lunedì 26 novembre 2007

Ascolta bene Springsteen e scoprirai un romanziere (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 25 novembre 2007

Ci sono molti libri, su Bruce Springsteen. Numerosissimi in lingua inglese, ma parecchi anche in italiano. Dalle traduzioni delle celebri, e ormai invecchiate, biografie di Dave Marsh, Born to run del 1979 e Glory Days del 1987, all’accuratissimo American Skin di Ermanno Labianca. Eppure, finora, qui in Italia mancava un’opera che approfondisse adeguatamente il valore letterario di Springsteen, troppo spesso offuscato dalla sua immagine pubblica (mediatica) di grandissima rockstar.
Come un killer sotto il sole, appena pubblicato da Sironi, colma la lacuna. Curato da Leonardo Colombati, mette le cose in chiaro fin dal sottotitolo: Il grande romanzo americano (1972-2007). Vale a dire: prese singolarmente, le canzoni di Springsteen si esauriscono nell’ambito del rock; considerate nel loro complesso e con specifico riferimento ai testi, si innalzano al rango della migliore narrativa statunitense. Scena dopo scena, storia dopo storia, tracciano un affresco così vasto, così acuto, così partecipe, da competere con le grandi narrazioni librarie. Appunto: “il grande romanzo americano”. La massima aspirazione – “la nostra endemica fantasticheria”, ha scritto Leslie Fielder – di una letteratura, e di una nazione, gravate fin dalle origini da un deficit di storia e di amalgama. In una parola, di identità.
Colombati, che di Springsteen è un fan dichiarato, ma che possiede anche tutta le sensibilità e il background culturale necessari a trasformare l’ammirazione istintiva in apprezzamento consapevole, evita il rischio del monologo e costruisce, invece, un testo ricco e variegato. Che poggia soprattutto su tre elementi: nell’ordine, la lunga disamina con cui Colombati scandaglia il percorso di Springsteen e lo inquadra nella storia, musicale e non solo, dell’arte americana; poi la traduzione, con testo a fronte, di più di cento brani, presentati non in ordine cronologico ma sulla base di ipotetici, ma convincenti, fili conduttori; infine, una trentina di pagine nelle quali, sotto il titolo di “Seguire quel sogno”, è lo stesso Bruce a ripercorrere la propria vicenda, umana e creativa.
Il risultato è notevole. Moltissime domande trovano risposta. L’icona, ingigantita oltremisura dallo show-business, restituisce la scena all’artista; e cede il passo all’uomo.
E’ quello che si doveva fare. Osservare le sue carte, capire come le ha giocate. Come continua a giocarle. Anche se può sembrare un tavolo di poker, per gli interessi economici che smuove, non è detto che lo sia davvero.
Certo: lui ha in mano tutti e quattro gli assi. L’asso di quadri del successo: che ha avuto il suo apice a metà degli anni Ottanta, ai tempi di Born in the USA, ma che è ancora lontanissimo dall’esaurirsi; l’asso di cuori della passione: quella che ci mette egli stesso in tutto quello che fa, e quella – intensa come l’amore, solida come l’amicizia – con cui lo seguono i suoi innumerevoli fan, disseminati sia in America che nel resto del mondo; l’asso di fiori del talento artistico: ottima musica, buona voce, eccellenti performance dal vivo; e infine, inquietante per un verso, provvidenziale per un altro, l’asso di picche della Nuda Verità, che non ha paura di ritrarre la parte più amara dell’esistenza: quella in cui le cose non solo sono andate male, spazzando via i sogni giovanili, ma hanno anche cancellato ogni ulteriore residuo di speranza.
I primi tre assi balzano all’occhio. Li vedono subito anche quelli che il rock lo ascoltano distrattamente, che lo seguono per modo di dire, che lo mettono sullo stesso piano di qualsiasi altro genere di musica. Il quarto asso, invece, è riservato solo a chi è disposto ad avvicinarsi davvero. A chi non ha paura, a sua volta, di superare i confini dell’intrattenimento e della rassicurazione, per spingersi il più avanti possibile, e con un biglietto di sola andata, attraverso il Paese delle Illusioni Infrante. Delle Cose-come-sono. Attraverso l’America che diventa vittima di se stessa: là dove il “diritto alla ricerca della felicità” è solo una bella frase scritta sulla Dichiarazione di Indipendenza e la vita reale, al contrario, è dominata da una competizione esasperata. Estenuante per i singoli. Autolesionista per la società nel suo insieme.
Il quarto asso è quello dei testi. Che con l’andare degli anni sono cambiati profondamente, via via che Springsteen cresceva e il suo orizzonte, culturale ed esistenziale, smetteva di essere solo quello di un ragazzo inquieto del New Jersey, a caccia di affermazione ma a corto di studi. Il talento era un dono del cielo; tutto il resto andava conquistato sul campo. Il talento è la scintilla che permette di accendere il fuoco: la legna per tenerlo acceso te la devi andare a cercare da solo.
Springsteen non si è mai accontentato della prima cosa che gli capitava a tiro. Ha letto molto, ha viaggiato, si è aperto a ogni genere di impulsi umani ed artistici.
«In che modo stiamo al mondo e come vorremmo starci. Ecco cosa mi ha sempre interessato analizzare con il mio lavoro. La politica è implicita. Non voglio essere uno scrittore retorico né esprimere alcuna ideologia. Credo che sia stato Walt Withman a dire che ‘il lavoro del poeta è conoscere l’anima’».
Così, un po’ per volta, i suoi testi sono migliorati al di là delle più rosee aspettative, fino ad assumere, sul piano squisitamente artistico, un rilievo persino superiore alla stessa musica. Lui non rinuncia affatto alla potenza del rock, e al piacere degli show, ma sta bene attento a evitare fraintendimenti. L’alternativa non è tra divertimento e depressione. Non è vero che per stare bene si debba fare finta che vada tutto benissimo. L’obiettivo, piuttosto, è conservare la propria energia, la propria integrità, la determinazione a fare del nostro meglio, tutte le volte che dipende da noi.
In un mondo sempre più artefatto, e competitivo fino all’autodistruzione, Springsteen fa quello che può per resuscitare un senso diverso, e migliore, della vita individuale e collettiva. La parola d’ordine è condivisione. O “comunità”, se preferite.
(Leonardo Colombati, Come un killer sotto il sole, Sironi Editore, 2007)
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

1 commento:

Freccia Verde ha detto...

Grande Springsteen!
Sei forte Federico!
Bellissimo articolo.
Saluti.