mercoledì 21 novembre 2007

Il "ritorno alle fogne" non ci riguarda (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 21 novembre 2007

Vera, sussurrata, pronunciata “in camera caritatis”, forzata dai media o inventata dai giornalisti quella frase pesa come un macigno: «An? Dalla fogna li ho fatti uscire e nella fogna li faccio tornare». Ripetutamente, per ben due volte, nei giorni scorsi i giornali hanno riportato e sottolineato questa presunta minaccia del Cavaliere. Ora, a parte il volgare e sinistro richiamo alla violenta stagione degli anni Settanta, il decennio appunto del “fascisti carogne, tornate nelle fogne”, c’è qualcosa in tutta questa vicenda che tende a rilanciare una insidiosa leggenda metropolitana. La quale poi, in assenza di una fondata e definitiva confutazione, tenderebbe a insinuarsi nello stato d’animo del popolo della destra, convincendolo di un dato che non corrisponde a realtà e condizionandone la consapevolezza politica. Solo una vulgata di tale natura strumentale, quale quella che anima anche il saggio Il passo delle oche di Alessandro Giuli, può ad esempio arrivare a sostenere che – addirittura – è «grazie a Berlusconi se il fascismo è diventato materia di revisione nelle accademie». E si tratta della stessa vulgata che, appunto, legge la vicenda storica politica della destra italiana tutta dentro un presunto repentino passaggio «dalle catacombe ai fasti del potere».
Spiace ricordarlo a tutti questi detrattori, ma la destra politica italiana non ha e non può avere problemi di legittimazione e il suo ruolo centrale nel quadro politico se lo è conquistato da sola con un lungo processo durato per tutti gli anni Ottanta e i primi Novanta. Non a caso Mario Pirani colloca An tra le forze politiche radicate nella comune storia del Novecento italiano e che, in forza di una sorta di mutuo riconoscimento dovuto a questa matrice, riescono a comprendersi tra di esse e a differenziarsi dalle “componenti antipolitiche”.
Del resto, il decennio peggiore della storia della destra italiana in termini sia di tragedie umane che di incomunicabilità politica, si era già chiuso alla fine degli anni Settanta. Le elezioni del giugno ’79 avevano registrato una buona tenuta del partito e avevano archiviato l’esperienza di Democrazia nazionale e si apriva, proprio nell’anno che inaugurava il fenomeno del “riflusso”, una nuova fase. E al di là e oltre il politichese, l’avvio degli anni Ottanta segnerà un percorso lento ma
inarrestabile di aperture e legittimazioni esterne. Al centro del fenomeno un “disgelo” verso la destra originatosi da una serie intercciata di fenomeni politici e culturali. Sul versante politico, la caduta della radicalizzazione – anche violenta – dei primi anni Settanta; sul versante culturale la tendenziale storicizzazione del fascismo e la propensione a un’analisi non più pregiudiziale sulle proposte della destra.
Nel complesso, furono due già allora i nodi irrisolti con cui il Msi – uscito dal ghetto degli anni di piombo – dovette fare i conti: la “fuoriuscita dal tunnel del fascismo” come mito incapacitante della destra (così la indicherà Marco Tarchi nell’81) e il complesso (radicato dai tempi del post- Michelini) di non poter svolgere un ruolo significativo in una “strategia delle alleanze” con le altre forze politiche. E proprio il tentativo di fornire risposte a questi due nodi rappresenterà – al di là dei percorsi suggeriti o intrapresi – le vicende della destra degli anni Ottanta e la sua “logica del superamento”.
Non a caso, nell’arco di due-tre anni si determinava progressivamente una nuova stagione politica all’insegna di un’inedita civiltà del dialogo. Così, nel febbraio dell’83 il presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, andava a trovare in ospedale l’agonizzante Paolo Di Nella, militante ventenne del FdG romano che morirà per le sprangate ricevute mentre attaccava manifesti per una battaglia ecologista. E lo stesso segretario del Pci, Enrico Berlinguer, inviava un telegramma di solidarietà alla famiglia del ragazzo. In quel clima, proprio partendo dal “caso Di Nella” il giornalista Salvatore Sechi annotava sul Giorno: «A me pare che con la destra, conservatori e riformatori in Italia devono cominciare a discutere. Non più ghetto, voto nel frigorifero, ma blocco di forze da utilizzare, rimettendole nel circuito di possibili alleanze».
E nell’83, anno del primo governo Craxi, il Msi cominciò a trovarsi, sia pure flebilmente, nel cono di luce di una strategia dell’attenzione e di un pieno recupero al gioco democratico. Lo stesso Giorgio Almirante raccontò così il colloquio istituzionale avvenuto in occasione delle consultazioni per la formulazione del primo governo a guida socialista: «Il nostro colloquio non fu niente affatto formale: durò un’ora. Voleva sapessimo che non era mai stato favorevole alla formula dell’arco costituzionale. Mi disse che potevo ripetere che egli non aveva mai accennato, né tanto meno avrebbe sostenuto, la ghettizzazione del Msi, forza legittimamente presente in Parlamento. Così a mia volta dissi ai giornalisti che nei confronti della presidenza socialista il Msi avrebbe tenuto un’opposizionecostruttiva».
E proprio sul tema comune delle “riforme istituzionali” si concretizza un primo episodio di sghettizzazione. L’occasione è fornita da un grande convegno sulle riforme organizzato dal gruppo senatoriale del Msi ad Amalfi: per la prima volta partecipano esponenti di altri partiti, dal dc Bonifacio al radicale Spadaccia, dal socialista Janelli agli accademici Armaroli e De Vergottini. E sino dal Congresso nazionale del 1984 il Msi accenna a alla disponibilità di un’apertura di dialogo con altre forze politiche. Nel dicembre dell’anno precedente, Almirante era riuscito a organizzare un altro convegno sulle riforme istituzionali con la partecipazione del liberale Aldo Bozzi e del socialista Rino Formica. E in occasione del quarantennale del partito – 26 dicembre ’86 – Giorgio Bocca scriverà sull’Espresso che «il Msi non è più il partito dei reduci, la società di mutuo soccorso fra i sopravvissuti di Salò… Che cosa è allora oggi il Msi? Noi diremmo che è un partito popolare di destra». E proprio in quei giorni Maurizio Gasparri – allora presidente del Fuan – annotava nell’introduzione al libro Noi rivoluzionari di Adalberto Baldoni: «Oggi non siamo più i paria e ci può capitare di partecipare a un dibattito con Emilio Vesce, oggi radicale, ieri fondatore di Potere Operaio, o di parlare dopo il comunista Renato Nicolini a una manifestazione».
Poi, l’87: Almirante cede la segreteria e al Congresso di Sorrento viene eletto segretario il trentacinquenne Gianfranco Fini. Ancora nel ’90, annota Bruno Vespa in Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi (Mondadori), il discorso al congresso era in parte infarcito di nostalgie e vecchi schemi: «Allora – rispondeva, col senno di poi, Fini nel 2004 – non esisteva logica al di fuori di quella. C’era tra noi qualche eretico che immaginava di sanare da destra l’equivalente di quella che era stata la scissione a sinistra del 1914 tra l’anima nazionalista del socialismo e quella massimalista. Ma erano pochi. Per la svolta era presto…». Eppure, il percorso di fuoriuscita dalla delegittimazione degli anni Settanta proseguiva. E se storicamente si cerca un atto di nascita per la destra di governo esso va individuato negli avvenimenti del ’93, in occasione delle elezioni amministrative che spostarono milioni di voti in direzione dei candidati missini. In quell’anno, infatti, l’entrata in vigore della nuova legge per l’elezione diretta dei sindaci e la contemporanea disarticolazione del vecchio sistema partitico a centralità Dc per via di Tangentopoli consentivano al Msi di catturare una vasta fetta di opinione pubblica che in precedenza votava per le forze del pentapartito. E a partire dalla primavera del ’93 il Msi conquista, da solo o attraverso liste e alleanze civiche, le amministrazioni di centinaia di comuni grandi e piccoli. Personaggi che per anni, per decenni, avevano condotte battaglie di opposizione e di ostruzionismo si ritrovavano d’un colpo al centro della scena, amministravano città piccole o di media grandezza. E la destra di governo nasceva nei fatti. Gli uomini di quello che fino al giorno prima era il piccolo partito della destra d’opposizione si riappropriavano d’un tratto delle due dimensioni della politica verso le quali sembravano come condannati da una preclusione sin dai fatti del luglio ’60: l’assunzione di incarichi amministrativi e di governo e la determinazione di una strategia delle alleanze.
A quel punto sarà la società civile a fornire l’ultimo atto. In particolare sarà la televisione a registrare lo sdoganamento definitivo. La trasmissione è Il Rosso e il Nero, su RaiTre: il conduttore, Michele Santoro, si collega con sandro Ruotolo da piazza campo de’ Fiori a Roma. Nella Capitale non c’è più la maggioranza al Comune e si profila un voto anticipato con la nuova legge sulla elezione diretta dei sindaci. «Diteci voi il vostro sindaco», così Santoro lancia un sondaggio tra i telespettatori romani per trovare i possibili candidati. Dopo quasi tre ore di trasmissione, la sorpresa. Al secondo posto nel sondaggio, dopo Francesco Rutelli – già autocandidatosi – spunta l’inatteso nome del segretario del Msi, Gianfranco Fini: 1206 telefonate contro le 284 di Renato Nicolini, le 73 di Marco Pannella, le 33 di Franco Carraro e lo zero assoluto dei politici dell’area dc. È lo sdoganamento definito della destra di governo. Era l’8 aprile del ’93. La destra, insieme alla Lega, stava emergendo come la nuova forza politica del post-Tangentopoli. I giornali, i commentatori, i politologi ne presero atto. E a novembre, a differenza della vulgata che vorrebbe il contrario, anche l’imprenditore di successo Silvio Berlusconi, in procinto di entrare in politica, ammetterà la sua scelta per Fini se fosse stato cittadino romano. Nella capitale il leader della destra raggiunge, nel primo turno, il 35,8 per cento e nel turno di ballottaggio il 46,9 per cento. La legittimazione, è il caso di dirlo, proveniva dagli elettori e non certo da benedizioni di sorta. E, a quel punto, tutto il percorso degli anni Ottanta-Novanta trovava il suo sbocco naturale. La destra tornava a rappresentare a tutti gli effetti uno dei soggetti protagonisti del quadro politico. Ora, quindici anni dopo, chi può solo pensare di annullare tutto ciò?
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, di Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Tesi parzialmente condivisibile, se Berlusconi non ha "tirato fuori dalle fogne" i postmissini, di certo ha dato loro una grande mano.

Comunque complimenti per il blog,
Aiace
www.alalazein.info

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie, altrettanto!

Il problema, tuttavia, potrebbe essere posto anche così: ma non è che è stato il Msi a sdoganare Berlusconi? Imprenditore spregiudicato ed ex craxiano in un'epoca in cui Bettino non è che godesse di grandi simpatie...

Alla prossima.

Anonimo ha detto...

Lo sdoganamento era necessario per sopravvivere lo disse anche Almirante a suo tempo con il detto "Non rinnegare non restaurare" e non è che sia una cosa che risalga a Fini.

Anonimo ha detto...

L'articolo di Luciano viene ripreso oggi dal Corriere con un'intervista a Michele Santoro che gli dà ragione sul fatto che lo sdoganamento di Fini risale a "Il rosso e il nero" del '91.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Sì, mi ha fatto molto piacere. La lettura di Luciano è molto più seria di quella che Solinas ha fatto sul Giornale... ma adesso posto il Conan di oggi.

Anonimo ha detto...

Mi pare ovvio che, senza A.N., Berlusconi non avrebbe fatto niente. Dopo, a mio avviso, ha pensato di fare da solo. E non da ieri. afam