Seconda parte.
Per leggere la prima parte clicca... Sul Sessantotto Pasolini aveva torto (di Luciano Lanna)
Un recente romanzo autobiografico, Baci e bastonate. Cronache di un sessantottino nero (Edizioni Angelo Manzoni, 136, euro 12), scritto dal giornalista Augusto Grandi, ripropone già dal titolo un frequente “non-detto” – l’aderenza alla contestazione di tantissimo giovani che politicamente si collocavano a destra – che è ormai necessario tirare fuori e tematizzare per cercare di comprendere fino in fondo la complessità del Sessantotto. «Avevamo sperato – racconta, ad esempio Guido Paglia, allora giovane sessantottino a Roma nonostante fosse, come oggi, su posizioni politiche di destra – nella possibilità, al di là delle diverse ideologie, di un fronte comune tra i giovani per migliorare la società in cui vivevamo…». Così, in Toscana, parteciparono e si sentirono a pieno titolo dentro la contestazione del ’68 i futuri storici Franco Cardini e Luigi de Anna, entrambi militanti del movimento Giovane Europa. E allo stesso modo, in Francia, il gruppo destrorso di Occident – dal quale provengono molti esponenti di primo piano dell’Ump di Sarkozy – fu in prima fila nelle occupazioni. Ha raccontato uno di loro, Jack Marchal: «Mi ritrovai a Nanterre, primo anno di sociologia, nello stesso gruppo di studio di Daniel Cohn-Bendit. Eravamo il gruppo più spontaneista e libertario che si poteva trovare nel trambusto della contestazione. E ci collocavamo a destra…». Per non dire di interi atenei, si veda da noi il caso di Messina, a guidare la contestazione erano tout court i leader della destra giovanile locale… Come se non bastasse, anche l'attuale capogruppo di Forza Italia in Senato, Renato Schifani, ha recentemente confessato al Magazine del Corriere: «Ho fatto il '68 anch'io. Da ragazzo ho occupato il liceo Cannizzaro di Palermo... Che io fossi lì a occupare fece un certo scalpore perchè ero uno studente modello... Non ero comunista».
Sta forse soprattutto “qui” la questione del ’68 originario: lo spirito della contestazione si pose, almeno all’inizio, i vecchi, automatici e scontati sensi d’appartenenza di derivazione ottocentesca. Fu, da questo punto di vista, una reazione spontanea alla triste egemonia degli anni Cinquanta fatta di esistenzialismo ammuffito, azionismo di retroguardia, marxismo da sezione, crocianesimo, cattolicesimo progressista, neorealismo e neo-illuminismo… In nome della libertà saltavano infatti i vecchi compartimenti stagni. «In alcune aule – raccontava in quei giorni Mario Tedeschi in una cronaca per il settimanale il Borghese significativamente intitolata «Il camerata Mao all’università» – sono state lette citazioni di Guevara e, subito dopo, senza proteste da parte dell’assemblea, di Julius Evola...». E non a caso proprio nella Genova di Fabrizio De André nasceva, all’interno di tutto questo fermento creativo, il primo nucleo del futuro Centro studi evoliani. Lo ha rievocato Renato Del Ponte, poi fondatore e animatore del cenacolo, in quei giorni studente universitario ed esponente del Fuan: «Chi non ricorda l’episodio di Valle Giulia e le facoltà assediate, la rabbia studentesca, la rivolta che allora parve di tutta una generazione?». Fu proprio allora, stando alla sua ricostruzione, che il Fuan genovese conobbe una stagione di attivismo politico-intellettuale senza precedenti che culminò nell’occupazione della facoltà di Filosofia. «Nei corridoi dell'ateneo – ha ricordato Del Ponte – addirittura alcuni futuri militanti delle Br come Enrico Fenzi, allora assistente alla cattedra di Letteratura italiana, mi salutavano sommessamente con un certo timore misto a rispetto... E non a caso proprio in quel fermento giovanile vennero poste le premesse per la riscoperta e la riacquisizione al mondo culturale e politico della seconda metà del ’900 di un pensatore della statura di Julius Evola. Da quel momento in poi verranno ristampate a getto continuo le sue opere (Rivolta contro il mondo moderno già nel ’69), sempre più ospitati suoi articoli, maggiormente dato spazio al suo pensiero e alle sue prese di posizione». D'altronde, forse non è una casualità, proprio nel febbraio ’68 Evola aveva mandato in libreria - per le edizioni di Vanni Scheiwiller - il suo libro L'arco e la clava, in cui appariva un saggio d'estrema attualità per interpretare quanti stava accadendo in quei giorni: «La gioventù, i beats e gli anarchici di destra». Un libro che, dopo un decennio di appannamento della fortuna editoriale di Evola, rilanciava tra i giovani il pensatore esoterico già pittore e poeta dadaista. L’arco e la clava si esaurì infatti nell’arco di pochi mesi e fu la premessa per una seconda "Evola renaissance" dopo la prima “riscoperta”, avvenuta alla fine degli anni Quaranta per opera del cenacolo giovanile romano animato da Massimo Scaligero. Segno – come ha poi spiegato Gianfranco de Turris – che, insieme ad altri autori, anche Evola nel ’68 veniva visto come «una specie di maestro segreto di quel moto ribellistico giovanile, almeno di quella parte che non si era fatta influenzare completamente dalla trimurti Marx, Marcuse, Mao». In realtà, rifiutando l'ossequio di principio verso le discriminanti dei due decenni seguiti alla fine della guerra – l’antifascismo e l'anticomunismo - che ormai apparivano datate e riferite al “mondo di ieri”, come anche la subordinazione agli apparati accademici, sindacali o partitici, il '68 originario era di fatto il sintomo non solo della crisi delle culture dominanti – quella cattolica (ma intesa, in senso sociologico diffuso, nella versione crociana del “perché non possiamo non dirci cristiani”) e quella marxista – ma prefigurava l’esaltazione del “personale” e l'irruzione della domanda di mobilità sociale e culturale, anticipando il bisogno di contaminazione, la volontà di andare oltre la destra e la sinistra e gli steccati ideologici di matrice ottocentesca ma anche, nel nostro caso, il desiderio di spezzare quella ferrea dittatura egemonica a doppia faccia – neo-realismo progressista e conservatorismo pseudo-cattolico – tipica del clima culturale scaturito dalla Resistenza. Non a caso fu in questo contesto che – oltre alla celebrata fortuna di massa della scuola sociologica di Francoforte con gli scritti di Horkheimer, Adorno e Marcuse – si cominciarono a “sdoganare” anche autori come – tra gli altri – Nietzsche, Villon, Pound, Guénon, Steiner, Stirner, Hesse, Artaud, Breton, Jünger e, appunto, Julius Evola. Si rompeva con l’idealismo di matrice hegeliana, con l’illuminismo e con il neo-realismo che avevano caratterizzato, quasi ovunque in Occidente, i primi anni del secondo dopoguerra. Ed emergeva la cosiddetta “controcultura” la cui fioritura era stata avviata già all'inizio del decennio. «Il 1968 – ha scritto Adalberto Baldoni – è un evento che si è esteso in ogni continente, ma tutto è iniziato negli Stati Uniti nei primi anni Sessanta da un terreno già fertile». All’inizio c’è infatti la cultura della beat generation e dei movimenti underground e d’avanguardia come il Living Theatre che si battevano per la libertà e i diritti civili contro l’autoritarismo e il modello consumista. L’attrice e fondatrice del Living, Judith Malina, ha spiegato – intervistata nel docu-film Sessantotto di Ferdinando Vicentini Orgnani – che un loro spettacolo, Paradise Now, è senz’altro l’espressione artistica che più ha caratterizzato lo spirito del ’68: «Sì, il paradiso, dove siamo liberi, ci sentiamo liberi e possiamo fare quello che ci pare... oltre la nostra frustrazione: non posso fare questo, non posso fare quello...». A un certo punto dello spettacolo c’era Julien Beck che urlava: «... il paradiso è nelle piazze». Era la stagione dei libri di Kerouac, Ginsberg e Burroughs, dei giovani armati di chitarra e sacco a pelo che attraversavano l'Europa e il mondo in autostop, di chi cominciava ad ascoltare la musica in modo nuovo. Blowin in the wind di Bob Dylan, del 1962-63, fu – annota Roberto Massari nel libro Il ’68 come e perché – il primo vero “inno” universalmente riconosciuto di questo mondo giovanile impegnato nella sistematica trasformazione di se stesso». Massari, che parla di una «nuova koiné culturale che s’era creata per la prima volta tra le due sponde dell'Atlantico», spiega che irruppe improvvisamente «la consapevolezza di far parte di un processo di trasformazione spirituale, intesa come creazione di una controcultura». E, da protagonista italiano di quegli anni e di quella temperie, aggiunge che quell’atteggiamento libertario verso la vita «poteva rimanere sospeso indefinitamente o canalizzarsi verso altre discipline (l’esoterismo, l'erboristeria, il piccolo artigianato), altre forme d’espressione (il linguaggio delle mani, l’apprendimento di strumenti musicali) o altri credo filosofici o religiosi». È il periodo in cui l’Occidente riscopre il buddhismo, l’India, il sufismo islamico, i Ching, l’astrologia, la “quarta via” gurdjieffiana, il Tantra, della cultura tibetana, la bio-energetica di Wilhelm Reich, il Taoismo... È il periodo in cui i giovani occidentali riscoprono l’Oriente, è il momento in California della grande fama di Timothy Leary e di Ken Kesey, e della Haight-Ashbury Street, la strada di San Francisco il cui nucleo è costituito d un ex negozio di elettrodomestici, in cui si accumulano oggetti: manifesti e poster, indumenti orientali, giornali e riviste underground. E che tutto questo non potesse facilmente essere incluso nella cultura di sinistra, lo dimostrava una canzone dei Beatles, Revolution: «Tu dici che cambierai la Costituzione / Noi vogliamo cambiare la testa / Tu dici che sono le istituzioni / Tu farai meglio a liberare prima il tuo spirito. / Ma se continui a portare su di te delle foto del presidente Mao / Nessuno ti seguirà, credimi».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, di Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Nessun commento:
Posta un commento