Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia di sabato 10 novembre 2007
E' ormai un fatto: dal 10 ottobre, in conseguenza di una direttiva della Unione europea datata 20 settembre 2007, dobbiamo dire addio alle vecchie cabine telefoniche. Inizia, infatti, in ossequio alla direttiva della Commissione europea, la cessazione dell’obbligo da parte dei megagruppi Tlc di mantenere un congruo numero di cabine pubbliche per servire la popolazione: le cabine resteranno solo nelle zone di maggiore affluenza, ma non più – ad esempio – in campagna e provincia (nonostante molte di esse vivano uno stato di abbandono, a tutto discapito, ad esempio, del 23 per cento di nostri connazionali che non possiedono il cellulare).
Insomma, dopo una strenua lotta – quasi fosse una Termopili tecnologica – le care e vecchie cabine sono state costrette ad andare definitivamente in pensione. La sentenza suona ultimativa: in pensione dopo 100 anni. Lifting e restyling, a botte di sms e fax, non hanno impedito l’obsolescenza e la percezione diffusa di un servizio anacronistico. E se non fosse per migranti che le affollano, risparmiando qualche centesimo, per sentire come vanno le cose a casa, oppure, per certi villanzoni che, maldestramente atteggiandosi a improvvisati Keith Haring, le “impreziosiscono” dei loro graffiti, non l’avremmo, mai e poi mai, notato.
Prima di Internet, di “palmari” e cellulari, c’era infatti il telefono fisso, alla cui compagnia s’affiancava su e giù, un po’ qui e un po’ là, la cabina telefonica. Strade, crocicchi, viali, viottoli di capitali e piccoli borghi di provincia erano contrassegnati dalla presenza fissa, attenta, imperturbabile di cabine e punti telefonici.
Una topografia speciale e complementare del sentiero della modernizzazione placida, non ancora trasposto a monito elettorale da Umberto Bossi di Cassano Magnago nell’urlo: «la gabina elettorale».
Adesso, di questi tempi in cui cbasta digitare, sfiorare in sequenza tasti e icone corriamo il rischio di un fuorviante passatismo, incartapecoriti dal ricordo impresso nella memoria, però, però era proprio un’altro mondo. Già, gli elenchi telefonici raccontavano qualcosa di diverso: una ridda d’inserzioni, dal lattaio sottocasa al gommista “pregiato” e a buonmercato, sino alla pubblicità biricchina della Coppertone, grazie al cagnolino impertinente che svelava il “side B” di Jodie Foster. Le lunghe file per chiamare la pupattola che ci faceva girare la testa, il cui ricevitore, risultava occupato, mentre la lamiera si faceva torrida, nonché le eleganti scene cinematografiche, dove s’ordivano attentati e agguati, o, storie d’amore andavano a cominciare o finire non ci sono più. Tutto è comodamente reso più impalpabile nella sentenza da: «Pronto come stai?» al «Pronto dove sei?». Una vera e propria rivoluzione ontologica.
La cabina telefonica, come l’opposto della chiamata nomade, insomma, flessibile, connessa della società destrutturata, quindi della comunicazione a morsi e pezzetti. Lì la civiltà delle macchine, qui il software.
Prima il processo, ora la procedura tecnica. La pazienza e l’attesa rituale, talvolta scomposta nel picchiettare e “far prescia” all’occupante di turno, talaltra, socialmente compita e istituzionale. Sarà un bel souvenir lungo 100 anni 100, al pari del lucchetto Viro apposto sulla ruota del telefono, per impedire fatue e svenevoli chiacchierate e della kitschissima sovracoperta nappata e damascata, per proteggere l’apparecchio dalla polvere. Mondo completato dal gettone marrone “ a doppia scanalatura”, sui cui lati, erano impresse sigle pre-logo della Stipel, in seguito Sip, infine Telecom. All’occorrenza utilizzato come moneta per scambi di minimo conto e martoriato dal Conte Nello Mascetti di Amici miei, nel disperato tentativo d’interloquire con la sua amata/dannata “Titty”, con la chiosa di una delle “supercazzole” più efficaci, non a caso culminante nel «come fosse di gettone».
Ancora, nei pernacchi anonimi di certa commedia che irrompevano nelle notti automatiche e meccaniche della provincia minore.
Mirabilmente adesso che patinatissimi spot assicurano che Life is Now è curioso registrare la graduale, ma inesorabile uscita di scena di una delle strutture fondamentali di città, soprattutto, di provincia. Impannucciate nella nebbia, inerpicate in strade abrase dal sole, arroccate fra curvoni di montagna, le cabine stabilivano il confine sociale tra natura e cultura. Notarilmente stabilivano con una telefonata ai genitori che s’avviava il tempo della vacanza, salvo, poi, ristabilire con l’ultima chiamata il ritorno a casa. L’andirivieni sociale, infatti, non era tanto delineato dal connesso/disconesso, per certi versi, atomizzato dell’attimo postmoderno, semmai, dalla presenza sicura e silente di postazioni telefoniche, sentinelle del costume sociale. Niente più girotondi, sbirciate, picchiettii di piedi, occhiate levate al cielo. Tutto passa. Anche le cabine.
Adesso, di questi tempi in cui cbasta digitare, sfiorare in sequenza tasti e icone corriamo il rischio di un fuorviante passatismo, incartapecoriti dal ricordo impresso nella memoria, però, però era proprio un’altro mondo. Già, gli elenchi telefonici raccontavano qualcosa di diverso: una ridda d’inserzioni, dal lattaio sottocasa al gommista “pregiato” e a buonmercato, sino alla pubblicità biricchina della Coppertone, grazie al cagnolino impertinente che svelava il “side B” di Jodie Foster. Le lunghe file per chiamare la pupattola che ci faceva girare la testa, il cui ricevitore, risultava occupato, mentre la lamiera si faceva torrida, nonché le eleganti scene cinematografiche, dove s’ordivano attentati e agguati, o, storie d’amore andavano a cominciare o finire non ci sono più. Tutto è comodamente reso più impalpabile nella sentenza da: «Pronto come stai?» al «Pronto dove sei?». Una vera e propria rivoluzione ontologica.
La cabina telefonica, come l’opposto della chiamata nomade, insomma, flessibile, connessa della società destrutturata, quindi della comunicazione a morsi e pezzetti. Lì la civiltà delle macchine, qui il software.
Prima il processo, ora la procedura tecnica. La pazienza e l’attesa rituale, talvolta scomposta nel picchiettare e “far prescia” all’occupante di turno, talaltra, socialmente compita e istituzionale. Sarà un bel souvenir lungo 100 anni 100, al pari del lucchetto Viro apposto sulla ruota del telefono, per impedire fatue e svenevoli chiacchierate e della kitschissima sovracoperta nappata e damascata, per proteggere l’apparecchio dalla polvere. Mondo completato dal gettone marrone “ a doppia scanalatura”, sui cui lati, erano impresse sigle pre-logo della Stipel, in seguito Sip, infine Telecom. All’occorrenza utilizzato come moneta per scambi di minimo conto e martoriato dal Conte Nello Mascetti di Amici miei, nel disperato tentativo d’interloquire con la sua amata/dannata “Titty”, con la chiosa di una delle “supercazzole” più efficaci, non a caso culminante nel «come fosse di gettone».
Ancora, nei pernacchi anonimi di certa commedia che irrompevano nelle notti automatiche e meccaniche della provincia minore.
Mirabilmente adesso che patinatissimi spot assicurano che Life is Now è curioso registrare la graduale, ma inesorabile uscita di scena di una delle strutture fondamentali di città, soprattutto, di provincia. Impannucciate nella nebbia, inerpicate in strade abrase dal sole, arroccate fra curvoni di montagna, le cabine stabilivano il confine sociale tra natura e cultura. Notarilmente stabilivano con una telefonata ai genitori che s’avviava il tempo della vacanza, salvo, poi, ristabilire con l’ultima chiamata il ritorno a casa. L’andirivieni sociale, infatti, non era tanto delineato dal connesso/disconesso, per certi versi, atomizzato dell’attimo postmoderno, semmai, dalla presenza sicura e silente di postazioni telefoniche, sentinelle del costume sociale. Niente più girotondi, sbirciate, picchiettii di piedi, occhiate levate al cielo. Tutto passa. Anche le cabine.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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