta ai fiorentini... Le differenze e gli schemi erano saltati. Un po’ come al Piper, dove si offriva – sottolinea Tiziano Tarli – «l’opportunità di gettare un ponte che univa i giovani di estrazione sociale molto diversa, dal borgataro al pariolino. Significava permettere loro di incontrarsi, di scambiare delle idee, di frequentarsi, di eliminarecerte barriere. E questo era certamente un fatto nuovo...».
(3 - continua)
Sono questi intrecci esistenziali, questi fenomeni di costume e queste novità generazionali a definire il nuovo clima generale dentro cui maturerà l’esplosione, due anni dopo, della contestazione universitaria in tutta Europa. «Il ’68 a Firenze – ha scritto Maurizio Lampronti, curatore dell’archivio storico del Sessantotto fiorentino – cominciò molto prima, come d’altronde anche nel resto d’Italia. A Firenze, in particolare, nel novembre ’66 ci fu l’alluvione, e qui vennero giovani da tutta Italia, i primi beats, i freaks e tanti altri a sostituirsi all’inerzia dei pubblici poteri: grande fu il loro contributo sia nell’aiuto alla cittadinanza sia nel salvataggio di libri e di opere d’arte». Fu l’epopea dei cosiddetti “angeli del fango”, una vera prova del nove della possibilità di generazionale tra giovani. C’erano tutti, arrivati a Firenze in pullman o in autostop: beat e “fascisti”, goliardi e capelloni, cattolici del dissenso e laici libertari, iscritti al Pci o alla Giovane Italia... Lo hanno ricordato, nel quarantennale della tragedia, i tantissimi reduci. E per la vulgata giornalistica era i giovani, gli studenti tout court... Stavano lì per salvare la memoria di una città e portare solidarietà concreta ai fiorentini... Le differenze e gli schemi erano saltati. Un po’ come al Piper, dove si offriva – sottolinea Tiziano Tarli – «l’opportunità di gettare un ponte che univa i giovani di estrazione sociale molto diversa, dal borgataro al pariolino. Significava permettere loro di incontrarsi, di scambiare delle idee, di frequentarsi, di eliminarecerte barriere. E questo era certamente un fatto nuovo...».
(3 - continua)
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, di Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Nessun commento:
Posta un commento