Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia di giovedì 22 novembre
Non c’è traccia di rimpianto. Tantomeno una goccia instillata nel veleno dell’ipocondria reducistica di chi ha fatto e disfatto. Più che un libro, un volo vorticoso con i tratti somatici, quasi fisiognomici di un sapientissimo dell’industria culturale e bomber del mondo editoriale politico. S’intitola Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del’68, (Mondadori, Milano, 2007, pagg. 180, €16,50), il ritratto, ma anche il tratto di vita di Edmondo Berseli, editorialista del quotidiano la Repubblica e del settimanale L’espresso, nonché direttore della rivista Il Mulino.
Si tratta di un tono e di un approccio sentimentale, aperto che né fa i conti né concede sconti ad un lungo ma non “eterno” presente, preferendo carpire il contenuto, rispetto ai contenitori, le mete e non i mezzi. Il saggio di Berselli è difficile materia dell’attento recensore, poiché come sostenuto da Aldo Grasso su Il Corriere della Sera del 5 novembre 2007, l’idea di Berselli “spiegata con un apologo sulla messa preso a prestito da Luigi Meneghello, è che quel decennio “breve” chiamato volgarmente anni Sessanta è stato favoloso: in quegli anni “avvengono tutte le cose che devono avvenire, emergono tutti i protagonisti, si manifestano tutte le espressioni artistiche, linguistiche, culturali e musicali possibili”. Breve, brevissimo, ma fondamentale, sempre per Grasso, quale Bildung della rimembranza marginale, inutile, sottotraccia, ma altrettanto fondamentale, onde evitare il rischio incombente del trombonismo.
Utile ripasso per ripetenti del luogocomune e per annotatori generazionali che si stanno scaldando dentro e fuori dal campo dell’encomio generazionale nell’anniversario che più anniversario non si potrà: il ’68.
Al memoriale vestito a festa Berselli preferisce l’istantanea esistenziale e dégagé su e intorno al prima e non al dopo di traiettorie, non del tutto consegnate alla storia e, soprattutto, scevre da scontatezze e note consuete, fra sfrontatezza e lucidità intellettuale. Le vecchie famiglie politiche, oramai sconfitte dal modernariato avvilito d’idee e “opinionismi sterili” servono a farci vedere, con gli occhi di Berseli, una società e politica, cultura e costume, allegramente, avverbio non banale, sotto la stessa tettoia modellistica. Talvolta squinternata, talaltra azzeccatissima matrice del tempo e dall’aria nuova che, ogni tanto Berseli nel suo libro innalza a mantra, non c’era stata da prima.
Prima di ogni “post”, infatti, Paint it black dei Rolling Stones, Il Sorpasso e I mostri di Dino Risi, le minigonne e gli stivali policromi delle mocciosette londinesi, L’Equipe 84 non sono solo voci della rivalutazione, estrapolate a forza dall’oblio dell’ archivio informatico, ma l’esatta traiettoria che, andata e ritorno da Campogalliano, transitando per il Trentino, fraseggiava in un tempo dai molti luoghi, prima del tappo incapicatante della contestazione. Ma, un tema alla volta, “per carità”.
Gli anni d’oro, in realtà, sono racchiusi nel lustro: 1962-1967. Storicamente quelli del primo centrosinistra, fenomenologicamente raffigurati nei “capelloni” e nel beat che non era shake e hully-gully, ma proprio il beat. Centrifuga fonica di alto e basso, avanti e avantissimo nel dualismo sociale e antropologico fra Shel Shapiro, i Rokes e Maurizio Vandelli con l’ Equipe 84. Proprio con Shapiro Berseli è stato coautore dello spettacolo Sarà una bella società, a ribadire quel che c’era di speranzoso in un mondo di cose e consumi, ma non ancora afasicamente consumista. Vespe e mangianastri, chitarre Eko e la televisione, scossa modernizzante che “agitava i comportamenti singoli, che cambiava la presenza stessa degli individui nella scena pubblica”. Un motivo in più di speranza e ottimismo per chi si dichiara: “un perfetto antipolitico”, ludico e un tantino anarchico che a Giovanna Marini, preferiva Bob Dylan, Luciano Bianciardi, cui filologicamente ispirarsi nella definizione di anarchia, come “realtà collettiva basata sul consenso invece che sull’autorità” e Gianni Brera, Felice Gimondi e Luigi Meneghello. Tuttavia non credendo in niente, contro ogni immobilismo, ma nessun rimpianto, ma democraticamente proteso a riconnettere il filo di una memoria condivisa. Sanamente provinciale, ingenua, gentile, al pari del tono di Carosello e dell’ alto canone pubblicitario che condensava, fremente come un cantiere dell’autostrada, solcata da 500 e 600, poi, di tante e tante canzoni e canzoncine. Tutto ciò in Berseli è giudicato puro impulso riformista, progressista, emancipativo. Vale più una strofa degli Yarbirds piuttosto che un milione di pagine del Kulturpessimismus Francofortese e “Guccinius”, cioè Francesco Guccini che spiega che cosa stesse accadendo in America “è megli’è Marcuse!”.
Una modernizzazione gentile, dunque, passo a passo, soffio vitale, non ancora cristallizzato nell’utopia “oggettivamente” rivoluzionario, dove “ a monte” era la meta da scalare in bicicletta, purché non l’aborrita, nell’ultimo capitolo, Graziella e “a valle”, tutt’al più ci limonavi con le ragazze. Il ritmo gaudente e allegretto non va, però, confuso con l’operazione nostalgia, il revival e il vintage, ma all’approccio trasversale e, davvero, spontaneo, collaterale, energizzante, dove cose, mode e modi, non sono gli attuali idola tribus del marketing virale, ma l’occasione esistenziale, pre-politica che ti si para innanzi. E Adulti con riserva non era solo un monito allo spettatore cinematografico, piuttosto, la polizza eclettica nel cinema e nella televisione, nelle canzoni e nei vestiti e nel totale mutamento delle relazioni fra pari. La gioia per un bene e il bene gioioso del futuro, da viversi con buonumore, in delizioso e sgargiante cromatismo. Per la prima volta, forse, solo per una volta. Qui e là, infatti, accende una lucina il lato schopenaueriano di Berseli, quando confronta l’Italia che fu e quella che è. Impantanata, risentita, infelice, per mancanza di soluzioni e prospettive per una società individualizzata, ma non individualistica, atomizzata e non propulsiva, mesta e senza obiettivi.
Un tempo la politica la facevi e la pensavi nella canzoncina che fischiettavi e nel testo inglese che biascicavi. Adesso l’oligarchia autoreferenziale fa sembrare politica, ciò che è “gestione dell’esistente”. Mentre in quel lustro dorado, persino chi se ne stava coricato su una sdraio al mare, passivamente e inconsapevolmente, sentiva parole nuove, riconoscendoli in segni nuovissimi di una società e di una cultura che non se ne stavano ferme un minuto che uno.
Un mondo bambino, pieno di bambini e, quindi, di pomeriggi e non mattine e sere, albe e tramonti, dell’identico che dal’ 68 in poi, è ideologia inschiodabile e inascoltabile, come un disco che gira a vuoto. Già sentito, visto, letto, ponderato, “filtrato” dall’imperativo categorico del giovanilismo “fuori tempo massimo”. Dazio della costrizione di una società invecchiata e incartapecorita, seriosa, pedagogica, sterile, asettica. Al contrario del soffio allegro che scompagina il libro di Edmondo Berselli. Magari, basterebbe ricominciare dalla fine o dall’inizio?
Si tratta di un tono e di un approccio sentimentale, aperto che né fa i conti né concede sconti ad un lungo ma non “eterno” presente, preferendo carpire il contenuto, rispetto ai contenitori, le mete e non i mezzi. Il saggio di Berselli è difficile materia dell’attento recensore, poiché come sostenuto da Aldo Grasso su Il Corriere della Sera del 5 novembre 2007, l’idea di Berselli “spiegata con un apologo sulla messa preso a prestito da Luigi Meneghello, è che quel decennio “breve” chiamato volgarmente anni Sessanta è stato favoloso: in quegli anni “avvengono tutte le cose che devono avvenire, emergono tutti i protagonisti, si manifestano tutte le espressioni artistiche, linguistiche, culturali e musicali possibili”. Breve, brevissimo, ma fondamentale, sempre per Grasso, quale Bildung della rimembranza marginale, inutile, sottotraccia, ma altrettanto fondamentale, onde evitare il rischio incombente del trombonismo.
Utile ripasso per ripetenti del luogocomune e per annotatori generazionali che si stanno scaldando dentro e fuori dal campo dell’encomio generazionale nell’anniversario che più anniversario non si potrà: il ’68.
Al memoriale vestito a festa Berselli preferisce l’istantanea esistenziale e dégagé su e intorno al prima e non al dopo di traiettorie, non del tutto consegnate alla storia e, soprattutto, scevre da scontatezze e note consuete, fra sfrontatezza e lucidità intellettuale. Le vecchie famiglie politiche, oramai sconfitte dal modernariato avvilito d’idee e “opinionismi sterili” servono a farci vedere, con gli occhi di Berseli, una società e politica, cultura e costume, allegramente, avverbio non banale, sotto la stessa tettoia modellistica. Talvolta squinternata, talaltra azzeccatissima matrice del tempo e dall’aria nuova che, ogni tanto Berseli nel suo libro innalza a mantra, non c’era stata da prima.
Prima di ogni “post”, infatti, Paint it black dei Rolling Stones, Il Sorpasso e I mostri di Dino Risi, le minigonne e gli stivali policromi delle mocciosette londinesi, L’Equipe 84 non sono solo voci della rivalutazione, estrapolate a forza dall’oblio dell’ archivio informatico, ma l’esatta traiettoria che, andata e ritorno da Campogalliano, transitando per il Trentino, fraseggiava in un tempo dai molti luoghi, prima del tappo incapicatante della contestazione. Ma, un tema alla volta, “per carità”.
Gli anni d’oro, in realtà, sono racchiusi nel lustro: 1962-1967. Storicamente quelli del primo centrosinistra, fenomenologicamente raffigurati nei “capelloni” e nel beat che non era shake e hully-gully, ma proprio il beat. Centrifuga fonica di alto e basso, avanti e avantissimo nel dualismo sociale e antropologico fra Shel Shapiro, i Rokes e Maurizio Vandelli con l’ Equipe 84. Proprio con Shapiro Berseli è stato coautore dello spettacolo Sarà una bella società, a ribadire quel che c’era di speranzoso in un mondo di cose e consumi, ma non ancora afasicamente consumista. Vespe e mangianastri, chitarre Eko e la televisione, scossa modernizzante che “agitava i comportamenti singoli, che cambiava la presenza stessa degli individui nella scena pubblica”. Un motivo in più di speranza e ottimismo per chi si dichiara: “un perfetto antipolitico”, ludico e un tantino anarchico che a Giovanna Marini, preferiva Bob Dylan, Luciano Bianciardi, cui filologicamente ispirarsi nella definizione di anarchia, come “realtà collettiva basata sul consenso invece che sull’autorità” e Gianni Brera, Felice Gimondi e Luigi Meneghello. Tuttavia non credendo in niente, contro ogni immobilismo, ma nessun rimpianto, ma democraticamente proteso a riconnettere il filo di una memoria condivisa. Sanamente provinciale, ingenua, gentile, al pari del tono di Carosello e dell’ alto canone pubblicitario che condensava, fremente come un cantiere dell’autostrada, solcata da 500 e 600, poi, di tante e tante canzoni e canzoncine. Tutto ciò in Berseli è giudicato puro impulso riformista, progressista, emancipativo. Vale più una strofa degli Yarbirds piuttosto che un milione di pagine del Kulturpessimismus Francofortese e “Guccinius”, cioè Francesco Guccini che spiega che cosa stesse accadendo in America “è megli’è Marcuse!”.
Una modernizzazione gentile, dunque, passo a passo, soffio vitale, non ancora cristallizzato nell’utopia “oggettivamente” rivoluzionario, dove “ a monte” era la meta da scalare in bicicletta, purché non l’aborrita, nell’ultimo capitolo, Graziella e “a valle”, tutt’al più ci limonavi con le ragazze. Il ritmo gaudente e allegretto non va, però, confuso con l’operazione nostalgia, il revival e il vintage, ma all’approccio trasversale e, davvero, spontaneo, collaterale, energizzante, dove cose, mode e modi, non sono gli attuali idola tribus del marketing virale, ma l’occasione esistenziale, pre-politica che ti si para innanzi. E Adulti con riserva non era solo un monito allo spettatore cinematografico, piuttosto, la polizza eclettica nel cinema e nella televisione, nelle canzoni e nei vestiti e nel totale mutamento delle relazioni fra pari. La gioia per un bene e il bene gioioso del futuro, da viversi con buonumore, in delizioso e sgargiante cromatismo. Per la prima volta, forse, solo per una volta. Qui e là, infatti, accende una lucina il lato schopenaueriano di Berseli, quando confronta l’Italia che fu e quella che è. Impantanata, risentita, infelice, per mancanza di soluzioni e prospettive per una società individualizzata, ma non individualistica, atomizzata e non propulsiva, mesta e senza obiettivi.
Un tempo la politica la facevi e la pensavi nella canzoncina che fischiettavi e nel testo inglese che biascicavi. Adesso l’oligarchia autoreferenziale fa sembrare politica, ciò che è “gestione dell’esistente”. Mentre in quel lustro dorado, persino chi se ne stava coricato su una sdraio al mare, passivamente e inconsapevolmente, sentiva parole nuove, riconoscendoli in segni nuovissimi di una società e di una cultura che non se ne stavano ferme un minuto che uno.
Un mondo bambino, pieno di bambini e, quindi, di pomeriggi e non mattine e sere, albe e tramonti, dell’identico che dal’ 68 in poi, è ideologia inschiodabile e inascoltabile, come un disco che gira a vuoto. Già sentito, visto, letto, ponderato, “filtrato” dall’imperativo categorico del giovanilismo “fuori tempo massimo”. Dazio della costrizione di una società invecchiata e incartapecorita, seriosa, pedagogica, sterile, asettica. Al contrario del soffio allegro che scompagina il libro di Edmondo Berselli. Magari, basterebbe ricominciare dalla fine o dall’inizio?
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
1 commento:
Avete fatto bene a postare la foto del film il sorpasso, quel film secondo me rappresenta al meglio quella generazione. Da qualche parte (credo Wikipedia) avevo letto che i due protagonisti del Sorpasso rappresentavano la stessa persona. Il giovane Trintignant è il ragazzo ancora privo di illusioni, con dei valori (la famiglia, il lavoro, una posizione, un buon matrimonio) mentre Cortona è l'uomo cresciuto, disilluso dalla vita e da tutti i valori che una società come quella italiana degli anni sessanta imponeva.
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